La questione meridionale e la metodologia costituzionale per il superamento degli squilibri territoriali

Zirillo Bruno 30/10/08
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 Indubbiamente sia Regionalismo che Federalismo sono termini dal sicuro fascino istituzionale, l’ideale conditio sine qua non per la dimostrazione delle capacità realizzative politiche individuali (partitiche e personali) all’interno dei confini regionali, ora non più gerarchicamente subordinata al prestigio della partecipazione alle Camere elettive nazionali.

Il fascino delle espressioni verbali, però, è frequentemente accompagnato da aspetti oscuri ai quali concorre la genericità delle statuizioni di riferimento, l’assenza di una chiara prospettiva e di un’obiettiva metodologia attuativa della legge di riforma (ancora essa stessa oggetto di solidale correzione).

All’interno della società italiana convivono delle deviazioni sistemiche e comportamentali tali da inficiare gli effetti della centralità governativa degli enti territoriali.
La principale di esse è, per storica complessità, rappresentata dalla questione meridionale, già tristemente nota dalla fondazione del Regno d’Italia. Essa data da allora ed investe le modalità con cui avvenne l’unificazione, modalità che avrebbero impoverito le regioni meridionali, rette su un’economia essenzialmente agricola, favorendo quelle settentrionali dotate di un alto tasso d’industrializzazione e maggiormente coinvolte nel circuito commerciale europeo in virtù dell’agevole collocazione geografica.[1] 
Dell’importanza macro ed extra sociale del divario economico tra l’area centro-settentrionale e quella meridionale ed insulare furono consapevoli i costituenti, i quali, attivamente, elevarono al rango costituzionale l’impegno comune per “la valorizzare del Mezzogiorno e delle Isole” da ottenersi per mezzo dell’assegnazione, previa delibera legislativa statale, di “contributi speciali” a favore di singole Regioni.[2]
La lettera dell’articolo lasciava presupporre un futuro centrale ruolo allocativo dei governi regionali quali entità intermedie tra lo Stato e le aree periferiche, affinché grazie alla loro diretta conoscenza delle peculiarità strettamente locali, le politiche di assistita promozione potessero riscontrare maggiore efficacia.[3]
A partire dal 1950, la questione meridionale fu affrontata con un massiccio intervento centrato sull’azione della Cassa per il Mezzogiorno, la quale avrebbe dovuto dirigere i flussi di risorse in modo da sostenere politiche di sviluppo tali da portare il reddito delle Regioni meridionali ai livelli di quelle settentrionali.
In altri termini, la solidarietà non doveva essere più fine a se stessa, bensì indirizzata idealmente a colmare il divario di produttività esistente tra nord e sud, concentrandosi sulla costruzione di grandi infrastrutture in grado di indurre lo sviluppo dell’attività economica nelle aree depresse, sia per l’impatto diretto, sia per l’indotto.
Purtroppo, la bontà dei propositi non si è, poi, ripetuta nei risultati, a dir poco deludenti: i trasferimenti, pur ingenti, sono stati indirizzati in parte alle famiglie, alimentando i consumi e, indirettamente, le industrie settentrionali([4]) ed in parte verso industrie pubbliche a bassa produttività([5]), contribuendo, così, ad aumentare le distorsioni e lo sperpero di denaro pubblico. Malgrado ciò il divario di produttività non sembra essere diminuito sensibilmente, anzi aggravatosi per alcuni settori.
Le responsabilità non sono facili da attribuire ma non viene integrata alcuna fattispecie delittuosa se esse vengono distribuite equamente tra: le classi politiche centrale e meridionale, volte, con eccessiva frequenza, alla diffusa pratica clientelare più che ai veri interessi dei cittadini; i potenti gruppi di interesse del nord del Paese; la lacunosità del sapere imprenditoriale (a volte anche “maldestro”) e la coartazione della società produttiva meridionale; i perversi interessi delle mafie uniti ad una cultura criminale ancora, in parte, retrograda anche economicamente.
Un esame severo della situazione meridionale non può sottrarsi dal valutarne l’interferenza con la discussione sul federalismo, nel senso che l’attuazione del regionalismo in Italia solo nella migliore delle ipotesi non altererà il flusso attuale dei trasferimenti dal settentrione verso il meridione, certamente non li aumenterà in futuro, essendo, anzi, probabile una diminuizione.
Purtroppo se le distorsioni del passato costituiscono una nozione generalmente assimilata, la gravità del problema permane in tutta la sua negatività, senza ostentare segni di cedimento, anzi mostrando discreta abilità di adattamento al dinamismo sociale.
Tra le critiche mosse alla teoria del federalismo, la più inquietante è quella fondata su una sorta di sfiducia cronica verso le classi politiche meridionali, reputate inidonee all’amministrazione della cosa pubblica.
Il federalismo, anche solo fiscale, porterebbe a conseguenze notevolmente restrittive per il Sud, perché l’azione dello Stato centrale, pur non sempre effettiva ed efficace, è stata fino ad ora preferibile a quella che le autonomie locali potrebbero espletare secondo il nuovo quadro costituzionale.
Però, un così esteso pessimismo non è totalmente condivisibile perché al sacrificio ed all’intelligente confronto con la difficile transizione potrà seguire un futuro funzionale assetto governativo regionale, in grado, comunque, di soddisfare (seppur “al ribasso”) le esigenze delle collettività locali.
Il detto “di necessità virtù” varrà anche per la questione meridionale e se da sempre l’uomo ha saputo contemperare istinto, ragione ed ambiente, saprà imparare a convivere anche col regionalismo.
Il meridione e le sue genti dovranno investire su se stessi e perché l’investimento possa sopravvivere al principio della sua stessa manifestazione è, già da ora, vitale la creazione di un sistema di protezione ad hoc per la tutela dell’iniziativa privata, indipendentemente dalle disponibilità finanziarie statale e / o regionali. Nel merito, qualsiasi logica preventiva, di vigilanza e repressiva (non solo retributiva) dovrà trovare attuazione in complemento a politiche persuasive della bontà del legale agire comune per il riscatto del Sud agli occhi dei miscredenti e, soprattutto, di se stesso.  
E’ questo lo scatto d’orgoglio che dovrà rendere competitivi nel solo segno della rettitudine comportamentale, sociale ed istituzionale.
Indipendentemente dai buoni propositi e dalle virtù da valorizzare in termini assoluti, la realtà della disomogenea capacità produttiva territoriale rimane e bisognerà continuare ad affrontarla potendo contare, però, su minori certezze rispetto al passato.
Infatti, il dettato del c.5 del nuovo art.119 Cost. presenta un’evidente genericità nella previsione dell’intervento suppletivo statale, potenzialmente ampliandone l’ambito applicativo, ma a contenere la portata positivamente assistenziale provvede la specificazione dei soggetti istituzionali ipoteticamente beneficiari. Alla precedente impostazione che voleva la Regione quale unico ente destinatario dei contributi speciali, è stata preferita l’introduzione di un rapporto di sussidiarietà diretta tra lo Stato e gli enti territoriali maggiormente forieri di progettualità operativa.
Un interrogativo si pone circa le modalità di selezione delle istanze meritevoli del sostegno sussidiario ed al quale potrà rispondere solamente la futura legge di attuazione costituzionale.
Di sicuro i principi reggenti l’attività della pubblica amministrazione dovranno sostanzialmente essere presi in considerazione oltre al criterio della migliore idoneità al perseguimento della finalità eletta. E’ evidente, invece, il favore verso la meritocrazia comportamentale degli enti territoria- li, poiché essi saranno protagonisti della competizione per l’assegnazione degli ausili statali, vivendo, in tal modo, la realtà degli effetti razionalizzanti della riforma.
Quando si fa riferimento alla dinamica dei flussi finanziari dal centro verso la periferia, o comunque tra aree geograficamente distinte, non si può omettere di richiamare anche il c.3 dell’art.119 Cost.. Qui può essere ricordato principalmente il mutamento qualitativo e (e non del tutto opportunamente) anche quantitativo del meccanismo di perequazione, soprattutto a partire dal momento in cui la devoluzione dalla definizione cartacea diverrà realtà quotidiana.
L’estensione all’ambito finanziario del principio di sussidiarietà, almeno in teoria, sarà certamente un valido sostegno al quale poter riferire possibili invocazioni solidaristiche, però, la sua reale efficacia dipenderà dalla definizione pratica che ne verrà coniata, in quanto non è chiaro se esso dovrà ispirare il meccanismo di cui al c.3 dell’art.119 Cost. oppure costituire un ulteriore fonte di solidarietà finanziaria che andrà ad aggiungersi a quella prevista al c.5 del medesimo articolo. Personalmente, auspicherei che il suo impiego avvenisse quale metodo per la trasformazione dell’intervento di cui al citato c.5 dell’art.119 Cost. da eccezionale a sistemico.
Auspicabile sarà, altresì, il mantenimento (pur mascherato) del carattere verticale dello strumento perequativo in quanto una relazione immediata tra enti finanziatori e finanziati vedrebbe questi ultimi facilmente esposti al ricatto demagogico di istanze politiche a forte presa locale e poco conoscitrici della storia della Nazione.
Pertanto, al fine di evitare l’accentuarsi di infondate e controproducenti rivendicazioni territoriali, è bene che lo Stato perseveri nella sua opera di mediazione istituzionale nel rispetto delle esigenze locali secondo procedure obiettive e collegialmente definite.
Sarà sempre opportuno ricordare che se il sacrificio imposto dalla solidarietà è, purtroppo circoscritto, il bacino dei consumi è nazionale, pur restando le aree produttive fortemente localizzate in precisi e storici ambiti territoriali.
 
Dott. Bruno Zirillo


[1] Non a caso i primi studi sul residuo fiscale risalgono alla persona di F. S. Nitti e datano 1897. Si fa riferimento all’opera Nord-Sud ed il cui contenuto è stato oggetto di richiamo nel corso del capitolo I.
[2] Norma al comma 3 del previgente art.119 della Costituzione.
[3] Efficacia che il nuovo art.119 Cost. sembra escludere.
[4] Si riuscì a stimolare la crescita dei consumi non, invece, la promozione della necessaria cultura imprenditoriale che permettesse l’impiego dei trasferimenti nella produzione territoriale dei beni di consumo.
[5] Esempio è il ruolo della Gepi la cui attività si sostanziò, nella realtà, nell’acquisizione pubblica di aziende prossime all’insufficiente produttività al solo fine di mantenere la stabilità occupazionale non curando la precarietà derivante dalla mancanza di politiche di rilancio industriale.

Zirillo Bruno

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