La prova nei procedimenti di disconoscimento ed accertamento giudiziale della paternità: gli elementi di prova utilizzati dal giudice e la prova del DNA.

Carla Previti 19/06/14
Scarica PDF Stampa

Le due azioni previste dall’Ordinamento in tema di accertamento della genitorialità biologica, anche in contrasto con quella legittima, sono rappresentate dal disconoscimento della paternità e dalla dichiarazione giudiziale di paternità (o maternità). Esse presentano caratteristiche diverse, anche dal punto di vista dei requisiti probatori. Nell’azione giudiziale di paternità, infatti, prevale il principio del favor veritatis, rispetto a quello del favor legitimitatis,  in quanto si verte in materia di diritti inviolabili, quale è quello alla genitorialità – costituivo dell’identità personale dell’individuo – del quale il soggetto richiedente è stato privato per effetto del mancato riconoscimento. Nell’azione di disconoscimento, invece, in caso di accertamento positivo della mancata corrispondenza tra filiazione legittima e biologica, si determina la privazione sopravvenuta dello status di figlio legittimo, per cause indipendenti dalla volontà e dalla responsabilità del soggetto destinato a subire gli effetti di tale azione, laddove, nell’azione di dichiarazione della paternità, in caso di accertamento positivo, lo status di figlio viene acquisito.

Fondamentale, in materia, è stato l’intervento della Corte Costituzionale, la quale, con la sentenza n. 266/2006, ha definitivamente escluso la necessità della prova pregiudiziale dell’adulterio per poter accedere alla prova ematologica, valorizzando la preminenza e la rilevanza da un punto di vista probatorio, in ragione della univocità di risultato e del grado di certezza che tale tipo di prova è in grado di fornire. Tale pronuncia, in sostanza, da un lato ha sottolineato la difficoltà pratica nel fornire la prova dell’adulterio e, dall’altro, la risolutività della prova scientifica che costituisce l’unico mezzo idoneo a pervenire ad un reale accertamento sull’esistenza o meno della filiazione.

Sulla scorta dei summenzionati principi, si è espressa anche la Corte di Cassazione, nel riconoscere rilievo preminente alla prova ematologica, in ragione del notevole grado di affidabilità, da utilizzarsi anche nei giudizi di disconoscimento della paternità, giungendo ad affermare che non solo il giudice di merito deve disporre gli accertamenti genetici, anche in mancanza di prova dell’adulterio, ma che deve, altresì, trarre elementi di prova ex art. 116 c.p.c., dall’eventuale rifiuto di sottoporsi al prelievo (Cass. civ. Sez. I, 22.2.2007, n. 4175, in Pluris).

Tale circostanza, tuttavia, non esclude la necessità di procedere, comunque, all’accertamento istruttorio sull’adulterio, pur nella consapevolezza dell’oggettiva difficoltà pratica di fornirne la prova (spesso presuntiva o de relato), dal momento che l’azione di disconoscimento di paternità è esperibile soltanto in presenza di determinate condizioni tipizzate, non suscettibili di interpretazione analogica, ai sensi degli artt. 233 e 235 c.c.. La Corte Costituzionale ha precisato sul punto che, sotto il profilo probatorio, le circostanze di fatto riguardanti la sfera intima dei rapporti interpersonali, come quelle concernenti relazioni sentimentali o sessuali, normalmente non sono accertabili mediante prova diretta, bensì attraverso la prova presuntiva raggiunta mediante la concordanza di indizi probanti, nonché attraverso prove testimoniali che riferiscono circostanze conosciute de relato. Attraverso tali prove ed indizi, si forma, pertanto, il quadro probatorio che il giudice di merito può utilizzare in entrambi i procedimenti, ma, soprattutto, in quelli aventi ad oggetto diritti personalissimi attinenti alla sfera intima ed emotiva.

La cosiddetta analisi dei polimorfismi del DNA, ha, di fatto, sostituito, le precedenti analisi probabilistiche basate sull’utilizzo dei marcatori genetici, proprio in ragione dell’elevato grado di certezza in ordine al raggiungimento della verità biologica. Essa costituisce, come già osservato, l’unico mezzo di prova diretto e non presuntivo della paternità, divenuto sempre più frequente nella prassi giudiziaria e viene effettuata procedendo al confronto tra il profilo genetico del figlio con quello di entrambi i genitori; una volta individuate nel figlio le caratteristiche genetiche di provenienza materna, viene valutato se vi sia o meno corrispondenza con quelle di provenienza paterna e, in caso negativo, l’indagine si conclude con l’esclusione certa della paternità. Nel caso, invece, in cui venga accertata una compatibilità fra padre e figlio, viene determinata la percentuale di probabilità statistica che il soggetto in esame sia effettivamente il padre biologico.

A conferma dei suesposti principi, si riportano alcune pronunce della Corte di Cassazione sul tema:

Caso 12. – Filiazione naturale – dichiarazione giudiziale di paternità e maternità – prova della paternità naturale – elementi indiziari – “tractatus”, “fama” ed indagini ematologiche eseguite su parenti del preteso genitore – ammissibilità – criteri di valutazione da parte del giudice.

Cass. civ. Sez. I, 22.1.2014, n. 1279, in Pluris.

Fatti e domande delle parti: accertata con sentenza del Tribunale la paternità di Tizio, nei confronti di Caio, sulla base di prove testimoniali e consulenza tecnica di natura genetica, Tizio decedeva. Avverso tale pronuncia la figlia ed erede legittima di Tizio proponeva appello deducendo l’erronea valutazione delle risultanze probatorie, ma la Corte d’Appello confermava la pronuncia di primo grado, affermando, in particolare, che dalle deposizioni rese emergevano elementi comprovanti una lunga relazione amorosa tra Tizio e la madre di Caio, suffragati, altresì, dall’esito della consulenza immunologica che aveva evidenziato una compatibilità pari circa al 99 per cento con i campioni biologici di prossimi congiunti di Tizio, messi a confronto. La figlia legittima di Tizio proponeva ricorso per cassazione sulla base di due motivi, concernenti rispettivamente l’asserita omessa e contraddittoria motivazione per avere la Corte d’Appello valutato erroneamente le deposizioni testimoniali e l’asserita omessa motivazione in relazione alla valutazione degli esiti delle indagini emato – genetiche. La Corte di Cassazione rigettava il ricorso perché infondato ed  inammissibile. Ribadito il principio in base al quale in sede di legittimità non è concessa una diversa valutazione dei fatti e delle risultanze probatorie, in quanto alla Corte è concesso il potere di controllare sotto il profilo logico – formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione effettuati dal giudice di merito, ha affermato: che dalle deposizioni rese era emersa la relazione durata diversi anni tra Tizio e la madre di Caio, durante la quale quest’ultimo era nato ed al cui mantenimento Tizio aveva anche contribuito; che l’art. 269 c.c. non pone alcuna limitazione in ordine ai mezzi attraverso i quali può essere provata la paternità naturale e che la prova, pertanto, può anche essere di natura indiziaria, nonché raggiunta attraverso una serie di elementi presuntivi che, valutati nel loro complesso, per la loro attendibilità e concludenza, risultino idonei a fornire la dimostrazione rigorosa della paternità. Precisava, inoltre, che nell’ambito di tali circostanze indiziarie sono utilizzabili come elementi di giudizio il tractatus (rapporto fra l’asserito genitore e la persona a cui favore si chiede l’accertamento di paternità che deve averlo trattato come un figlio, provvedendo al mantenimento, all’istruzione e all’educazione) e la fama (visibilità di tale rapporto anche all’esterno nelle relazioni sociali), in quanto indicativi dello status di figlio naturale, emergenti entrambi dalle testimonianze espletate. Rilevava, infine, come tali risultanze fossero state confermate dalla consulenza immuno – ematologica effettuata sulla base dei campioni biologici del figlio, della madre e di un fratello di Tizio, il cui esito era stato una compatibilità di parentela pari al 99 per cento e che alle indagini ematologiche e genetiche viene attribuita sempre maggiore rilevanza in ragione dell’alto grado di affidabilità di tale prova.

Particolarità del caso: in presenza di una motivazione adeguata ed immune da vizi giuridici, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, in quanto ha ritenuto corretta la valutazione delle risultanze probatorie – nell’ambito dell’ampiezza dei mezzi di prova, anche di natura indiziaria e senza alcuna preclusione, ai sensi dell’art. 269 c.c. – effettuata dalla  Corte d’appello  esaminando i singoli elementi acquisiti, sia singolarmente che in correlazione tra loro e nel contesto storico – sociale di riferimento, che l’ha indotta all’accertamento del rapporto di filiazione oggetto di causa.

Caso 13. – Filiazione – dichiarazione giudiziale di paternità e maternità – mezzi di prova – criteri di valutazione da parte del giudice.

Cass. Civ., Sez. I, 29.10.2013 n. 24361, in Pluris.

Fatti e domande delle parti: Tizio proponeva al Tribunale un’azione azione di accertamento della paternità naturale di Caio e chiedeva che quest’ultimo fosse dichiarato suo padre. Caio si costituiva in giudizio opponendosi a tale domanda che, invece, all’esito dell’espletata istruttoria, veniva accolta. La Corte d’Appello confermava tale pronuncia e Caio proponeva ricorso per cassazione, sulla base di due motivi  concernenti, rispettivamente, la pretesa violazione dell’art. 269 c.c. in quanto l’accertamento di paternità si sarebbe fondato esclusivamente su di un semplice indizio consistente nel rifiuto del ricorrente di sottoporsi ad esame ematologico ed il preteso vizio di motivazione in ordine all’affermata sussistenza di rapporti sessuali con la madre di Tizio, che, a torto, il giudice aveva considerato riconosciuti in base ad una errata lettura delle risultanze processuali. La Corte rigettava il ricorso ritenendo infondati entrambi i motivi. In particolare, richiamava l’art. 269 c.c. in base al quale ai fini dell’accertamento della paternità naturale può essere utilizzato qualsiasi mezzo di prova e che, conseguentemente, il giudice di merito può basare il proprio giudizio inerente l’accertamento del rapporto di filiazione, anche su risultanze probatorie di valore indiziario; specificava, altresì, che nella fattispecie la Corte d’Appello aveva correttamente ritenuto ingiustificato il rifiuto di Caio di sottoporsi all’esame del DNA e che tale elemento fosse confortato dall’ammissione da parte di Caio dell’esistenza di rapporti sessuali intercorsi con la madre di Tizio, negando legittimamente l’ammissione delle prove orali richieste da quest’ultimo, ritenute prive di pregio.

Affermava, infine, che la circostanza dedotta da Caio che la madre di Tizio avesse intrattenuto relazioni amorose nel medesimo periodo, non escludeva affatto la relazione con Caio ed il rapporto di filiazione, ribadendo il principio in base al quale l’ingiustificato rifiuto di sottoporsi alle indagini ematologiche, aveva correttamente assunto la rilevanza probatoria ad esso attribuita.

Particolarità del caso: anche attraverso questa pronuncia la Corte ha ribadito che il convincimento del giudice in ordine alla sussistenza del rapporto di filiazione, ben può fondarsi su mezzi di prova indiziari e che il rifiuto ingiustificato da parte del preteso padre naturale di sottoporsi alla prova del DNA deve essere valutato nel senso della sussistenza del dedotto rapporto di filiazione, in ragione dell’elevato grado di affidabilità ad essa scientificamente attribuito.

Caso 14. – Filiazione – azione di disconoscimento di paternità per adulterio della moglie – prove – rifiuto di sottoporsi all’esame del DNA – elementi indiziari  quali  testimonianze de relato.

Cass. civ. Sez. I, 19.7.2013, n. 17773, in Foro It., 2013, 11, 1, 3174.

Fatti e domande delle parti: Tizio proponeva  azione di disconoscimento di paternità nei confronti del figlio legittimo sulla base dell’adulterio della moglie. La domanda veniva rigettata dal Tribunale la cui pronuncia veniva, successivamente, confermata anche dalla Corte d’Appello. In particolare, la Corte d’Appello motivava la propria decisione sostenendo che la sentenza della Corte Costituzionale n. 266/2006, con la quale era stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 235 c.c. comma 1, n. 3, nella parte in cui subordinava l’esame delle prove tecniche da cui dovrebbe risultare il fondamento dell’azione, previa la prova dell’adulterio, non escludeva affatto la necessità di dimostrarlo; che tale prova non era stata raggiunta nella fattispecie in quanto le deposizioni testimoniali dovevano essere considerate inutilizzabili perché provenienti da terzi e riguardanti circostanze apprese de relato; che tale lacuna probatoria non poteva essere colmata dal rifiuto del figlio di sottoporsi alla prova ematologica, in quanto non idoneo di per sé ad integrare un quadro probatorio univoco in ordine all’insussistenza del rapporto di filiazione dovuta ad adulterio; che nel giudizio di disconoscimento di paternità la prova non può essere conforme a quella dell’azione di accertamento, essendo, la prima volta ad eliminare lo status di figlio e l’altra a determinarlo. Tizio proponeva ricorso per cassazione affidandosi a tre motivi e la moglie proponeva, a sua volta ricorso incidentale. Con il primo motivo, Tizio rilevava la violazione e falsa applicazione dell’art. 235 c.c., a seguito della pronuncia di incostituzionalità, in quanto la Corte Costituzionale non si sarebbe limitata a rimuovere la pregiudizialità dell’adulterio rispetto a quella ematologica – come riduttivamente affermato dalla Corte d’Appello – ma ne ha affermato la decisività e la preminenza, in relazione alla difficoltà pratica di dimostrare l’adulterio. La Corte di Cassazione ha ritenuto fondato il motivo, confermando l’erroneità della sentenza di secondo grado per non avere considerato l’innovazione introdotta dalla Corte Costituzionale, continuando a centrare l’oggetto del giudizio sulla mancata prova dell’adulterio. Con il secondo motivo – anch’esso accolto – è stata censurata la motivazione nella parte in cui la Corte d’Appello aveva sostenuto che dall’ingiustificato rifiuto del figlio di sottoporsi alla prova ematologica non potesse evincersi alcun argomento utile sulla prova dell’adulterio, quando, invece, l’orientamento della Cassazione sul punto è che si tratti di elemento decisivo anche nei giudizi di disconoscimento della paternità, valutabile ai sensi dell’art. 116 c.p.c.. Con il terzo motivo, è stata dedotta la falsa applicazione degli artt. 112, 116 e 244 c.p.c., oltre al vizio di motivazione, in relazione alla pronuncia di inutilizzabilità delle prove espletate ed alla declaratoria di inammissibilità delle altre. La Corte di Cassazione ha accolto anche questo motivo precisando che l’inutilizzabilità non può derivare dalla natura de relato dei fatti oggetto di testimonianza, senza specificare se esse provenissero ex parte actoris o da un terzo, in ragione dell’obiettiva difficoltà di pervenire ad una prova diretta dell’adulterio, come, peraltro, sottolineato dalla Corte Costituzionale. Sulle prove dichiarate inammissibili è stato espresso il medesimo ragionamento, ritenendo il rigetto delle stesse non adeguatamente motivato. La Corte di Cassazione ha cassato la sentenza con rinvio alla Corte di merito alla luce dei principi sopra evidenziati.

Particolarità del caso: la Corte di Cassazione ha ribadito il principio in base al quale anche nel giudizio di disconoscimento di paternità il rifiuto ingiustificato e reiterato deve essere valutato da punto di vista probatorio quale elemento fondante l’azione, vista la difficoltà oggettiva di provare l’adulterio; inoltre, ha confermato che anche in questo caso, le testimonianze de relato, non solo sono ammissibili, ma devono essere valutati alla luce dei principi che governano la prova presuntiva.

Carla Previti

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento