La professione di avvocato: studi, praticantato, esame di Stato, iscrizione all’albo, esercizio della stessa

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La annoverano tra le professioni intellettuali ex articolo 2229 del codice civile, nel passato era considerata di notevole prestigio, oggi per svariati motivi forse lo è un po’meno.

Stiamo parlando della professione di avvocato.

Andiamo con ordine e vediamo quale è il percorso per diventare avvocati, dagli studi universitari all’esame di Stato, all’iscrizione all’albo con conseguente esercizio della professione.

Coloro che hanno intenzione di intraprendere la professione di avvocato si iscrivono a una facoltà giuridica, scegliendo un piano di studi che ritengono si avvicini di più alle proprie aspirazioni.

La nota dolente, purtroppo, è che di solito le facoltà giuridiche hanno una impostazione teorica, offrendo agli studenti una preparazione inadeguata a quella che sarà in futuro la loro professione, stante il fatto che le mansioni inerenti l’avvocatura sono in maggioranza scritte, soprattutto in riferimento all’attività extragiudiziale.

Questa situazione costringe i neolaureati a seguire ulteriori corsi di specializzazione per non arrivare impreparati al praticantato, con le conseguenti spese, che nella maggior parte dei casi sono a carico delle famiglie, e saranno ancora più gravose se gli studenti sono fuori sede.

Il periodo di praticantato ai sensi della legge 21 dicembre 2012 n. 247, (Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense), è stabilito in diciotto mesi , rispetto alla precedente impostazione tradizionale, che prevedeva quattro semestri, e rappresenta una sorta di agevolazione nei confronti dei praticanti avvocati.

Il tirocinio professionale viene diminuito, e viene introdotta la possibilità che sei mesi di praticantato vengano svolti durante l’ultimo anno di università.

Il legislatore ha dato una piccola facilitazione attraverso la riduzione, con la possibilità di accedere all’esame di Stato, con l’ottenimento del certificato di compiuta pratica, dopo diciotto mesi , anzi che due anni come stabilito in precedenza.

Il compenso per le prestazioni del praticante è a discrezione dello studio, e i giovani avvocati dopo il primo anno di pratica possono chiedere l’abilitazione e patrocinare cause in proprio, assumendo la posizione del cosiddetto “mezzo avvocato”.

Una volta superato lo scoglio del praticantato, arriva quello forse ancora più irto dell’esame di Stato, che per alcuni rappresenta un autentico “spauracchio”.

Le prove da sostenere constano di tre prove scritte e una orale.

La prima prima prova scritta prevede la redazione di un parere motivato in materia civile.

La seconda prova scritta prevede la redazione di un parere motivato in materia penale.

La terza prova scritta prevede la redazione di un atto giudiziario che postuli conoscenze di diritto sostanziale e di diritto processuale, su un quesito proposto, in materia scelta dal candidato tra il diritto civile, il diritto penale e il diritto amministrativo.

La prova orale consta nella discussione di brevi questioni relative a sei materie.

Il tempo che intercorre tra gli scritti e la prova orale è di sei mesi.

Il voto minimo è trenta, il massimo è quarantacinque.

Le modalità dell’esame di Stato sono particolarmente gravose per quello che riguarda il praticante avvocato che si voglia abilitare all’esercizio della professione forense.

In precedenza era necessario che le tre prove scritte fossero sufficienti nella loro media, essendo concessa una insufficienza nelle tre prove.

In seguito alla recente riforma forense non è più ammesso che le prove siano mediamente sufficienti tra loro, anche essendo conseguita un’insufficienza, ma viene introdotta la necessità che le stesse siano sufficienti nella loro interezza, il punteggio minimo del candidato per essere ammesso alle prove orali dovrà essere trenta in ognuna delle tre prove.

La riforma ribadisce quella che era stata la modalità di correzione introdotta dall’ex ministro della giustizia Castelli, che prevedeva il sistema di correzione circolare degli elaborati.

L’elaborato che viene svolto dai candidati presso una determinata Corte di Appello, non viene più corretto nella stessa, ma viene corretto in una Corte di Appello di un altro distretto pari al proprio.

Gli elaborati vengono trasmessi in forma anonima, e provvederà un’altra Corte di Appello nominata a livello ministeriale a correggerli, in modo da garantire una maggiore imparzialità.

La realtà però è che l’esame di Stato non forma buoni avvocati, non è detto che chi lo supera diventi un “Principe del Foro”.

Con esso si compie una notevole selezione, a volte uno su cinque viene bocciato, per sostenerlo ci vuole una grande determinazione e consapevolezza.

Superato lo scoglio dell’esame di Stato si “conquista” l’ambito titolo, e si arriva alla fase della iscrizione all’albo dell’Ordine della Regione di appartenenza.

Anche questo passaggio comporta ulteriori spese, con la circostanza che i costi dovranno gravare ancora una volta sulle famiglie.

Successivamente il neo avvocato può scegliere se restare alle dipendenze di uno studio (dove magari aveva svolto il praticantato) o decidere di lavorare in modo autonomo.

Con l’esercizio della professione, arriva la questione dei compensi dei professionisti, che si mette in stretto collegamento con la questione dei tariffari, notevolmente semplificati rispetto al passato.

Queste in sintesi, sono le tappe che conducono all’esercizio della professione di avvocato.

Quando si raggiunge la meta prestabilita, non si è coronato per intero un sogno, perché inizia il calvario al quale devono necessariamente sottostare i giovani avvocati, rappresentato soprattutto dai costi esorbitanti della Cassa Forense, che consta di una rata fissa all’anno che i giovani professionisti devono versare in uguale misura ai colleghi più anziani, con anni di attività alle spalle e un portafoglio clienti consolidato.

Inutile dire che si tratta di una manifesta situazione di diseguaglianza, che nei casi estremi si traduce in scoraggiamento e cancellazione dall’albo, stante il fatto che coloro che sono iscritti devono versare la quota in questione obbligatoriamente, e a volte i loro guadagni non gli consentono di potere adempiere a questo onere.

Dott.ssa Concas Alessandra

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