La professionalità dell’avvocato mediatore tra diritto civile, diritto commerciale e deontologia forense: le modifiche ai canoni etici a seguito dell’introduzione della media-conciliazione

Cito Monica 01/12/11
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Ex lege 18 giugno 2009, n. 69, si delega al Governo l’adozione, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge, di uno o più decreti legislativi in materia di mediazione e di conciliazione in ambito civile e commerciale.

Si dà come enunciato necessario che la riforma in itinere realizzi il necessario coordinamento con le altre disposizioni vigenti. Nell’esercizio di delega previsto, il Governo si dice si atterrà a precisi principi e criteri direttivi:

  1. prevedere che la mediazione finalizzata alla conciliazione, abbia per oggetto controversie su diritti disponibili, senza precludere l’accesso alla giustizia;

  2. prevedere che la mediazione sia svolta da organismi professionali e indipendenti, stabilmente destinati all’erogazione del servizio di conciliazione;

  3. disciplinare la mediazione nel rispetto della normativa comunitaria ed istituire un registro degli organismi di conciliazione;

  4. prevedere che i requisiti per l’iscrizione nel registro e per la sua conservazione siano stabiliti con decreto del Ministero della Giustizia;

  5. prevedere la possibilità, per i consigli degli ordini degli avvocati, di istituire, presso i tribunali, organismi di conciliazione che, per il loro funzionamento, si avvalgano del personale degli stessi consigli;

  6. prevedere che gli organismi di conciliazione istituiti presso i tribunali, siano iscritti di diritto nel registro;

  7. prevedere, per le controversie in particolari materie, la facoltà d’istituire organismi presso i consigli degli ordini professionali;

  8. prevedere che gli organismi di conciliazione iscritti nel registro possano svolgere il servizio di mediazione anche attraverso procedure telematiche;

  9. per le controversie in particolari materie, prevedere la facoltà del conciliatore di avvalersi di esperti iscritti nell’albo dei consulenti e dei periti presso i tribunali;

  10. prevedere che le indennità spettanti ai conciliatori, da porre a carico delle parti, siano stabilite, anche con atto regolamentare, in misura maggiore per il caso in cui sia stata raggiunta la conciliazione tra le parti;

  11. prevedere il dovere dell’avvocato d’informare il cliente, prima dell’instaurazione del giudizio, della possibilità di avvalersi dell’istituto della conciliazione, nonché di ricorrere agli organismi di conciliazione;

  12. prevedere, a favore delle parti, forme di agevolazioni di carattere fiscale;

  13. prevedere, nei casi in cui il provvedimento che chiude il processo corrisponda interamente al contenuto dell’accordo proposto in sede di procedimento di conciliazione, che il giudice possa escludere la ripetizione delle spese sostenute dal vincitore che ha rifiutato l’accordo successivamente alla proposta dello stesso, condannandolo altresì, e nella stessa misura, al rimborso delle spese sostenute dal soccombente, salvo quanto previsto dagli articoli 92 e 96 c.p.c. , e inoltre che possa condannare il vincitore al pagamento di un’ulteriore somma a titolo di contributo unificato, ai sensi dell’articolo 9 (L) del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115;

  14. prevedere che il procedimento di conciliazione non possa avere una durata eccedente i quattro mesi;

  15. prevedere, nel rispetto del codice deontologico, un regime d’incompatibilità tale da garantire la neutralità. L’indipendenza e l’imparzialità del conciliatore nello svolgimento delle sue funzioni;

  16. prevedere che il verbale di conciliazione abbia efficacia esecutiva per l’espropriazione forzata e per l’esecuzione in forma specifica, e costituisca titolo per l’iscrizione d’ipoteca giudiziale.

La delega prevede che, nel disciplinare la mediazione, il Governo potrà estendere le disposizioni sulla conciliazione in materia societaria, già previste dal decreto legislativo n. 5 del 2003, il cui titolo VI è dedicato alla conciliazione stragiudiziale: gli enti pubblici o privati, che diano garanzie di serietà/efficienza, sono abilitati a costituire organismi deputati, su istanza delle parti interessate, a gestire un tentativo di conciliazione delle controversie nelle materie oggetto del decreto. Trattasi, per la precisione, data già nella rubrica del decreto della “Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e d’intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia”.

Tali organismi devono essere iscritti in un apposito registro tenuto presso il Ministero della Giustizia e le Camere di Commercio, già costituite in organismi di conciliazione (L. 580/1993), hanno diritto ad ottenere tale iscrizione.

Per i criteri e le modalità d’iscrizione nel registro, la formazione dell’elenco e la sua revisione, l’iscrizione, la sospensione e la cancellazione degl’iscritti: sono disciplinati dal D.M. 23 luglio 2004 n. 222. Ivi è prevista l’esenzione dall’imposta di bollo e altre spese/tasse degli atti/documenti/provvedimenti relativi al procedimento conciliativo, con rinvio a regolamento ministeriale ad hoc (Ministero della Giustizia, di concerto con quello dell’Economia) per la definizione dell’ammontare (nel minimo e nel massimo) delle indennità spettanti agli organismi di conciliazione costituiti da enti pubblici e criteri di calcolo, nonché i modelli per l’approvazione delle tabelle d’indennità proposte da organismi privati.

La disciplina del procedimento conciliativo prevede la chiusura della stessa in regolamenti di procedura, depositati dall’organismo di conciliazione presso il Ministero della Giustizia, unitamente alla richiesta d’iscrizione.

Il contenuto obbligatorio di tali regolamenti si sostanzia nella prevista riservatezza del procedimento e nella modalità di nomina del conciliatore. Riservatezza e modalità di nomina (ex plurimis: limpida), hanno da garantire imparzialità/idoneità al corretto e lecito espletamento dell’incarico. Se le parti dispongono, il procedimento di conciliazione, in mancanza di accordo, si chiude con una proposta del conciliatore, rispetto alla quale ciascuna delle parti indica una o più condizioni, alle quali è disposta al patto. Segue verbale. Le disposizioni rese dalle parti nel corso del procedimento, non possono essere utilizzate nel giudizio, promosso a seguito dell’insuccesso del tentativo conciliativo, e non possono altresì formare oggetto di prova testimoniale.

L’istanza di conciliazione proposta agli organismi “adibiti”, produce sulla prescrizione gli stessi effetti prodotti dalla domanda giudiziale, e impedisce la decadenza ma, fallendo il tentativo conciliativo, la domanda giudiziale ha tempo di essere proposta entro lo stesso termine decadenziale, decorrente dal deposito del verbale pertinente. La mancata comparizione delle parti e le posizioni assunte dinanzi al conciliatore, sono valutate dal giudice di merito ai fini delle determinazioni sulle spese processuali (vedasi anche l’art. 96 c.p.c.).

Il contratto o lo statuto societario possono prevedere una clausola di conciliazione. Qualora, in tema, il tentativo non risulti esperito, si può disporre, ad istanza di parte, la sospensione del procedimento giurisdizionale pendente. Il processo potrà essere riassunto dalla parte interessata, se l’istanza di conciliazione non è depositata nel termine fissato (compreso tra i 30 e i 60 giorni).

Se il tentativo di conciliazione fallisce, all’atto di riassunzione è legato il verbale. In ogni caso, la causa di sospensione non può paralizzare la giustizia per oltre 6 mesi a partire dal provvedimento sospensivo. Se la conciliazione riesce, confluisce in un processo verbale sottoscritto dalle parti e dal conciliatore. Esso costituisce titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, per l’esecuzione in forma specifica e per l’iscrizione d’ipoteca giudiziale.

Questo è quanto di definitorio, ed in una formula estremamente sinottica, si possa riportare sull’istituto, per dare una visione d’insieme snella e creare l’immagine dei soggetti semoventi sul palcoscenico del nuovo istituto. Tralasciamo fenomeni contigui, quali la conciliazione giudiziale e l’arbitrato, e diamo il novero degli obblighi, diventati anche di natura deontica, cui l’avvocato conciliatore è e non tenuto.

L’avvocato che svolga funzione di mediatore, deve rispettare gli obblighi dettati dalla normativa in materia, le previsioni dell’organismo di mediazione, e naturalmente i canoni deontologici.

L’avvocato non deve assumere la funzione di mediatore, in difetto di adeguata competenza, e non può assumerla qualora abbia, o abbia avuto negli ultimi due anni, rapporti con una delle parti, e non può neppure occuparsi di conciliare quando una delle parti sia assistita o lo sia stata (il limite temporale è sempre dei due anni, ut supra) da un professionista a lui socio o associato, o un professionista che eserciti nello stesso studio legale. In ogni caso, costituisce condizione ostativa all’assunzione dell’incarico di mediatore la ricorrenza di una delle ipotesi di cui all’art. 815, primo comma, del codice di procedura civile (vedasi nuovo art. 55 bis, rubricato «Mediazione», del C.D.F.1).

Per inciso, e per la rilevanza del dato normativo processuale, dai contenuti cogenti per il professionista forense, qui si riporta il primo comma dell’articolo processualistico citato:

«Un arbitro [un mediatore-avvocato, nel nostro caso] può essere ricusato:

  1. se non ha le qualifiche espressamente convenute dalle parti;

  2. se egli stesso, o un ente, associazione o società di cui è amministratore, ha interesse nella causa;

  3. se egli stesso o il coniuge è parente fino al quarto grado o è convivente o commensale abituale di una delle parti, di un rappresentante legale di una delle parti, o di alcuno dei difensori;

  4. se egli stesso o il coniuge ha causa pendente o grave inimicizia con una delle parti, con un suo rappresentante legale, o con alcuno dei suoi difensori;

  5. se è legato ad una delle parti, a una società da questa controllata, al soggetto che la controlla, o a società sottoposta a comune controllo, da un rapporto di lavoro subordinato o da un rapporto continuativo di consulenza o prestazione d’opera retribuita, ovvero da altri rapporti di natura patrimoniale o associativa che ne compromettano l’indipendenza; inoltre, se è tutore o curatore di una delle parti;

  6. se ha prestato consulenza, assistenza o difesa ad una delle parti in una precedente fase della vicenda o vi ha deposto come testimone».

L’avvocato che ha svolto l’incarico di mediatore, non può intrattenere rapporti professionali con una delle parti: se non siano decorsi almeno due anni dalla definizione del procedimento; se l’oggetto dell’attività non sia diverso da quello del procedimento stesso. Il divieto è esteso ai professionisti soci, associati, che esercitino negli stessi locali.

È fatto divieto all’avvocato di consentire che l’organo di mediazione abbia sede, a qualsiasi titolo, presso il suo studio o che quest’ultimo abbia sede presso l’organismo di mediazione.

L’avvocato non deve porre in essere attività commerciale, o comunque attività incompatibile coi doveri d’indipendenza e di decoro della professione forense.

Infine, l’avvocato deve ispirare il proprio rapporto con gli arbitri, conciliatori, mediatori e consulenti tecnici a correttezza e lealtà, nel rispetto delle reciproche funzioni.

L’analisi strutturale della legge 69 del 2009, di delega al Governo ad adottare uno o più decreti legislativi in materia di mediazione e di conciliazione in ambito civile e commerciale, tra i principi e criteri direttivi cui attenersi nell’esercizio della delega, poneva la previsione, nel rispetto del C.D.F. , di un regime d’incompatibilità tale da garantire indipendenza ed imparzialità del conciliatore nello svolgimento delle sue funzioni. Detto principio veniva attualizzato col. D. Lgs. 28/2010. con il DM 18 ottobre 2010 n. 180, prende corpo il regolamento recante modalità d’iscrizione e tenuta del registro degli organismi di mediazione, comprensivo dell’elenco dei formatori per la mediazione (compresa l’approvazione delle indennità spettanti agli organismi).

All’art. 6, comma 4, di quest’ultimo documento, si legge che: «Le violazioni degli obblighi inerenti le dichiarazioni previste dal presente articolo, commesse da pubblici dipendenti o da professionisti iscritti ad albi o collegi professionali, costituiscono illecito disciplinare sanzionabile ai sensi delle rispettive norme deontologiche. Il responsabile è tenuto ad informare gli organi competenti».

L’art. 4 del D. Lgs. 28/10 al comma 3 prevede: «All’atto del conferimento dell’incarico, l’avvocato è tenuto a informare l’assistito della possibilità di avvalersi del procedimento di mediazione […] e delle agevolazioni fiscali di cui agli articoli 17 e 20. L’avvocato informa altresì l’assistito dei casi in cui l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale. L’informazione deve essere fornita chiaramente e per iscritto. In caso di violazione degli obblighi di informazione, il contratto tra l’avvocato e l’assistito è annullabile. Il documento che contiene l’informazione è sottoscritto dall’assistito e deve essere allegato all’atto introduttivo dell’eventuale giudizio. Il giudice che verifica la mancata allegazione, se non provvede ai sensi dell’art. 5, comma 1, informa la parte della facoltà di chiedere la mediazione».

Con quest’ultima previsione, il legislatore coniuga alla mancata informazione, all’assistito, della possibilità di avvalersi del procedimento di mediazione, la civilistica dell’annullabilità del contratto di patrocinio, non configurando expressis verbis l’ipotesi di responsabilità disciplinare; tuttavia non fugata dal comportamento totalmente o parzialmente omissivo dell’avvocato, rispetto alla previsione del modello normativo. Nulla qæstio, comunque, e nessuna potenzialità di fuga: l’informativa de qua va data, se non pre valore deontico ex art. 4 D.Lgs 28/10, ex art. 40 C.D.F. Che recita un congruo generalissimo imperdonabile “Obbligo d’informazione”: «L’avvocato è tenuto ad informare chiaramente il proprio assistito all’atto dell’incarico delle caratteristiche e dell’importanza della controversia o delle attività da espletare, precisando le iniziative e le ipotesi di soluzione possibili. L’avvocato è tenuto altresì ad informare chiaramente il proprio assistito sullo svolgimento del mandato affidatogli, quando lo reputi opportuno e ogni qualvolta l’assistito ne faccia richiesta

  1. Se richiesto, è obbligo dell’avvocato informare la parte assistita sulle previsioni di massima inerenti alla durata e ai costi presumibili del processo;

  2. È obbligo dell’avvocato comunicare alla parte assistita la necessità del compimento di determinati atti al fine di evitare prescrizioni, decadenze o altri effetti pregiudizievoli relativamente agli incarichi in corso di trattazione.

  3. Il difensore ha l’obbligo di riferire al proprio assistito il contenuto di quanto appreso nell’esercizio del mandato se utile all’interesse di questi».

Sennonché, con decreto del Ministero della Giustizia del 6 luglio 2011 n. 145, si assiste all’innovarsi dell’istituto paraprocessuale, del quale andiamo brevemente argomentando. Tale ultimo regolamento reca modifica al decreto del Ministero della Giustizia 18 ottobre 2010, n. 180, sulla determinazione dei criteri e delle modalità d’iscrizione e tenuta del registro degli organismi di mediazione, nonché sull’approvazione delle indennità spettanti agli organismi ai sensi dell’articolo 16 del decreto legislativo n. 28 del 2010.

Oltre a vedere introdotta la mediazione/conciliazione cosiddetta “in contumacia”, con l’inserimento di un’espressa previsione, ha disposto che il regolamento deve prevedere criteri inderogabili per l’assegnazione degli affari di mediazione predeterminati e rispettosi della specifica competenza professionale del mediatore designato, «desunta anche dalla tipologia di laurea posseduta». Quest’ultima espressione normativa, un po’ vaga, permette d’includervi, è logico credere, ogni tipo di specializzazione universitaria, dato che molte lauree in giurisprudenza del vecchio ordinamento erano lauree senza indirizzi, al più con farraginosi piani di studio più o meno in deroga al piano tradizionale. Lo studente iniziava, se coscienzioso, ad interrogarsi con la stesura della tesi. Pare logico, quindi, dover ragionare sulla formazione professionale postuniversitaria, per racimolare un’estensione all’infelice ed indeterminabile ultimo periodo normativo. Spontanee le domande sulle mancate riforme interne alla categoria, ed eterodirette anche. L’apparente spiegazione al tutto pare fornita dallo stesso testo normativo, ma a ben guardare non indica il dies a quo , ma solo quello ad quem, del “sapere del mediatore”: «[…] il possesso, da parte dei mediatori, di una specifica formazione e di uno specifico aggiornamento almeno biennale, acquisiti presso gli enti di formazione[…], nonché la partecipazione, da parte dei mediatori, nel biennio di specializzazione e in forma di tirocinio assistito, ad almeno venti casi di mediazione svolti presso organismi iscritti».

Non mi si tacci d’autoprocurata confusione. Sono conscia del fatto che l’accesso agli elenchi mediatori cum possesso titoli è un dato, una condicio sine qua non, anche di futura permanenza, e che questa è data, ex post, con l’effettivo esercizio delle funzioni e la cura dei casi, ma molti dubbi – e purtroppo immanentemente di natura politica – albergano nelle sinapsi, se è vero che un istituto nato per deflazionare il contenzioso, rischia di vedersi fortemente criticato in un impianto normativo dato a tappe, e con l’indeterminatezza tipica, ormai, del nostro sistema di produzione giuridica.

Riportiamo, a pochi passi dalla vigenza dei testi citati, le critiche tecniche sollevate, e notiamo la prima, inarrestabile presumibilmente, tranche d’espressioni giurisprudenziali.

L’impianto normativo dell’istituto della mediazione-conciliazione (c.d. “media-conciliazione”) è stato interessato dall’ordinanza del TAR Lazio, Sezione I, del 2 aprile 2011, n. 320272011, con la quale è stata dichiarata rilevante e non manifestamente infondata, in relazione agli artt. 24 e 77 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 del D. Lgs. 28/2010, comma 1, primo periodo (che introduce l’obbligo del previo esperimento del procedimento di mediazione in una delle materie indicate dalla norma), secondo periodo (secondo cui il previo esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale), terzo periodo (secondo cui l’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto o rilevata d’ufficio dal giudice), nonché dell’art. 16 D. Lgs. 28/10 comma 1, laddove dispone che abilitati a costituire organismi deputati a gestire il procedimento di mediazione sono gli enti pubblici e privati che diano garanzie di serietà ed efficienza.

Le previsioni normative elevate a sospetto d’incostituzionalità inciderebbero in maniera non trascurabile sull’esercizio del diritto di difesa, in quanto «[…] non garantiscono, mediante un’adeguata conformazione della figura del mediatore, che i privati non subiscano irreversibili pregiudizi derivanti dalla non coincidenza degli elementi loro offerti in valutazione per assentire o rifiutare l’accordo conciliativo, rispetto a quelli suscettibili, nel prosieguo, di essere evocati in giudizio».

In sintesi, sarebbero trascurati dal legislatore delegato i requisiti attinenti alla specifica professionalità giuridico-processuale del mediatore, riassumibili nei concetti di competenza e professionalità previsti dalla legge delega, sostituiti da una non meglio qualificata serietà ed efficienza. È di tutta evidenza che se così fosse: competenza non è serietà, e non esiste professionalità senza congiuntura di competenza ed efficienza. Sorge anche il dubbio, non peregrino, che l’efficienza sia stata intesa come efficacia, allargando ancor più le maglie delle norme all’indeterminabilità. Questo assunto è confermato dall’ “azione” del Tribunale di Palermo (sezione distaccata di Bagheria) che, con ordinanza del 16 agosto 2011, ha rimesso alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea una serie di quesiti vertenti sull’interpretazione di alcune disposizioni della direttiva 2008/52/CE, con riferimento ai requisiti di competenza e specifica esperienza professionale del mediatore, ai criteri di competenza territoriale, alla formulazione della proposta di conciliazione da parte del mediatore. Il 13 settembre 2011 è stata adottata una risoluzione del Parlamento europeo sull’attuazione della direttiva sulla mediazione negli Stati membri, impatto della stessa sulla mediazione e sull’adozione, da parte dei tribunali [2011/2026 (INI)].

In questo complesso e giuridicamente itinerante percorso conoscitivo della/sulla e intorno alla mediazione, il CNF, in attesa delle modifiche dell’istituto, conseguenti anche all’incidente di costituzionalità, ha ritenuto l’urgenza di una messa a punto deontologica, al fine di consentire agli Ordini il governo dell’istituto, anche nelle ricadute disciplinari. Specifichiamo: cambia, il codice deontologico degli avvocati, con la previsione di un’adeguata competenza dell’avvocato che assuma l’incarico di mediatore, e regole per evitare conflitti d’interesse che potrebbero insorgere nello svolgimento delle due diverse attività di difesa e mediazione.

In attesa che la Corte Costituzionale si pronunci sull’eccezione d’incostituzionalità delle norme sulla mediazione, e che il legislatore apporti le necessarie modifiche all’istituto, più volte richieste dal CNF, lo stesso ha diramato due circolari agli Ordini forensi per dare indicazioni utili a “governare” l’istituto anche nei suoi aspetti deontologici e nelle sue ricadute disciplinari, nell’ottica di maggiori garanzie per i cittadini utenti. La prima circolare (n. C-24-2011) dà conto dell’integrazione del codice deontologico forense, decisa già il 15 luglio scorso e sottoposta al parere degli stessi Ordini forensi, con l’introduzione di un nuovo articolo (il 55 bis) dedicato alla mediazione. I nuovi canoni introducono innanzitutto un dovere di “adeguata competenza” per l’avvocato che decida di assumere le funzioni di mediatore, spiega la relazione di accompagnamento, che valorizza i requisiti di professionalità dell’avvocato-mediatore, che non possono non esprimersi non solo nella capacità di dominare e padroneggiare le essenziali ed imprescindibili tecniche di mediazione, ma anche nella capacità di evitare che i cittadini incorrano in irreversibili pregiudizi, derivanti dalla scarsa conoscenza o valutazione degli elementi loro offerti per chiudere o no l’accordo di mediazione.

I nuovi canoni stabiliscono, inoltre, un’incompatibilità ad assumere la funzione di mediatore nel caso in cui l’avvocato, un suo socio o associato, abbia avuto negli ultimi due anni o abbia in corso rapporti professionali con una delle parti. Stessa incompatibilità, ma ad assumere la difesa, copre i due anni successivi alla mediazione. Sempre con l’obiettivo di evitare possibili conflitti d’interessi, il codice deontologico forense fa divieto all’avvocato di ospitare la sede di un organismo di conciliazione e viceversa, costituendo la contiguità logistico-spaziale tra studio e sede dell’organismo, fattore in grado di profilare un’ipotetica commistione d’interessi, di per sé sufficiente a far dubitare dell’imparzialità dell’avvocato mediatore. Altre modifiche riguardano l’articolo 16 sul dovere di evitare incompatibilità, e l’articolo 54 sui rapporti con arbitri, conciliatori e mediatori, consulenti tecnici, che dovranno essere improntati a correttezza e lealtà. Si preferisce qui riportare per esteso le norme, con coscienza che la prima lettura delle stesse non può essere superata dalle circolari, che rischiano, come strumento, una dispersività ontologica. Abbiamo consapevolezza che la funzione e l’attività dell’avvocato che svolga la funzione di mediatore, rientri a titolo più che pieno nell’ambito dell’attività professionale in senso proprio. Ed anche, a volte, tendere verso una diversa lettura, le conseguenze non muterebbero alla luce della circostanza che anche l’attività extra professionale rileva deontologicamente, se le modalità della sua realizzazione compromettano la reputazione professionale e l’immagine della classe forense.

Seguono gli articoli del C.D.F. d’interesse:

ART. 5. Doveri di probità, dignità e decoro.

L’avvocato deve ispirare la propria condotta all’osservanza dei doveri di dignità, probità e decoro.

  1. Deve essere sottoposto a procedimento disciplinare l’avvocato cui sia imputabile un comportamento non colposo che abbia violato la legge penale, salva ogni autonoma valutazione sul fatto commesso.

  2. L’avvocato è soggetto a procedimento disciplinare per fatti anche non riguardanti l’attività forense quando si riflettano sulla reputazione professionale o compromettano l’immagine della classe forense.

  3. L’avvocato che sia indagato o imputato in un procedimento penale non può assumere o mantenere la difesa di altra parte nello stesso procedimento.

ART. 16 previgente. Dovere di evitare incompatibilità.

È dovere dell’avvocato evitare situazioni di incompatibilità ostative alla permanenza nell’albo, e, comunque nel dubbio richiedere il parere del proprio Consiglio dell’ordine.

  1. L’avvocato non deve porre in essere attività commerciale o di mediazione.

  2. Costituisce infrazione disciplinare l’avere richiesto l’iscrizione all’albo in pendenza di cause di incompatibilità, non dichiarate, ancorché queste siano venute meno.

ART. 16 vigente. Dovere di evitare incompatibilità.

  1. L’avvocato non deve porre in essere attività commerciali o comunque attività incompatibile con i doveri di indipendenza e decoro della professione forense (…)

ART. 54 previgente. Rapporti con arbitri e consulenti tecnici.

L’avvocato deve ispirare il proprio rapporto con arbitri e consulenti tecnici a correttezza e lealtà, nel rispetto delle reciproche funzioni.

ART. 54 vigente. Rapporti con arbitri, conciliatori, mediatori e consulenti tecnici.

L’avvocato deve ispirare il proprio rapporto con gli arbitri, conciliatori, mediatori e consulenti tecnici a correttezza e lealtà nel rispetto delle reciproche funzioni.

ART. 55 bis (aggiunto). Mediazione.

L’avvocato che svolge la funzione di mediatore deve rispettare gli obblighi dettati dalla normativa in materia e le previsioni del regolamento dell’organismo di mediazione, nei limiti in cui dette previsioni non contrastino con quelle del presente codice.

  1. L’avvocato non deve assumere la funzione di mediatore in difetto di adeguata competenza.

  2. Non può assumere la funzione di mediatore l’avvocato:

    1. che abbia in corso o abbia avuto negli ultimi due anni rapporti professionali con una delle parti;

    2. quando una delle parti sia assistita o sia stata assistita negli ultimi due anni da professionista di lui socio o con lui associato ovvero che eserciti negli stessi locali. In ogni caso costituisce condizione ostativa all’assunzione dell’incarico di mediatore la ricorrenza di una delle ipotesi di cui all’art. 815, primo comma, del codice di procedura civile.

  3. L’avvocato che ha svolto l’incarico di mediatore non può intrattenere rapporti professionali con una delle parti:

    1. se non siano decorsi almeno due anni dalla definizione del procedimento;

    2. se l’oggetto dell’attività non sia diverso da quello del procedimento stesso. Il divieto si estende ai professionisti soci, associati ovvero che esercitino negli stessi locali.

  4. È fatto divieto all’avvocato consentire che l’organismo di mediazione abbia sede, a qualsiasi titolo, presso il suo studio o che quest’ultimo abbia sede presso l’organismo di mediazione.

Con la circolare C-26-2011, il CNF richiama l’attenzione sul testo del decreto ministeriale del 6 luglio n. 145, che ha innovato le norme regolamentari precedenti, prevedendo l’introduzione, per il mediatore, del tirocinio assistito; nuovi e più stringenti criteri di designazione dei mediatori, rispettosi della “specifica competenza professionale”; lo svolgimento necessario del primo incontro di mediazione, nel caso di mediazione obbligatoria; nuovi criteri di determinazione delle indennità. Da qui una serie d’indicazioni operative per modificare, in caso di discrasia con le nuove norme, i singoli regolamenti (circolari C-24-2011 e C-26-2011).

La classe forense ha ritenuto, allo stato, di non ravvisare la necessità e l’urgenza d’intervenire sui profili deontologici dell’avvocato che assiste tecnicamente la parte nel procedimento di mediazione, in quanto per quei profili vale l’applicazione delle attuali e vigenti regole deontologiche proprie dell’attività professionale in genere. L’immagine propugnata è quella di un avvocato-mediatore, fattore decisivo nell’ambito del mercato e della concorrenza, troppo abituati a figure di mediatori eterogenei ed approssimativi.

Si vuole creare e valorizzare lo statuto e lo status professionale dell’avvocato/mediatore che, nel confezionare la proposta conciliativa, e nell’accreditarla dopo, deve offrire garanzia alle parti di una completezza degli elementi valutativi: la non omissione dell’informazione su ciò che nel prosieguo potrebbe essere oggetto d’evocazione in giudizio; considerata anche l’attuale non necessità d’assistenza tecnica obbligatoria dinanzi al mediatore-conciliatore.

Ci si aspetta – anche perché annunciato dal CNF nella relazione alle circolari proprie più sopra citate – che l’art. 55 del codice comportamentale venga presto adattato alle nuove necessità. Esso, insieme all’articolo 815 del codice di procedura civile, è stato la base sulla quale codificare il nuovo istituto, e deve mutare per non manifestare contraddizioni, proprio in ragione del parto.

La tutela dell’apparenza della terzietà ed indipendenza, dell’arbitro prima e del mediatore oggi, non debbono omologare le due figure, essendo la prima molto più pattizia della seconda; “adibile” ex novo, non contenuta in contaatto, allo stato non focalizzata in rituale ed irritale, anzi agganciata ad un organo che, pur potendo essere pubblico o privato, non ha contezza del fatto propostogli se non, appunto, nel nodo-momento del deposito d’istanza. Ecco perché la legge 69/2009 privilegia, e particolarmente sottolinea, il dato di “neutralità” del medio-conciliatore, e il codice deontico lo ribadisce quando il medio-conciliatore-avvocato è chiamato a non inficiarla con la circostanza materiale, palpabile dall’ospitare presso il suo studio la sede dell’organismo di mediazione, per il quale egli presta l’attività di mediatore. È la potenzialità che tanto possa inficiare l’imparzialità dovuta, ad essere stata codificata in via preventiva.

Non è ammesso nemmeno che l’avvocato possa ospitare l’organismo di mediazione senza esercitare l’attività di conciliatore nell’etero-contesto ospite, dato che, seppure non v’è violazione ex lege 69/2009, senz’altro si avrà nocenza del divieto di accaparramento di clientela, nella figura della potenzialità dell’accaparramento e/o sviamento di clientela.

ART. 19 c.d.f. Divieto di accaparramento di clientela.

È vietata l’offerta di prestazioni professionali a terzi e in genere ogni attività diretta all’acquisizione di rapporti di clientela, a mezzo di agenzie o procacciatori o altri mezzi illeciti.

  1. L’avvocato non deve corrispondere ad un collega, o ad un altro soggetto, un onorario, una provvigione o qualsiasi altro compenso quale corrispettivo per la presentazione di un cliente.

  2. Costituisce infrazione disciplinare l’offerta di omaggi o di prestazioni a terzi ovvero la corresponsione o la promessa di vantaggi per ottenere difese o incarichi.

L’avvocato, ospitante od ospitato, si troverebbe a godere di una rendita di posizione, volta ad acquisire come potenziali clienti coloro che volessero sperimentare la mediazione, o coloro che avessero frequentato l’organismo con esito negativo della conciliazione.

 

Per il seguente saggio si sono adoperati:

  • la newsletter n. 34 del CNF 4 ottobre 2011, richiamante le circolari, sempre del Consiglio nazionale Forense, C-24 e C-26 del 2011;

  • la relazione del CNF di accompagnamento alle circolari citate;

  • Vincenzo Di Maggio, “Mediazione e conciliazione”, Piccin Nuova Libraria edizioni, Padova, 2011.

Cito Monica

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