La previsione di uso di beni locati da terzi ai fini dell’esecuzione dell’appalto (in sé legittima) impone all’impresa concorrente di dichiarare ed attestare tale opzione organizzativa nella fase iniziale della procedura, al fine di consentire all’amminis

Lazzini Sonia 18/05/06
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Il Consiglio di Stato con la decisione numero 5500  del 10 agosto 2004 ci offre un importante insegnamento in tema di responsabilità dell’amministrazione pubblica in una particolare fattispecie per la quale non risulta appellabile il cd “errore scusabile”
 
l’omessa esclusione di un’impresa, a fronte dell’omessa dichiarazione iniziale della disponibilità di tutte le attrezzature necessarie ad assicurare una corretta esecuzione dell’appalto, della verifica istruttoria dell’indisponibilità diretta da parte della società poi selezionata di alcuni indispensabili strumenti operativi e della tardiva comunicazione e documentazione dell’utilizzo di macchinari locati da terzi, si rivela senz’altro lesiva delle regole di condotta più sicure ed evidenti che deve osservare l’amministrazione nella gestione di una procedura competitiva: l’ammissione alla contrattazione delle sole imprese dotate della capacità tecnica necessaria ad eseguire correttamente la prestazione dovuta (vulnerata dalla mancata esclusione di un’impresa priva della necessaria capacità produttiva) e la parità di trattamento dei concorrenti (pregiudicata dal favore riservato ad una concorrente per mezzo della sua rimessione in termini nella documentazione dell’idoneità tecnica della sua organizzazione).
 
A fronte della violazione del dovere di garantire la par condicio e di quello di escludere le imprese sprovviste delle dotazioni tecniche necessarie a garantire la regolare prestazione dei servizi dovuti, non risulta, di contro, apprezzabile alcun elemento, peraltro neanche allegato dall’amministrazione (oneratavi), riconducibile ad una delle situazioni, sopra descritte, che autorizzano la configurabilità dell’errore scusabile.>
 
Molto interessante appare inoltre la distinzione fra risarcimento in forma specifica e risarcimento per equivalente attuata dal supremo giudice amministrativo
 
<La riparazione delle conseguenze dannose viene garantita dall’ordinamento mediante due modelli di tutela, tra loro alternativi: quello del risarcimento per equivalente, che riconosce al danneggiato il diritto ad una somma di denaro equivalente al valore della lesione patrimoniale patita e quello della reintegrazione in forma specifica, che attribuisce al soggetto passivo la medesima utilità, giuridica od economica, sacrificata o danneggiata dalla condotta illecita>
 
ed in particolare il seguente passaggio:
 
<Risulta, così, agevole rilevare che, nel caso di specie, essendo stato stipulato il contratto d’appalto ed iniziata l’esecuzione del servizio ben prima della pronuncia della decisione appellata, la rinnovazione degli atti impugnati non poteva più condurre, di per sé, all’assegnazione del contratto alla ricorrente, che quest’ultima imponeva l’impervia intrapresa dell’impugnativa del contratto (con tutte le incertezze del caso) e che, in definitiva, in siffatta situazione processuale e sostanziale, la richiesta del risarcimento per equivalente non incontrava l’impedimento prospettato dall’Istituto appellante e risultava, anzi, quella maggiormente coerente con l’assetto sostanziale dei rapporti controversi venutosi medio tempore a determinare per effetto dell’aggiudicazione impugnata.>
 
 a cura di *************
 
 
R E P U B B L I C A     I T A L I A N A IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
 
   Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la seguente
 
D E C I S I O N E
 
sul ricorso in appello n. 11260/2003 proposto da:
 
ISTITUTO NAZIONALE DI STATISTICA (ISTAT), in persona del presidente pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso cui domicilia, Via dei Portothesi 12
contro
 
*** HOLDING S.P.A., già *** S.P.A., in proprio e quale mandataria del Raggruppamento Temporaneo di Imprese con Industrie *** s.p.a., in persona del legale rappresentante p.t., signor ***** *** INDUSTRIE *** S.P.A., già Industrie *** s.r.l., in proprio e quale mandante nel Raggruppamento Temporaneo di Imprese con *** Holding s.p.a., in persona del legale rappresentante p.t., signor ********’*******, rappresentati e difesi dall’Avv. ****************** ed elettivamente domiciliati presso l’Avv. *****************, in Roma Viale G. Mazzini 117
 
e nei confronti di
 
GRAFICHE *** S.P.A. in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituita
 
 
 
 
 
 
per l’annullamento
 
della sentenza del TAR LAZIO, Sezione III ter, n. 8869 del 9.10/20.10.2003, notificata il 29.10.2003, resa tra le parti, concernente risarcimento danni – mancata aggiudicazione appalto servizi composizione grafica – stampa;
 
Relatore alla pubblica udienza del 1° giugno 2004 il Consigliere ************* ed uditi, altresì, per le parti l’Avvocato dello Stato ************* e l’Avv. ******************;
 
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:
 
FATTO
 
Con la sentenza appellata il T.A.R. del Lazio annullava l’aggiudicazione alla Grafiche *** s.p.a. di una gara per l’affidamento di un appalto di servizi, avente ad oggetto composizione grafica, stampa, personalizzazione con dati variabili, allestimento, confezionamento e spedizione di moduli statistici, indetta dall’Istituto Nazionale di Statistica (d’ora innanzi ISTAT) con il metodo della licitazione privata e con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, sulla base del rilievo dell’illegittimità dell’omessa esclusione della società aggiudicataria – ritenuta doverosa per il riscontrato difetto dei requisiti relativi alla sua capacità tecnica, e condannava l’amministrazione al risarcimento dei danni per equivalente in favore della ricorrente *** s.p.a. (in proprio e quale mandataria del raggruppamento temporaneo di imprese con la Industrie *** s.r.l.), dettando, ai sensi dell’art.35 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n.80, il parametro determinativo del 10% dell’importo a base d’asta.
 
Tale decisione veniva appellata dall’ISTAT, che ne denunciava l’erroneità, sia con riguardo al giudizio di illegittimità della procedura, sia con riferimento alla statuizione risarcitoria, e che ne invocava, pertanto, la riforma, con conseguente reiezione del ricorso di primo grado.
 
Resisteva la ***, contestando la fondatezza delle doglianze assunte a sostegno del ricorso, impugnando in via incidentale i capi della decisione con i quali erano state disattese alcune censure dedotte con il gravame originario e concludendo, in via principale, per la reiezione dell’appello principale e, in subordine, per l’accoglimento di quello incidentale.
 
Non si costitutiva, invece, la Grafiche ***.
 
All’udienza dell’1 giugno 2004 il ricorso veniva trattenuto in decisione.
 
DIRITTO
 
1.- Le parti controvertono sulla legittimità dell’aggiudicazione alla Grafiche *** s.p.a., da parte dell’ISTAT, di un appalto di servizi (avente ad oggetto la composizione grafica, la stampa, la personalizzazione con dati variabili, l’allestimento, il confezionamento e la spedizione di moduli statistici), sotto il peculiare profilo della doverosità dell’esclusione della società selezionata, e sulla sussistenza dei presupposti costitutivi dell’obbligazione risarcitoria in capo all’amministrazione aggiudicatrice.
 
1.1- Il Tribunale di prima istanza, adìto dall’a.t.i. *** (seconda classificata), ha, in particolare: giudicato illegittima l’omessa esclusione della (e, quindi, l’aggiudicazione della gara alla) Grafiche ***, sulla base del decisivo rilievo dell’insussistenza in capo ad essa della necessaria capacità tecnica per l’esecuzione del contratto; annullato, quindi, l’aggiudicazione dell’appalto alla predetta società; condannato, infine, l’ISTAT al risarcimento dei danni, nella misura da determinarsi ai sensi dell’art.35 d.lgs. n.80/98 e sulla base del criterio – contestualmente dettato – del 10% dell’importo a base d’asta.
 
1.2- L’Istituto appellante critica entrambi i capi della decisione, ribadendo la correttezza della procedura di verifica dell’anomalia e della capacità produttiva dell’impresa selezionata, contestando la sussistenza delle condizioni per il riconoscimento della propria responsabilità in ordine ai danni asseritamente patiti dalla *** per effetto della selezione di altra concorrente e concludendo per l’annullamento della decisione gravata.
 
1.3- La ***, di contro, difende la correttezza della statuizione appellata, che impugna in via incidentale relativamente ai capi con cui sono stati disattesi alcuni motivi di impugnazione dedotti in prima istanza, contesta la fondatezza delle ragioni addotte a sostegno del ricorso e conclude per la conferma della decisione resa in primo grado (se del caso con diversa motivazione).
 
2.- Il rispetto dell’ordine logico nella trattazione delle questioni impone la preliminare disamina della fondatezza delle censure indirizzate a criticare la correttezza dell’accertamento dell’illegittimità dell’aggiudicazione controversa.
 
2.1- Come già rilevato, i primi giudici hanno ritenuto viziata l’aggiudicazione dell’appalto alla Grafiche ***, in quanto disposta nonostante la verifica, in sede di controllo dell’anomalia della sua offerta, dell’indisponibilità delle attrezzature necessarie all’espletamento delle prestazioni oggetto del contratto e, quindi, del difetto in capo ad essa dei requisiti di capacità produttiva postulati dal regolamento di gara. 
 
 
2.2- Il giudizio di illegittimità si rivela corretto e va, pertanto, confermato.
 
2.3- *****, anzitutto, precisare che, a ben vedere, il T.A.R. non ha ritenuto scorretto il modus procedendi seguìto dall’amministrazione a causa dell’inosservanza del dovere di controllare la veridicità delle dichiarazioni rese dalla Grafiche *** al momento della presentazione dell’offerta, come erroneamente affermato dall’Istituto appellante, ma ha fondato la valutazione dell’illegittimità dell’aggiudicazione sul duplice rilievo dell’omessa esclusione dell’impresa poi selezionata nonostante l’accertamento (in occasione della verifica dell’offerta sospettata di anomalia) del difetto dei macchinari necessari a garantire il corretto espletamento dei servizi da appaltare e della non computabilità, ai fini del riscontro dell’attendibilità dell’offerta e della capacità produttiva dell’impresa, delle attrezzature messe a disposizione da altre società, ma non dichiarate al momento della presentazione della domanda di partecipazione.
 
2.4- Così precisati i confini e i contenuti del giudizio di illegittimità reso in primo grado, risulta agevole rivelarne la coerenza con il primo motivo del quarto atto di motivi aggiunti (con il quale si denunciava proprio il vizio riscontrato dal T.A.R.), sicchè va esclusa la sussistenza dell’ultrapetizione ipotizzata dall’appellante, nonché la conformità ai principi che presiedono al corretto svolgimento delle procedure di affidamento degli appalti pubblici.
 
2.5- Premesso, infatti, che il bando prescriveva l’allegazione, a dimostrazione della capacità produttiva contestualmente dettagliata nel regolamento di gara, di un’analitica descrizione del tipo di macchine che l’impresa avrebbe impiegato per lo svolgimento del servizio, che la Grafiche ***, dopo aver dichiarato la propria capacità tecnica, ha omesso di indicare, nel pertinente documento, le attrezzature per la stampa a modulo continuo, quelle per la richiesta personalizzata e quelle per il confezionamento e la spedizione di colli o plichi e che il tecnico incaricato dall’ISTAT ha riscontrato l’indisponibilità (diretta) da parte dell’impresa dei primi due tipi di attrezzature, risulta evidente che, a fronte dell’omessa attestazione e dimostrazione dell’idoneità dell’assetto aziendale della società a confezionare e stampare la qualità e la quantità dei prodotti richiesti dall’amministrazione, la relativa offerta avrebbe dovuto essere esclusa per la mancanza dei requisiti minimi o, in ogni caso, se si reputano integrati questi ultimi, per l’inattendibilità, e, quindi, per l’anomalia, delle condizioni, tecniche ed economiche, proposte.
 
2.6- Così accertata la doverosità dell’esclusione della Grafiche ***, sulla base dell’attestazione iniziale e della (successiva) verifica istruttoria della sua dotazione organizzativa, occorre verificare la computabilità, ai fini dell’accertamento della sua capacità produttiva, delle attrezzature messe a sua disposizione da altre imprese, ma non dichiarate, come tali, nel documento allegato dall’offerta.
 
Anche prescindendo dal rilievo, peraltro assorbente, che la mancanza di data certa nelle scritture private (non registrate) allegate a dimostrazione della disponibilità dei macchinari mancanti nella dotazione della Grafiche *** impedisce di verificare la sussistenza della utilizzabilità di quei beni da parte della concorrente al momento (decisivo, ai fini della verifica della correttezza dell’ammissione alla gara) della presentazione della domanda di partecipazione, deve, in ogni caso, rilevarsi che la previsione di uso di beni locati da terzi ai fini dell’esecuzione dell’appalto (in sé legittima) imponeva all’impresa concorrente di dichiarare ed attestare tale opzione organizzativa nella fase iniziale della procedura, al fine di consentire all’amministrazione di apprezzare compiutamente la capacità produttiva dell’impresa.
 
L’omesso assolvimento di tale onere implica, in particolare, l’impossibilità di dichiarare e di attestare successivamente alla competizione, e, in particolare, in occasione della verifica dell’anomalia dell’offerta, la concessione dell’uso di alcune attrezzature da parte di terzi; e ciò al precipuo fine di garantire la trasparenza della procedura e la par condicio dei concorrenti, che resterebbero, altrimenti, irrimediabilmente vulnerate dall’ammissione di documentazioni tardive (e potenzialmente fraudolente) della capacità tecnica necessaria all’esecuzione del contratto.
 
2.7- Alle considerazioni che precedono conseguono, quindi, la reiezione degli argomenti intesi a dimostrare la regolarità della procedura e la conferma del giudizio di illegittimità dell’aggiudicazione della gara reso in prima istanza.
 
3.- L’Istituto appellante contesta, inoltre, con un’altra serie di deduzioni, la correttezza della decisione appellata nella parte in cui ha riconosciuto la propria responsabilità, in ordine ai danni asseritamente patiti dall’*** in conseguenza dell’affidamento dell’appalto alla Grafiche *** dell’amministrazione, in affermato difetto di un apprezzamento adeguato della sussistenza dell’elemento soggettivo, senza verificare la possibilità di una, presuntivamente preclusiva, reintegrazione in forma specifica e, comunque, in una misura eccessiva.
 
4.- Come appena rilevato, la prima contestazione attiene alla sussistenza, riconosciuta dal T.A.R. e negata dall’Istituto appellante, del requisito della colpa.
 
4.1- *****, al riguardo, premettere alcune considerazioni di sistema in merito all’accertamento del requisito dell’elemento soggettivo nella fattispecie di responsabilità dell’amministrazione per attività provvedimentale illegittima, dando conto, in particolare, del tormentato percorso evolutivo seguìto dalla giurisprudenza nell’individuazione dei caratteri della colpa dell’apparato pubblico.
 
4.2- Com’è noto, l’impostazione giurisprudenziale tradizionale (cfr. ex multis Cass. Civ., sez. III, 9 giugno 1995, n.6542), formatasi prima della sentenza delle Sezioni Unite n.500 del 22 luglio 1999, risolveva la questione ritenendo la colpa dell’amministrazione insita nell’esecuzione di un provvedimento amministrativo illegittimo (che costituiva uno dei pochi casi in cui veniva riconosciuta la responsabilità aquiliana dell’amministrazione per lesione di interessi legittimi, prima del riferito revirement del 1999).
 
Secondo tale ricostruzione, quindi, l’illegittimità dell’atto amministrativo portato ad esecuzione integrava, di per sé, gli estremi della colpevolezza postulata dall’art.2043 c.c. per la costituzione dell’obbligazione risarcitoria.
 
La nozione di culpa in re ipsa si fondava, in particolare, sul rilievo che la semplice adozione ed esecuzione di un provvedimento illegittimo da parte di un soggetto dotato di capacità istituzionale e di competenza funzionale ad operare nel settore di riferimento concretasse quella consapevole violazione di leggi, regolamenti o norme di condotta non scritte nella quale si risolve la colpa, secondo la definizione del suo contenuto essenziale fornita dall’art.43 c.p.
 
La categoria concettuale della presunzione assoluta di colpa (chè di questo si tratta), concepita dalla giurisprudenza anche per semplificare l’accertamento dell’illecito e per favorire la tutela risarcitoria del privato danneggiato (altrimenti onerato di una prova complessa e priva di parametri certi), è parsa, comunque, incompatibile con i principi generali della natura personale della responsabilità civile e del carattere eccezionale di quella oggettiva, risolvendosi nell’ingiusta assegnazione all’amministrazione di un trattamento deteriore rispetto a quello degli altri soggetti di diritto.
 
4.3- Tali dubbi di coerenza sistematica della presunzione assoluta di colpa sono stati risolti dalla Suprema Corte (con la nota sentenza a Sezioni Unite n.500/99), mediante il superamento della teoria della culpa in re ipsa e la contestuale definizione di indici identificativi della colpa, indicati nell’ascrizione all’amministrazione, intesa come apparato, e non al funzionario agente, della “violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l’esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi e che…si pongono come limiti esterni alla discrezionalità”.
 
Va, tuttavia, fin da subito rilevato che la scarna descrizione degli elementi essenziali della colpa rinvenibile nel passaggio della motivazione della sentenza n.500/99 dedicato alla questione si rivela carente ed inidonea a fornire agli operatori paradigmi valutativi certi ed al sistema una catalogazione concettuale definita.
 
 
 
La Suprema Corte chiarisce, innanzitutto, che l’indagine riservata al giudice deve riferirsi alla pubblica amministrazione come apparato impersonale e non al funzionario che ha adottato l’atto illegittimo.
 
Tale prima indicazione, se vale a svincolare l’accertamento giudiziale dai canoni d’indagine utilizzati ordinariamente per la verifica della sussistenza della colpevolezza in capo alle persone fisiche, non serve, tuttavia, in positivo, ad orientare l’indagine verso un centro d’imputazione della responsabilità agevolmente individuabile e, soprattutto, non offre sicuri criteri di giudizio nel compimento della disamina contestualmente suggerita.
 
Le ragioni di tali difficoltà si risolvono, a ben vedere, sull’improprio riferimento dello stato psicologico di colpevolezza all’organizzazione dell’ente, anziché alla persona fisica legittimata ad esprimerne la volontà o ad esso legata da un vincolo di subordinazione (come accade per le ipotesi di responsabilità, diretta e indiretta, degli enti privati).
 
La colpa d’apparato sembra, quindi, coincidere con la verifica di una disfunzione della funzione amministrativa, determinata dalla disorganizzazione nella gestione del personale, dei mezzi e delle risorse degli uffici cui è imputabile l’adozione o l’esecuzione dell’atto illegittimo.
 
Sennonchè, se tale è il carattere essenziale della colpa d’apparato la stessa si rivela impropriamente introdotta nella struttura dell’illecito, sia perché l’eventuale disorganizzazione amministrativa e gestionale non è necessariamente causa dell’illegittimità dell’atto, sia perché la stessa risulta essenzialmente estranea al profilo psicologico dell’azione amministrativa immediatamente produttiva del danno e, quindi, al campo d’indagine riservato al giudice chiamato a pronunciarsi sulla pretesa risarcitoria.
 
Non solo, ma la descrizione (appena riferita) dei requisiti della colpa omette qualsiasi considerazione e valorizzazione di circostanze esimenti, con ciò precludendo, di fatto, proprio quella penetrante indagine della riferibilità soggettiva del danno alla colpevole azione amministrativa che si raccomanda contestualmente al giudice del risarcimento.
 
4.4- Le ricostruzioni più recenti si sono, invece, basate, in antitesi all’indirizzo della Suprema Corte, sul rilievo critico che il criterio della “…violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l’esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi…” (indicato nella sentenza n.500/99) si risolve, se non attenuato da uno spazio di non colpevolezza (tuttavia non evidenziato dalla Cassazione), nella tautologica affermazione della coincidenza della colpa con l’illegittimità del provvedimento, con surrettizia reintroduzione della tesi che si è dichiarato di voler abbandonare.
 
4.5- In una delle prime e più importanti pronunce che si sono occupate della questione (Cons. St., sez. IV, 14 giugno 2001, n.3169) è stata condivisa la concezione oggettiva della colpa suggerita dalla Cassazione, che si basa cioè sull’apprezzamento dei vizi che inficiano il provvedimento, ma sono stati mutuati dalla giurisprudenza comunitaria diversi indici valutativi quali “…la gravità della violazione commessa dall’amministrazione, anche alla luce dell’ampiezza delle valutazioni discrezionali rimesse all’organo, dei precedenti della giurisprudenza, delle condizioni concrete e dell’apporto eventualmente dato dai privati nel procedimento”.
 
 
In applicazione di tali canoni di valutazione, il giudice deve, quindi, formulare il giudizio sulla colpevolezza dell’amministrazione, affermandola quando la violazione risulta grave e commessa in un contesto di circostanze di fatto e in un quadro di riferimenti normativi e giuridici tale da palesare la negligenza e l’imperizia dell’organo nell’assunzione del provvedimento viziato e, viceversa, negandola quando l’indagine presupposta conduce al riconoscimento di un errore scusabile (per la sussistenza di contrasti giurisprudenziali, per l’incertezza del quadro normativo di riferimento o per la complessità della situazione di fatto).
 
4.6- In una successiva pronuncia (Cons. St., sez. V, 6 agosto 2001, n.4239), sono stati ulteriormente chiariti i caratteri della responsabilità della pubblica amministrazione da attività provvedimentale ed, accedendo ad una ricostruzione dogmatica della stessa in termini di responsabilità da contatto sociale qualificato, si è precisato che, in analogia alle forme di accertamento giudiziale dell’illecito contrattuale o precontrattuale (e, in particolare, del criterio di imputazione del danno definito dall’art.1218 c.c.), la responsabilità dell’amministrazione per l’adozione di un atto illegittimo può presumersi, sotto il profilo dell’ascrivibilità del pregiudizio ad una condotta colposa dell’apparato.
 
In esito alla presupposta catalogazione concettuale della natura della responsabilità dell’amministrazione, svincolata dalla struttura e dalla disciplina dell’illecito aquiliano, è stato, quindi, ammesso il privato alla mera allegazione del danno patito e della sua riconducibilità eziologia all’adozione od all’esecuzione di un provvedimento viziato ed imposto all’amministrazione l’onere di dimostrare la propria incolpevolezza per mezzo della deduzione di elementi di fatto e di diritto idonei a documentare la ricorrenza di un errore scusabile e, quindi, a dimostrare l’assenza di colpa nel proprio operato.
 
Tale semplificazione probatoria viene, in particolare, giustificata e legittimata non tanto con il ricorso a presunzioni semplici, pure limitatamente invocabili nell’accertamento dell’elemento soggettivo, ma con una distribuzione dell’onere della prova che, sotto un profilo sostanziale, appare rispondere ad esigenze di garanzia e di favore per la posizione processuale del privato e, sotto un profilo di coerenza logico-sistematica dell’ordinamento processuale, si fonda su una lettura dell’illecito dell’amministrazione in termini analoghi a quelli propri dell’inadempimento di un’obbligazione contrattuale o dei doveri di correttezza ravvisabili nella fase delle trattative (e, quindi, tipici della responsabilità precontrattuale).
 
In tale ottica, viene superata l’equivalenza, precedentemente riconosciuta dalla stessa giurisprudenza amministrativa, colpa-violazione grave, ritenendosi, di contro, che quella enunciazione teorica si risolva in un’inammissibile limitazione della responsabilità dell’amministrazione ai soli casi di colpa grave (ma in difetto di una previsione positiva in tal senso) e che, quindi, anche la sussistenza di un vizio non macroscopico possa implicare responsabilità dell’amministrazione nella colpevole inosservanza dei pertinenti canoni d’azione.
 
Siffatta ricostruzione teorica è stata, poi, confermata sia dalla giurisprudenza amministrativa (Cons. St., sez. VI, 20 gennaio 2003, n.204), sia da quella ordinaria (Cass. Civ., sez. I, 10 gennaio 2003, n.157) che, in conformità alla riferita elaborazione concettuale, hanno condiviso l’assimilazione della responsabilità dell’amministrazione per attività provvedimentale (segnatamente per lesione degli interessi c.d. pretensivi) a quella contrattuale per violazione di diritti relativi, con le implicazioni già evidenziate in tema di accertamento della colpa.
 
4.7- Il Collegio dissente, tuttavia, dalla ricostruzione che ha fatto applicazione dei principi che presiedono alla responsabilità contrattuale per inadempimento al fine di giustificare l’affermazione della presunzione relativa di colpa e l’ascrizione all’amministrazione dell’onere di dimostrare la propria incolpevolezza e reputa, di contro, che le condivisibili esigenze di semplificazione probatoria sottese all’impostazione criticata possono essere parimenti soddisfatte restando all’interno dei più sicuri confini dello schema e della disciplina della responsabilità aquiliana, che rivelano una maggiore coerenza della struttura e delle regole di accertamento dell’illecito extracontrattuale con i caratteri oggettivi della lesione di interessi legittimi e con le connesse esigenze di tutela, ma utilizzando, per la verifica dell’elemento soggettivo, le presunzioni semplici di cui agli artt.2727 e 2729 c.c.
 
In tale ottica, il privato danneggiato, ancorchè onerato della dimostrazione della colpa dell’amministrazione, risulta agevolato dalla possibilità di offrire al giudice elementi indiziari facilmente acquisibili quali la gravità della violazione (qui valorizzata quale presunzione semplice di colpa e non come criterio di valutazione assoluto), il carattere vincolato dell’azione amministrativa giudicata, l’univocità della normativa di riferimento ed il proprio apporto partecipativo al procedimento.
 
 
Così che, acquisiti gli indici rivelatori della colpa, spetta poi all’amministrazione l’allegazione degli elementi (pure indiziari) ascrivibili allo schema dell’errore scusabile e, in definitiva, al giudice, così come, in sostanza, voluto dalla Cassazione con la sentenza n.500/99, apprezzarne e valutarne liberamente l’idoneità ad attestare o ad escludere la colpevolezza dell’amministrazione.
 
4.8- La rilevata semplificazione dell’onere probatorio (a carico e a discarico) appena descritta impone, quindi, di definire i caratteri che devono possedere gli elementi addotti a propria discolpa dalla pubblica amministrazione, a fronte della produzione degli indizi a suo carico, perché la situazione allegata integri gli estremi dell’errore scusabile e consenta, perciò, di escludere la colpa dell’apparato amministrativo.
 
Appare utile, al riguardo, riferirsi alla giurisprudenza comunitaria (Corte Giustizia C.E., 5 marzo 1996, cause riunite nn.46 e 48 del 1993; 23 maggio 1996, causa C5 del 1994) che, pur assegnando valenza pressoché decisiva alla gravità della violazione, indica, quali parametri valutativi di quel carattere, il grado di chiarezza e precisione della norma violata e la presenza di una giurisprudenza consolidata sulla questione esaminata e definita dall’amministrazione, nonché la novità di quest’ultima, riconoscendo così portata esimente all’errore di diritto, in analogia all’elaborazione della giurisprudenza penale in tema di buona fede nelle contravvenzioni.
 
Esclusa la correttezza di ogni riferimento, pure in astratto invocabile, al livello culturale ed alle condizioni psicologiche soggettive del funzionario che ha adottato l’atto, risulta, in proposito, accettabile il criterio della comprensibilità della portata precettiva della disposizione inosservata e della univocità e chiarezza della sua interpretazione, potendosi ammettere l’esenzione da colpa solo in presenza di un quadro normativo confuso e privo di chiarezza; restando, altrimenti, l’amministrazione soggetta all’inevitabile giudizio di colpevolezza nella violazione di un canone di condotta agevolmente percepibile nella sua portata vincolante.
 
Così come appaiono condivisibili i riferimenti, da più parti suggeriti, al criterio di imputazione soggettiva della responsabilità del professionista di cui all’art.2236 c.c. che, riconnettendo il grado di colpevolezza richiesto per la costituzione dell’obbligazione risarcitoria alla difficoltà dei problemi tecnici affrontati nell’esecuzione dell’opera, introduce un parametro di ascrizione del danno che tiene conto del grado di complessità delle questioni implicate dall’esecuzione della prestazione e che attenua la responsabilità del prestatore d’opera quando il livello di difficoltà risulti rilevante.
 
La medesima ratio sottesa alla richiamata disposizione civilistica può, infatti, ravvisarsi nelle fattispecie nelle quali la situazione di fatto esaminata dal funzionario comporta la risoluzione di problemi tecnici particolarmente rilevanti ed in cui, in definitiva, l’accertamento dei presupposti di fatto dell’azione amministrativa implica valutazioni scientifiche complesse o verifiche difficoltose della realtà fattuale.
 
A fronte, infatti, di una situazione connotata da apprezzabili profili di complessità, può, in particolare, ritenersi giustificata, in analogia con la disciplina della responsabilità del prestatore d’opera intellettuale, un’attenuazione di quella dell’amministrazione che la circoscriva alle sole ipotesi di colpa grave.
 
4.9- La ricostruzione appena esposta soddisfa, in particolare, al contempo, le esigenze di superare l’inaccettabile equazione illegittimità dell’atto-colpa dell’apparato pubblico, surrettiziamente reintrodotta con la sentenza n.500/99, di valorizzare gli aspetti obiettivi della condotta antigiuridica dell’amministrazione, di restituire coerenza sistematica alla regola di riparto dell’onere della prova da applicarsi nello schema di responsabilità in questione e, in definitiva, di agevolare le parti (rispettivamente interessate) nell’adempimento del dovere di dimostrare la colpa, in prima battuta, o la sua mancanza, negli estremi dell’esimente dell’errore scusabile.
 
4.10- Così definiti i caratteri costitutivi della colpa della pubblica amministrazione, risulta agevole rilevare, in ordine alla fattispecie in esame, che l’omessa esclusione di un’impresa, a fronte dell’omessa dichiarazione iniziale della disponibilità di tutte le attrezzature necessarie ad assicurare una corretta esecuzione dell’appalto, della verifica istruttoria dell’indisponibilità diretta da parte della società poi selezionata di alcuni indispensabili strumenti operativi e della tardiva comunicazione e documentazione dell’utilizzo di macchinari locati da terzi, si rivela senz’altro lesiva delle regole di condotta più sicure ed evidenti che deve osservare l’amministrazione nella gestione di una procedura competitiva: l’ammissione alla contrattazione delle sole imprese dotate della capacità tecnica necessaria ad eseguire correttamente la prestazione dovuta (vulnerata dalla mancata esclusione di un’impresa priva della necessaria capacità produttiva) e la parità di trattamento dei concorrenti (pregiudicata dal favore riservato ad una concorrente per mezzo della sua rimessione in termini nella documentazione dell’idoneità tecnica della sua organizzazione).
 
A fronte della violazione del dovere di garantire la par condicio e di quello di escludere le imprese sprovviste delle dotazioni tecniche necessarie a garantire la regolare prestazione dei servizi dovuti, non risulta, di contro, apprezzabile alcun elemento, peraltro neanche allegato dall’amministrazione (oneratavi), riconducibile ad una delle situazioni, sopra descritte, che autorizzano la configurabilità dell’errore scusabile.
 
4.11- Va, quindi, confermata la correttezza della statuizione appellata, là dove ha riconosciuto gli estremi dell’elemento psicologico nella condotta illegittima scrutinata, con conseguente reiezione della censura esaminata.
 
5.- L’appellante critica, inoltre, la decisione gravata, là dove ha accordato la tutela risarcitoria invocata dall’originaria ricorrente nelle forme del ristoro per equivalente, anziché verificare, in via preliminare, la praticabilità della diversa modalità della reintegrazione in forma specifica, nella specie meno gravosa per l’amministrazione.
 
5.1- Deve, al riguardo, precisarsi, in merito al rapporto tra le due tecniche di riparazione in discussione: il risarcimento per equivalente e la reintegrazione in forma specifica, per come ricavabile dal dato testuale dell’art.2058 c.c. (là dove precisa che “il danneggiato può chiedere…”), che, mentre la richiesta della seconda contiene la prima, sicchè: domandata la prima si può sempre (validamente) invocare la seconda in corso di causa (che può anche essere concessa d’ufficio dal giudice, senza violare il principio della domanda), la richiesta della prima (esclusivamente riservata ad una libera opzione processuale del soggetto danneggiato) non autorizza la scelta della seconda ad opera del giudice e non postula, per la sua concessione, l’impraticabilità della riparazione in forma specifica.
 
5.2- Tale analisi del rapporto tra i due moduli risarcitori va chiarito, con specifico riferimento al giudizio amministrativo ed alla lesione degli interessi c.d. pretensivi, nel senso che, se si qualifica come reintegrazione in forma specifica anche la rinnovazione dei provvedimenti annullati (come ritiene il Collegio), si deve concludere che il giudicato demolitorio-conformativo soddisfa direttamente e pienamente l’interesse azionato e preclude, come tale, l’esercizio della pretesa risarcitoria generica, solo nelle ipotesi in cui il provvedimento controverso non ha prodotto effetti irreversibili ed intangibili ed è, quindi, ancora possibile l’assegnazione al ricorrente (per via amministrativa) dell’utilità giuridica od economica alla quale egli aspira.
 
Viceversa, quando il conseguimento del bene della vita è divenuto ormai impossibile, vuoi perché il provvedimento finale è stato interamente eseguito, vuoi perché le sue conseguenze giuridiche si sono cristallizzate per mezzo di atti ulteriori che hanno consolidato posizioni soggettive di terzi, resta riservata all’iniziativa del danneggiato la selezione tra le due tecniche di riparazione (risultando, a quel punto, quella in forma specifica di difficile configurazione ed attuazione) e l’omessa richiesta della tutela reintegratoria non implica alcuna preclusione nella concessione del risarcimento per equivalente.
 
 
 
5.3- Risulta, così, agevole rilevare che, nel caso di specie, essendo stato stipulato il contratto d’appalto ed iniziata l’esecuzione del servizio ben prima della pronuncia della decisione appellata, la rinnovazione degli atti impugnati non poteva più condurre, di per sé, all’assegnazione del contratto alla ricorrente, che quest’ultima imponeva l’impervia intrapresa dell’impugnativa del contratto (con tutte le incertezze del caso) e che, in definitiva, in siffatta situazione processuale e sostanziale, la richiesta del risarcimento per equivalente non incontrava l’impedimento prospettato dall’Istituto appellante e risultava, anzi, quella maggiormente coerente con l’assetto sostanziale dei rapporti controversi venutosi medio tempore a determinare per effetto dell’aggiudicazione impugnata.
 
6.- Da ultimo, viene contestata la misura del pregiudizio risarcibile, riconosciuto dai primi giudici, seppur nella forma della fissazione dei criteri ai sensi dell’art.35 d. lgs. n.80/98, nel 10% dell’importo dell’appalto.
 
6.1- Risulta indispensabile, anche qui, una preliminare ricognizione dei parametri di determinazione del danno connesso alla lesione di interessi pretensivi (con particolare riferimento a quelli emergenti nelle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici).
 
6.2- Si deve premettere, in via generale, che la tutela risarcitoria serve ad assicurare al danneggiato la restitutio in integrum del suo patrimonio e, quindi, a garantire l’eliminazione delle conseguenze pregiudizievoli dell’attività illecita ascritta al soggetto responsabile.
 
La riparazione delle conseguenze dannose viene garantita dall’ordinamento mediante due modelli di tutela, tra loro alternativi: quello del risarcimento per equivalente, che riconosce al danneggiato il diritto ad una somma di denaro equivalente al valore della lesione patrimoniale patita e quello della reintegrazione in forma specifica, che attribuisce al soggetto passivo la medesima utilità, giuridica od economica, sacrificata o danneggiata dalla condotta illecita.
 
6.3- L’analisi che segue viene circoscritta alla sola tecnica del risarcimento per equivalente, esclusivamente rilevante in quanto l’unica nella specie (legittimamente) invocata dall’originaria ricorrente.
 
6.4- Tale modalità di riparazione si risolve, a ben vedere, in una forma di tutela per così dire surrogatoria, nel senso che garantisce, non l’utilità perduta o compromessa, ma, in sua sostituzione, una somma di denaro corrispondente al valore del bene della vita pregiudicato.
 
Il vero problema di tale forma di tutela coincide, allora, con la liquidazione del danno e cioè con la determinazione della misura dell’obbligazione pecuniaria dovuta in sostituzione del bene della vita ormai irrimediabilmente perduto o danneggiato.
 
Se tale opera di quantificazione risulta agevole nei casi, configurabili per lo più nelle attività illecite materiali, in cui il valore del bene leso è facilmente individuabile (si pensi ai danni subiti da un autoveicolo in un incidente stradale), non altrettanto può dirsi per le ipotesi, quali quelle interessate dall’attività provvedimentale lesiva, in cui la situazione soggettiva pregiudicata è connessa ad aspettative o interessi difficilmente apprezzabili nella loro consistenza economica.
 
Occorre, quindi, avvertire fin da ora che le maggiori difficoltà incontrate dal legislatore e dalla giurisprudenza nel definire i contorni della nuova forma di tutela introdotta nell’ordinamento con il riconoscimento della risarcibilità della lesione degli interessi legittimi sono riconducibili proprio alla catalogazione di criteri e parametri certi, funzionali alla determinazione della misura del pregiudizio risarcibile.
 
E’ vero, infatti, che, nell’impossibilità di dimostrare la misura esatta del danno, soccorre il metodo di liquidazione equitativa dettato dall’art.1226 c.c., certamente utilizzabile anche dal giudice amministrativo, ma, mentre nel sistema delineato dal codice civile l’ipotesi considerata viene contemplata come eccezionale, le pretese risarcitorie svolte contro la pubblica amministrazione (soprattutto per lesione di interessi legittimi) risultano endemicamente connotate da estrema difficoltà nella definizione del valore economico della posizione soggettiva lesa dall’atto illegittimo, sicchè compete per lo più alla giurisprudenza l’individuazione di canoni valutativi sufficientemente certi e satisfattivi delle esigenze di effettività della tutela postulate dalla nuova forma di protezione degli interessi legittimi.
 
Le difficoltà appena registrate risultano, in particolare, maggiormente avvertite nei casi di lesione di interessi pretensivi e procedimentali (nei quali la verifica della spettanza del bene della vita postula un’intermediazione amministrativa favorevole e risultano, quindi, difficilmente apprezzabili le effettive implicazioni economiche della violazione accertata), mentre si rivela più agevole la quantificazione del danno nei casi di lesione di interessi oppositivi (nei quali si tratta di determinare il valore del bene illegittimamente sacrificato).
 
 
 
 
6.5- Così illustrati in astratto i confini problematici del tema della quantificazione del danno, occorre esaminare i riflessi processuali della dimostrazione e determinazione del pregiudizio risarcibile.
 
La comune ascrizione dell’illecito commesso dall’amministrazione nell’esercizio dell’attività provvedimentale allo schema della responsabilità extracontrattuale implica, innanzitutto, che incombe al ricorrente (presunto danneggiato) l’onere di dimostrare l’esistenza di un pregiudizio patrimoniale, la sua riconducibilità eziologia all’adozione del provvedimento illegittimo e la sua misura, come riconosciuto dall’indirizzo prevalente formatosi in seno alla giurisprudenza amministrativa (cfr. ex multis Cons. St., sez. V, 25 gennaio 2002, n.416, in cui si ribadisce che incombe al danneggiato la prova di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito).
 
Ne consegue che il ricorrente non potrà limitarsi ad addurre l’illegittimità dell’atto, valendosi, ai fini della sua quantificazione, del principio dispositivo con metodo acquisitivo e, quindi, della sufficienza dell’allegazione di un principio di prova, ma dovrà compiere l’ulteriore sforzo probatorio di documentare il pregiudizio patrimoniale del quale chiede il ristoro nel suo esatto ammontare (pur con i limiti ontologici dell’assolvimento di tale onere).
 
In merito al contenuto della dimostrazione richiesta, va, peraltro, precisato che, poiché l’annullamento dell’atto illegittimo può determinare, da solo, l’integrale riparazione delle sue conseguenze lesive, compete al ricorrente provare che la rimozione del provvedimento non soddisfa, di per sé, l’interesse azionato e che residua un danno ulteriore nella sua sfera patrimoniale, non interamente reintegrato (in forma specifica) per effetto della caducazione dell’atto.
 
6.6- Come già rilevato, tuttavia, quando la lesione lamentata concerne interessi pretensivi o procedimentali la dimostrazione della misura del danno patrimoniale patito dal privato si rivela difficile, se non impossibile.
 
A fronte, infatti, del diniego di un’autorizzazione, della mancata aggiudicazione di un appalto o dell’omessa partecipazione al procedimento, risulta estremamente arduo definire l’esatto ammontare della perdita economica patita dall’interessato.
 
Appare utile, a tal riguardo, rammentare che il pregiudizio risarcibile si compone, secondo la definizione offerta dall’art.1223 c.c., del danno emergente e del lucro cessante: e cioè della diminuzione reale del patrimonio del privato, per effetto di esborsi connessi alla (inutile) partecipazione al procedimento, e della perdita di un’occasione di guadagno o, comunque, di un’utilità economica connessa all’adozione o all’esecuzione del provvedimento illegittimo.
 
Se per la prima voce di danno (quello emergente) non si pongono particolari problemi nell’assolvimento dell’onere della prova (è sufficiente documentare le spese sostenute), per la seconda (lucro cessante) si configurano, viceversa, rilevanti difficoltà.
 
Per avere accesso al risarcimento, infatti, il privato deve dimostrare, non solo che la sua sfera giuridica ha subito una diminuzione per effetto dell’atto illegittimo, ma che non si è accresciuta nella misura che avrebbe raggiunto se il provvedimento viziato non fosse stato adottato o eseguito.  
 
 
 
Come si vede, tale ultima dimostrazione presenta implicazioni di notevole complessità, attenendo a profili prognostici difficilmente apprezzabili nella loro effettiva consistenza ed attendibilità.
 
Soccorre, allora, l’applicazione di criteri presuntivi di determinazione del quantum, certamente invocabili dal privato in presenza della lesione di aspettative di ampliamento della sua sfera giuridica e patrimoniale.
 
Si tratta di presunzioni semplici che indicano, secondo la comune esperienza, parametri valutativi sufficientemente puntuali dell’entità della perdita economica patita dal privato per effetto dell’adozione dell’atto illegittimo ovvero della colpevole inerzia dell’amministrazione.
 
Perché sia ritualmente assolto l’onere della prova, è, tuttavia, necessario che il ricorrente danneggiato alleghi gli elementi di fatto e gli indizi sulla cui base possono individuarsi i parametri presuntivi di determinazione del danno.
 
L’esigenza di ricorrere a criteri presuntivi ed astratti di determinazione del danno è stata avvertita sia dalla giurisprudenza, che ha individuato un preciso canone indiziario (di seguito illustrato) per la determinazione del pregiudizio connesso alla perdita di un’occasione di successo in una procedura concorsuale, sia dallo stesso legislatore, laddove ha definito, con l’art.35 d. lgs. n.80/98, un peculiare metodo di liquidazione del danno fondato proprio sulla definizione giudiziale di parametri valutativi indeterminati o quando ha previsto, all’art.17, comma 1, lett. f), legge 15 marzo 1997, n.59, la definizione “di forme di indennizzo automatico e forfettario a favore dei soggetti richiedenti il provvedimento…per i casi di mancato rispetto del termine del procedimento o di mancata o ritardata adozione del provvedimento” stesso.
 
Merita, ancora, avvertire che non può valere ad esonerare dalla prova del danno la parte sulla quale incombe il relativo onere, il ricorso, anche su istanza del ricorrente, alla consulenza tecnica d’ufficio (pure, ormai, utilizzabile dal giudice amministrativo), posto che tale accertamento non si configura come un mezzo di prova in senso tecnico e può essere disposto solo al fine di acquisire apprezzamenti tecnici altrimenti non formulabili dal giudice, ma non può servire ad acquisire gli elementi che compongono il danno lamentato e, quindi, la sua dimostrazione (Cons. St., sez. IV, 14 giugno 2001, n.3169).
 
6.7- La più importante applicazione del ricorso a criteri presuntivi per la quantificazione del danno è rinvenibile nell’elaborazione giurisprudenziale in materia di valutazione del pregiudizio connesso a perdita di chance.
 
Si tratta dei casi in cui il ricorrente ha perso l’occasione di aggiudicarsi un appalto o di vincere un concorso per effetto dell’illegittima selezione di un altro concorrente o della propria indebita esclusione dal procedimento.
 
Si deve qui avvertire che, mentre non si pongono particolari problemi per la liquidazione del danno emergente (pari alle spese – documentate – sostenute per la partecipazione al procedimento), risulta più difficile la determinazione del lucro cessante.
 
A proposito di quest’ultima voce, occorre, anzitutto, chiarire che il suo contenuto cambia notevolmente se si accede alla qualificazione come precontrattuale della responsabilità dell’amministrazione per illegittima conduzione di una procedura ad evidenza pubblica.
 
Se si ravvisano, infatti, gli estremi della culpa in contraendo di cui agli artt.1337 e 1338 c.c., si deve, infatti, limitare l’area del pregiudizio risarcibile al solo interesse negativo: composto dalle spese sostenute per partecipare al procedimento ed alla perdita di occasioni di guadagno alternative, con esclusione, quindi, del mancato conseguimento dell’utile ricavato dall’esecuzione dell’appalto.
 
Se, invece, la violazione delle regole che presiedono alla corretta conduzione delle procedure ad evidenza pubblica viene ascritta allo schema astratto dell’illecito aquiliano, da valersi quale conclusione più plausibile della prima e maggiormente coerente con le pregnanti esigenze di tutela postulate dall’ordinamento comunitario in tema di competizioni concorrenziali per l’accesso agli appalti pubblici, si deve conseguentemente ritenere risarcibile anche l’interesse positivo e, cioè, nella voce relativa al lucro cessante, la perdita del guadagno (o della sua occasione) connesso all’esecuzione del contratto.
 
L’accesso a quest’ultima opzione, condivisa dalla Sezione, implica la necessità di provvedere alla determinazione di criteri valutativi astratti e presuntivi della misura del pregiudizio risarcibile, nella configurazione sopra tratteggiata.
 
La giurisprudenza amministrativa si è fatta carico di quest’onere ed ha individuato nell’art.345 della legge 20 marzo 1865, n.2248, Allegato F, un prezioso riferimento positivo, laddove quantifica nel 10% del valore dell’appalto l’importo da corrispondere all’appaltatore in caso di recesso facoltativo dell’amministrazione, nella determinazione forfettaria ed automatica del margine di guadagno presunto nell’esecuzione di appalti di lavori pubblici (cfr. ex multis Cons. St., sez.V, 8 luglio 2002, n.3796).
 
Ulteriore conferma positiva della validità di tale criterio presuntivo è stata, poi, rinvenuta nell’art.37 septies, comma 1, lett.c) della legge 11 febbraio 1994, n.109, laddove prevede, in materia di project financing, che, nelle ipotesi in cui la concessione sia risolta per inadempimento del concedente o revocata per motivi di interesse pubblico, al concessionario spetti un indennizzo, a titolo di risarcimento del mancato guadagno, pari al 10% delle opere ancora da eseguire.
 
Può, in definitiva, registrarsi il consolidamento di un indirizzo giurisprudenziale, ormai univoco e dal quale non si ravvisano ragioni per discostarsi, che, sulla base delle predette indicazioni normative, riconosce nella misura del 10% dell’importo a base d’asta, per come eventualmente ribassato dall’offerta dell’impresa interessata, l’entità del guadagno presuntivamente ritratto dall’esecuzione dell’appalto.
 
Occorre, tuttavia, ancora distinguere la fattispecie in cui il ricorrente riesce a dimostrare che, in mancanza dell’adozione del provvedimento illegittimo, avrebbe vinto la gara (ad esempio perché, se non fosse stato indebitamente escluso, sarebbe stata selezionata la sua offerta) dai casi in cui non è possibile acquisire alcuna certezza su quale sarebbe stato l’esito della procedura in mancanza della violazione riscontrata.
 
Nella prima ipotesi spetta, evidentemente, all’impresa danneggiata un risarcimento pari al 10% del valore dell’appalto, ferma restando la possibilità di conseguire una somma superiore, in presenza della dimostrazione che il margine di utile sarebbe stato maggiore di quello presunto.
 
Viceversa, quando il ricorrente allega solo la perdita di una chance a sostegno della pretesa risarcitoria (e cioè quando non riesce a provare che l’aggiudicazione dell’appalto spettava proprio a lui, secondo le regole di gara), la somma commisurata all’utile d’impresa deve essere proporzionalmente ridotta in ragione delle concrete possibilità di vittoria risultanti dagli atti della procedura.
 
Al fine di operare tale decurtazione vanno valorizzati tutti gli indici significativi delle potenzialità di successo del ricorrente, quali, ad esempio, il numero di concorrenti, la configurazione della graduatoria eventualmente stilata ed il contenuto dell’offerta presentata dall’impresa danneggiata.
 
6.8- La verifica della fondatezza della pretesa risarcitoria in questione e la conseguente determinazione dell’entità del pregiudizio risarcibile devono essere, quindi, condotte in coerenza con i parametri valutativi sopra descritti.
 
6.9- Risulta, allora, agevole rilevare che l’impresa danneggiata ha dimostrato che, senza l’esclusione dell’aggiudicataria, avrebbe vinto la gara (avendo conseguito il punteggio migliore dopo l’impresa illegittimamente selezionata), che la stessa, a fronte di tale concludente allegazione, non doveva offrire ulteriori prove (bastando l’allegazione della consistenza della posizione soggettiva pregiudicata: sicura aggiudicataria dell’appalto) e che quindi le spetta la somma forfettaria del 10% dell’importo a base d’asta (in applicazione del parametro presuntivo ut supra recepito dalla giurisprudenza largamente maggioritaria).
 
 
 
Correttamente, infine, i primi giudici hanno omesso di operare ulteriori decurtazioni sul predetto importo, posto che le invocate riduzioni della suddetta percentuale risultano ammesse solo in presenza dell’incertezza circa l’esito che avrebbe registrato la procedura selettiva in mancanza delle determinazioni annullate (nella specie, invece, pronosticabile con certezza nell’aggiudicazione dell’appalto in favore dell’a.t.i. ***).
 
Resta, in ogni caso, inteso che eventuali contestazioni sulla misura concreta dell’importo liquidato, sulla sua conformità ai parametri stabiliti e, più in generale, sulla sua coerenza con le regole che presiedono alla corretta determinazione del danno, e, in particolare, della voce del lucro cessante, potranno essere svolte nella sede processuale propria, definita e prevista dall’art.35 d.lgs. n.80/98 mediante il richiamo della disciplina relativa al ricorso per esecuzione del giudicato.
 
7.- Alle considerazioni che precedono conseguono, in definitiva, la reiezione dell’appello principale e la conferma dei capi della decisione di primo grado con lo stesso impugnato.
 
8.- La reiezione dell’appello principale comporta, da ultimo, la declaratoria dell’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse di quello incidentale, espressamente proposto in via condizionata per il caso di accoglimento di quello principale.
 
9.- Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
 
P.Q.M.
 
      Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quarta, respinge l’appello principale, dichiara improcedibile l’appello incidentale e condanna l’Istituto ricorrente a rifondere alla *** s.p.a. le spese di questo grado di giudizio, che liquida in complessivi euro 5000/00.
 
      Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità Amministrativa;
 
      Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio del 1° giugno 2004, dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, con l’intervento dei signori:
 
***************   Presidente
***************** Consigliere
 
**********    Consigliere
**********    Consigliere
 
*************   Consigliere rel. est.
 
L’ESTENSORE   IL PRESIDENTE
 
*************                        ***************
 
IL SEGRETARIO
 
***** *******
 
 
 
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
 
Il 10/08/2004
 
(art. 55, L. 27.4.1982, 186)
 
     Il Dirigente
 
Dott.Giuseppe Testa
 
– – 
 
N.R.G. 11260/2003
 
MA

Lazzini Sonia

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