La presunzione di paternità

DS redazione 22/10/15
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Testo tratto dal contributo di Enrico Carbone nell’ambito del volume “La nuova disciplina della filiazione”, Maggioli Editore, dicembre 2014

 “Il marito è padre del figlio concepito durante il matrimonio”, recitava il testo originario dell’art. 231 c.c., passato indenne attraverso la riforma del 1975.

Libera traduzione della formula romanistica (“pater vero is est, quem nuptiae demonstrant”), adattata dal codice napoleonico (“l’enfant conçu pendant le mariage a pour père le mari”), la c.d. presunzione di paternità è di natura assai incerta.

Taluno immagina davvero una presunzione legale, iuris tantum, che, nel lessico dell’art. 2727 c.c., inferisce la paternità del marito, quale “fatto ignorato”, dalla fedeltà della moglie, quale “fatto noto”17.

Talaltro scorge una “attribuzione legale”, anziché una presunzione, la norma denunciando una logica attributiva (“il marito è padre”), anziché inferenziale (“il marito si presume padre”).

Quest’ultima tesi è preferibile, giacché l’art. 231 c.c. stabilisce “non una presunzione, ma una realtà”; realtà provvisoria, tuttavia, che il legislatore sancisce per convenzione, fondata sull’honor matrimonii.

L’artificio della presunzione di fedeltà tradisce un’ispirazione etica, sovrapponendo il dovere all’essere, il dovere della fedeltà all’essere della filiazione. Siffatta impostazione ha relegato in una condizione ambigua il figlio che, nato prima dei centottanta giorni dalla celebrazione del matrimonio, è stato concepito da donna non ancora coniugata, da donna, cioè, non tenuta a fedeltà.

Proclamando che “il marito è padre del figlio concepito o nato durante il matrimonio”, l’art. 231 c.c., novellato dalla riforma del 2012/13, mostra di aver superato quella vecchia impostazione, dacché estende la presunzione di paternità sino ad abbracciare il figlio concepito prima delle nozze, se nato in costanza di matrimonio.

 

Il figlio nato prima dei centottanta giorni

Ai sensi dell’art. 233 c.c., testo originario, “il figlio nato prima che siano trascorsi centottanta giorni dalla celebrazione del matrimonio è reputato legittimo se il marito non ne disconosce la paternità”.

Il nato in costanza di matrimonio non era figlio legittimo, dunque, ma figlio “reputato legittimo”, se la data di nascita rivelava il concepimento anteriore alle nozze.

Per un’autorevole tesi, il concepimento anteriore alle nozze, disattivando la presunzione di paternità, negava al figlio la legittimità originaria, sicché questi era da intendersi come figlio naturale, legittimato per susseguente matrimonio in base a un riconoscimento presunto, che il marito della madre poteva rimuovere con semplice dichiarazione negativa.

Dopo la riforma del 1975, che ha ammesso al disconoscimento ex art. 233 c.c. anche la madre e il figlio, quella visione è stata superata in favore della tesi della legittimità originaria, escludendosi, altresì, che lo stato legittimo potesse essere rimosso ad nutum.

Perduravano gravi incertezze ricostruttive, tuttavia, con immediate conseguenze sul tema della prova.

Taluno riteneva che la mancanza dell’obbligo coniugale di fedeltà all’epoca del concepimento sottraesse forza alla presunzione di paternità, lasciandola come “attenuata”, sì da consentirne il superamento per mera “denegazione di paternità”, semplice manifestazione volontaristica, che non esigeva prova a sostegno, né ammetteva prova contraria.

Per altri, il disconoscente non aveva l’onere di fornire la prova negativa di paternità, ma i convenuti avevano la facoltà di darne la prova positiva.

La giurisprudenza riconosceva al figlio nato prima dei centottanta giorni l’autentico stato legittimo, “stato non precario”, destinato a cadere unicamente se l’attore avesse fornito la prova negativa di paternità, esercitando la medesima azione di disconoscimento necessaria a vincere la presunzione di paternità del figlio concepito durante il matrimonio, col solo esonero dalle condizioni di ammissibilità ex art. 235 c.c.25; ritenevano i giudici che la vis matrimonii attraesse allo stato legittimo il figlio nato in costanza di matrimonio, anche se concepito prima delle nozze.

Su questa linea si è attestata la riforma del 2012/13, che ha abrogato l’art. 233 c.c., avendo esteso la presunzione di paternità dal “figlio concepito durante il matrimonio” al “figlio concepito o nato durante il matrimonio” (art. 231 c.c.).

Oggi, il figlio nato prima dei centottanta giorni ha il medesimo status del figlio concepito durante il matrimonio, anche per lui valendo l’attribuzione legale della qualità di padre al marito della madre, fino al vittorioso esercizio dell’azione di disconoscimento tramite prova negativa di paternità.

L’estensione al criterio della nascita matrimoniale e l’inclusione del figlio ante nuptias conceptus rimarcano che la c.d. presunzione di paternità, lungi dal fondarsi su un’illazione legale circa la fedeltà muliebre, ha basi eminentemente convenzionali: quale affermazione di verità interinale, poggiata sulla dignità del matrimonio, essa muta perimetro, secondo il cangiante giudizio d’opportunità del legislatore.

 

La paternità presunta come verità interinale

L’abrogazione dell’art. 233 c.c. ha spezzato il legame – sul quale anche dottrina recente insisteva – tra obbligo di fedeltà e presunzione di paternità, quest’ultima avendo assorbito una fattispecie di concepimento anteriore all’insorgenza del dovere coniugale.

Ciò impone di rifondare la presunzione di paternità intorno ad una funzione non vagamente etica, ma strettamente dimostrativa, aderente alla matrice romanistica (“pater vero is est, quem nuptiae demonstrant”).

Ancor prima della riforma del 2012/13, la dottrina più sensibile al favor veritatis assegnava alla presunzione di paternità la funzione di istituire una “momentanea certezza” sull’identità del genitore maschile; una “verità interinale”, fino alla prova contraria liberamente spendibile nell’azione di disconoscimento, ormai affrancata dai limiti della tradizione.

L’impostazione sembra corroborata dalla riforma, che, liberalizzando il disconoscimento di paternità quanto a fattispecie e prova, consente di rimuovere, senza le barriere del passato, la verità interinale agganciata al concepimento o alla nascita in costanza di matrimonio.

Una dottrina assume che, includendo il figlio nato prima dei centottanta giorni, la presunzione di paternità si sia trasformata in una finzione giuridica. A ben vedere, tuttavia, essa presunzione, anche nell’odierna latitudine, non violenta la realtà, com’è tipico della fictio iuris, ma si limita a darne una versione provvisoria, che l’azione di disconoscimento può liberamente sovvertire.

Chiaro il nesso tra la maggior ampiezza della presunzione di paternità e la liberalizzazione dell’azione di disconoscimento, in quanto l’incondizionata praticabilità delle indagini genetiche consente di rimuovere più facilmente la verità interinale, bilanciando l’accresciuta larghezza della regola che la sancisce.

 

Presunzione di paternità e filiazione non matrimoniale

Si è approvata l’estensione della presunzione di paternità nei riguardi del figlio ante nuptias conceptus, giacché la presunzione di paternità basata esclusivamente sul concepimento matrimoniale rifl etteva l’anacronistico divieto morale dei rapporti sessuali prematrimoniali.

Si è lamentato, invece, che la presunzione di paternità non sia stata estesa anche alla stabile convivenza non matrimoniale, essa pure aperta, come la convivenza matrimoniale, all’eventualità procreativa33. L’ulteriore estensione è stata impedita dal carattere informale dell’unione more uxorio, alla quale fa difetto una posizione giuridicamente certa, cui riconnettere la presunzione di paternità34. La convivenza more uxorio fonda la più qualificata tra le presunzioni semplici agli effetti della dichiarazione di paternità ex art. 269 c.c.35.

Essa non fonda un’attribuzione legale, tuttavia, occorrendo pur sempre la mediazione giudiziale. Iure condendo, la presunzione di paternità sarebbe attivabile dalle unioni non matrimoniali dotate dei requisiti di ufficialità necessari alla formazione stragiudiziale del titolo di stato (ad esempio, convivenze registrate).

La presunzione di paternità ha base convenzionale, sicché il legislatore, come l’ha discrezionalmente estesa alla filiazione ante nuptias concepta, discrezionalmente potrebbe estenderla alla filiazione sine nuptiis concepta, ove l’unione dei genitori manifestasse una forza indicativa analoga a quella del matrimonio. Quando omette di autorizzare la formalizzazione della convivenza more uxorio (ad esempio, tramite registrazione), il legislatore sembra esercitare la propria discrezionalità in modo arbitrario e rischia di violare gli artt. 2 e 3 Cost., perché, senza motivo, nega il beneficio della presunzione di paternità a chi è nelle condizioni di goderne, irragionevolmente sbarrandogli l’accesso, per via automatica, allo stato di figlio.

Pur nel regime della filiazione unificata, si sostiene che l’idoneità del matrimonio all’attribuzione automatica dello stato di figlio non abbia carattere discriminatorio, trovando giustificazione nell’art. 29 Cost.36; e che estendere la presunzione di paternità alla filiazione non matrimoniale signifi chi erodere le prerogative del matrimonio.

Orbene, trattasi esclusivamente di verificare se quell’idoneità e quelle prerogative, a determinate condizioni, siano estensibili verso l’unione non matrimoniale; e se incorra nell’illegittimità costituzionale il legislatore che rifiuti l’estensione, impedendone le condizioni, ad onta del diritto primario allo status filii.

DS redazione

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