La pericolosità sociale nella Criminologia europea

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Nei dizionari della lingua francese, il lemma “ dangerosité “ non possiede quasi mai una valenza criminologica o giuspenalistica, mentre il lemma “ nocuité “ indica una realtà patologica che lede la salute morale o intellettiva dell’ individuo, ma, anche in questo caso, si tratta di un concetto lontano da quello degli Artt. 203 e 133 del Codice Rocco nell’ Ordinamento giuridico italiano. Viceversa, nell’ Italia degli Anni Novanta dell’ Ottocento, il sostantivo “ pericolosità “ possedeva un’ importanza fondamentale nell’ ambito delle Teorie psico-patologico-forensi di Garofalo, di Ferri e, soprattutto, di Lombroso.

Soltanto tra il 1914 ed il 1940, nel Diritto Penale europeo, ha preso corpo la sinistra e troppo spesso ambigua figura dell’ individuo socialmente pericoloso nonché patologicamente e deterministicamente incline alla criminalità violenta. Tuttavia, provvidenzialmente, non tutti i Dottrinari occidentali, tra la fine dell’ Ottocento e l’ inizio del Novecento, mescolavano la responsabilità penale con la malattia, in tanto in quanto, come asserito da Proal ( 1894 ), “ la responsabilità non è per nulla un’ illusione, altrimenti non esisterebbero più nemmeno la colpevolezza e la giustizia penale. Se il criminale è una bestia malfattrice senza personalità, lo si può eliminare, ma, se si riesce a dimostrare che è colpevole, esiste il diritto di punirlo laddove lo richiedono l’ interesse sociale e la giustizia “. Anche l’ iper-positivista Garofalo ( 1890 ) ammette che “ esistono dei legami tra l’ anima ed il cervello “, ovverosia la pericolosità sociale di un individuo rappresenta una condizione parallela all’ auto-coscienza dell’ illecito commesso e, pertanto, non tutto dipende da reazioni endocrine sperimentalmente verificabili. Pure Beccaria ( 1764 ) dichiarava che “ sulla base dell’ osservazione e a prescindere dalle predisposizioni ereditarie, non esistono uomini capaci solo di tendere al crimine o uomini predisposti solo al bene. Quindi il dovere del magistrato consiste nel tener conto dei vari gradi di responsabilità e di cercare nelle predisposizioni ereditarie tutto quello che può attenuare la colpevolezza “. I summenzionati Autori non sono affatto superati o anacronistici e rifiutano quella Medicina Legale onnipresente ed onnipotente che oggi pretende di sostitire qualunque approccio giuridico al tema della pericolosità sociale. In effetti, la criminogenesi subisce molti condizionamenti personali, familiari, sociali o financo abitativi, ma rimane poi intatta la responsabilità personale del reo, il quale non può andare esente da pena nel nome di presunte patologie ereditarie immutabili e de-personalizzanti. P.e. , basti pensare alla fattispecie del Diritto Penale Minorile, in cui le carenze anagrafiche non provocano affatto una perenne condizione di non imputabilità assoluta. Anche dal punto di vista costituzionale, il Principio rieducativo ex comma 3 Art. 27 Cost., nell’ Ordinamento italiano, è incompatibile con la nozione della tara ereditaria che sottrae qualsivoglia possibilità di auto-determinazione volitiva. Diversamente, il Diritto Penale rischia di tornare al concetto dello “ sporco negro “ drogato da neutralizzare entro un’ oscura prospettiva neo-retribuzionistica contraria alla ratio democratico-sociale della tutela della dignità umana del reo. Garofalo ( ibidem ) ipostatizza la Psicopatologia forense sino al punto di affermare che “ i criminali sono affetti da un’ insensibilità morale che li colloca in uno stato psichico analogo a quello della follia. Essi non sono né liberi né responsabili perché sono privi del senso morale. Questa insensibilità morale è incompatibile con il libero arbitrio, ma non è solo frutto di una malattia, bensì essa dev’ essere attribuita all’ organismo che, più che essere malato, è incompleto. L’ intelligenza non manca ai criminali, ma quello che manca è il senso morale. Essi non hanno alcuna pietà per le loro vittime, essi non provano rimorsi. Questa assenza del senso morale rende il criminale non responsabile e, quindi, privo di ogni responsabilità penale “. Viceversa, Proal ( ibidem ) nega, giustamente, il determinismo lombrosiano di Garofalo, giacché “ il criminale non è un bruto, un mostro disumano incapace di buoni sentimenti e capace di fare il male per il gusto di farlo, senza né coscienza né libertà morale. La coscienza forse può oscurarsi in lui e la volontà può depravarsi, ma questo abbruttimento è il risultato di una perversione acquisita, progressiva, responsabile e non congenita o immutabile. La coscienza, nella maggior parte dei casi, può ancora risvegliarsi “. Negare la personalità e la sussistenza della responsabilità penale comporta il rischio di giungere alla conclusione che l’ infrattore va neutralizzato anziché rieducato e reinserito nel tessuto sociale. Tale è la tendenza contemporanea della Criminologia statunitense, in cui il condannato si trasforma in un rifiuto collettivo perennemente proteso alla pericolosità sociale e non trattabile con alcun tipo di approccio pedagogico. Negli USA degli Anni Duemila, colui che turba la pace sociale è incarcerato senza alcuna prospettiva di riabilitazione e, per conseguenza, anche la pena di morte costituisce ormai un ordinario strumento della giustizia penale, in tanto in quanto l’ essere socialmente pericolosi è percepito come una condizione irreversibile e non più rimediabile.

La pericolosità sociale dell’ infrattore anti-normativo, nella Criminologia francofona, è associata quasi sempre a devianze gravemente contrarie al Diritto Penale vigente. Pertanto, l’ individuo socialmente pericoloso va rieducato e/o curato per fini di riabilitazione e di reinserimento nella società, tranne nel caso in cui la devianza di matrice borderline sia anti-sociale ancorché non anti-normativa. In quest’ ultimo caso, a parere di chi redige, il Criminologo ed il Giurista debbono prestare la massima attenzione a non commettere l’ errore della Common Law statunitense, la quale esaspera gli interventi penalistici anche per le fattispecie istrioniche, bagatellari o, semplicemente, eccentriche, che non dovrebbero cagionare alcun allarme collettivo. Viceversa, nel caso degli USA, la Giuspenalistica e la pena detentiva si sono tristemente trasformate in un orribile Leviatano Stato-centrico che utilizza il carcere alla stregua di una populistica medicina sociale neutralizzante e priva di una ratio pedagogica ( v., a tal proposito, il comma 3 Art. 27 della Costituzione italiana o, specularmente, l’ Art. 75 schwStGB ). Un altro errore frequente consiste nel coniugare, sempre e comunque, la pericolosità sociale all’ infermità mentale. Siffatta equazione lombrosiana provoca una persistente negazione dell’ imputabilità, ma, anche in tal caso, il borderline non è automaticamente definibile come un malato da internare. In effetti, con grande lucidità, Proal ( ibidem ) sottolinea che “ quando viene commesso un crimine mostruoso, spesso ci si domanda se forse non si tratti del gesto di un folle. Del resto, effettivamente, la follia ispira degli atti orribili di ferocia e di violenza [ ma ] l’ esperienza giudiziaria ci insegna che i crimini più odiosi e più ripugnanti possono benissimo essere consumati da uomini che non sono per nulla degli alienati “. Anzi, nella maggior parte delle fattispecie penali, l’ operatore giuridico deve scientificamente affrancarsi dal fuorviante mito dello psicopatico aggressivo, omicida e stupratore. Viceversa, per assurdo, bisognerebbe estendere in misura eccessiva la tipologia dell’ infermo o del semi-infermo descritta negli Artt. 88 ed 89 del Codice Penale italiano. La Rems, per citare il caso emblematico del Diritto Penale italiano, non deve costituire mai una soluzione comoda e veloce al problema della criminalità. D’ altronde, l’ ex regime sovietico ha dimostrato, nel Novecento, l’ aberranza inaccettabile della sovrapposizione grossolana tra follia e resistenza illecita anti-ordinamentale.

Provvidenzialmente, negli Anni Sessanta del Novecento, la Criminologia europea, soprattutto nei Paesi francofoni, ha tentato di separare la nozione di pericolosità sociale da quella di delinquenza, nel senso che il Diritto Penale non deve ipostatizzare, in maniera giustizialistica, il contenimento o, addirittura, l’ eliminazione dei presunti nemici della pacifica convivenza comunitaria. Un Ordinamento che eccede nel controllo sociale rischia di ricorrere al trattamento penitenziario anche nei confronti di infrattori che, tutto sommato, non sono né eversivi né socialmente pericolosi. Il francofono Ancel ( 1966 ) rigetta le politiche criminali ultra-securitarie, le quali confondono la psicopatologia forense con un Diritto Penale libero da eccessivi condizionamenti medico-legali. In effetti, nella Criminologia post-bellica del XX Secolo, “ il criterio della pericolosità sociale è naturalmente distinto dal criterio della responsabilità [ … ] Molti accusano le Teorie della difesa sociale di voler sacrificare l’ individuo allo Stato e la libertà personale al rigore della repressione. Ancor oggi, molti preferiscono l’ intimidazione collettiva e la protezione della gente onesta nei confronti della criminalità “ ( Ancel, ibidem ). Del resto, non va dimenticato che molti regimi dittatoriali, nel passato come nel presente, sono purtroppo scaturiti dall’ inziale pretesa di aumentare il controlo sociale al fine di espellere dalla società le presunte devianze anti-sociali che turbano la quiete dei consociati, i quali sono sovente prede facili di abnormi ed allarmistiche inquietudini generate dal mondo politico e dalla cronaca giornalistica. Con afferenza a tale problematica, molto pertinentemente Nils Christie affermava che non si può mai raggiungere un azzeramento totale dei pericoli sociali, in tanto in quanto è fisiologica la permanenza di “ una modica quantità di crimine “. In buona sostanza, la predicazione ossessiva della sussistenza di troppi pericoli sociali provoca un’ oltranzista difesa della collettività che finisce, più o meno esplicitamente, per fondare e giustificare uno Stato di Polizia, la cui apparente perfezione viola le regole garantistiche fondamentali, come quelle espresse nell’ Art. 13 della Costituzione italiana del 1948. Il “ social control “, tanto caro alla Common Law anglo-americana,  non rispetta la dignità umana e non garantisce le libertà fondamentali dell’ individuo, le quali sono la condizione primaria per l’ esercizio dei diritti e per lo sviluppo della persona umana “ ( Ancel, ibidem ).

Dopo la seconda guerra mondiale, la Criminologia ha adoperato la massima cautela nell’ approccio alla tematica della difesa sociale dai soggetti socialmente pericolosi. In effetti, i regimi totalitari del Novecento avevano strumentalizzato la realtà della pericolosità sociale e, nel nome di svariate Teorie securitarie, taluni regimi dittatoriali erano giunti al punto di giustificare l’ eugenetica, la selezione razziale e la soppressione dei presunti portatori di tare ereditarie o razziali. Del resto, Garofalo e Lombroso, più o meno consapevolmente, avevano ratificato l’ ideologia secondo la quale esisterebbero razze pericolose da sterminare, in tanto in quanto naturalisticamente ed ereditariamente portatrici di devianze delinquenziali. In Francia, ad esempio, il Legislatore, dopo l’ orribile esperienza del collaborazionismo di Vichy, ha abrogato le Normazioni fondate sulla ratio della pericolosità sociale dei disabili, dei tossicodipendenti e degli alcolisti acuti, ma, onestamente parlando, la Scuola criminologica positivista ha prolungato i suoi sinistri influssi bio-selettivi sino agli Anni Sessanta del Novecento. Esisteva, infatti, la sottile chimera di eliminare i rifiuti sociali per poter costruire una collettività utopisticamente libera da consociati pericolosi o, più semplicemente, diversamente abili. Secondo Solon ( 1986 ) “ certamente vari fenomeni spiegano questa eclissi [ del concetto di pericolosità sociale ]. Si pensi alla situazione politica nazionale ed internazionale ed al tema dell’ insicurezza sino alla fine degli anni settanta, con la critica della repressione e delle misure di sicurezza nel blocco sovietico, oppure ancora si pensi alla dimensione libertaria del movimento del 1968 “. Tuttavia, nella Giuriprudenza degli Ordinamenti francofoni, continuava ad essere discusso ed applicato il tema della pericolosità sociale, soprattutto con afferenza ai sessuomani violenti rei di pedofilia. Oppure ancora, nel caso del Codice Penale francese, il Legislatore, nel 1994, ha reinserito la pena dell’ ergastolo per la fattispecie dell’ assassinio di infra-15enni preceduto o accompagnato da uno stupro. In tal caso, il pedofilo era ed è considerato estremamente pericoloso per la collettività e le misure di sicurezza a carico dei parafiliaci sono molto pesanti e pressoché perpetue, il che ricorda da vicino la ratio della pericolosità sociale nell’ Art. 123a della Costituzione federale svizzera. Anzi, a partire dagli Anni Novanta del Novecento, la Criminologia dell’ Europa centrale ha riadottato il trinomio restribuzionistico sintetizzabile nei lemmi-chiave “ reiterazione-recidiva- pericolosità “.

Foucault ( 1999 ) ha negativamente criticato la commistione confusa tra Diritto Penale e Medicina sul tema della pericolosità sociale dell’ infermo o semi-infermo di mente, poiché “ un certo tipo di potere – né medico né giudiziario – ha colonizzato il sapere medico e quello giuridico. Si tratta di un tipo di potere che oltrepassa i tribunali e che sostituisce sia le istituzioni giudiziarie sia le istituzioni mediche, con una propria autonomia e con regole proprie “. Anche Senon ( 2008 ) non manca di sottolineare che l’ individuo socialmente pericoloso è o non è tale alla luce di valutazioni mediche, ma anche giuridiche, mentre, in epoca contemporanea, la Psicologia forense tende ad estendersi in maniera ipertrofica, sino a negare e quasi soffocare le debite qualificazioni prettamente giuridiche. Altrettanto lodevolmente, Castel ( 1983 ) rimarca che “ la diagnosi del soggetto pericoloso non è mai assolutamente certa “. Ovverosia, la Psicopatologia giuridica non è e non sarà mai in grado di prevedere la recidiva in modo matematicamente incontestabile, giacché il Diritto deve mantenere vive le proprie qualificazioni in merito ad eventuali pericoli per la società. La Medicina non può sostituirsi alle valutazioni del Magistrato, specialmente se si considera che molti operatori sanitari seguono tutt’ oggi criteri aberranti, improntati all’ eugenetica ed alla selezione su base psico-fisica. Il Giurista può commettere errori, ma, parimenti, anche il medico od il pedagogo non sono depositari di verità assolute ed algebriche, come dimostra il razzismo pseudo-scientifico di Lombroso, il quale giustificava vere e proprie discriminazioni sulla base di criteri risibili ed oggi completamente e fortunatamente ripudiati dalla biologia democratica contemporanea.

La pericolosità sociale nella Medicina forense contemporanea

Centonze ( 2010 ) critica aspramente gli Psicopatologi che pretendono di fornire osservazioni personologiche impeccabili ed assolutamente certe. Nella prognosi della pericolosità sociale e, quindi, dell’ eventuale recidiva, il Giurista ed il CTU sono entrambi esposti a notevoli margini di errore, dunque “ i più accreditati sistema di classificazione ( quali il DSM-IV-TR e l’ ICD-10 ) debbono oggi assumere il valore di parametri di riferimento aperto [ e non apodittico, ndr ], in grado di comporre le divergenti teorie interpretative della malattia mentale e fungere, quindi, da semplici contenitori da cui poi partire per indagare il livello di compromissione individuale “ ( Cass., 8 marzo 2005, n. 9163 ). Detto con lemmi meno tecnici, Cass., 8 marzo 2005, n. 9163 sottolinea che l’ infermo di mente non è riconducibile ad una formula chimica o matematica assolutamente incontestabile, come ben dimostra l’ Art. 133 CP, che esamina infinite sfumature caratteriali del reo, senza poi contare che la personalità, nel lungo periodo, è soggetta a mutazioni imprevedibili, come ben dimostrato dall’ applicazione quotidiana del Diritto Penale Minorile. In buona sostanza, la pericolosità sociale costituisce un concetto liquido, multiforme e mai statico, poiché non statica è la personalità di qualunque essere umano.

Nell’ ambito della valutazione della pericolosità sociale ed alla luce dei criteri ermeneutici di cui all’ Art. 133 CP, “ l’ indagine peritale dovrà essere volta ad accertare la presenza di un disturbo d’ intensità qualitativa e quantitativa tale da comportare l’ alterazione, permanente o temporanea, di una o più funzioni attraverso cui l’ Io si definisce, in una conseguente esclusione o attenuazione della capacità di intendere e volere in cui i concetti di reato e pericolosità sociale acquistano valore di sintomo “ ( Fornari, 2008 ). Nella Psichiatria Forense contemporanea, il CTU è chiamato ad un esame assai ampio che traduce, a livello medico, i requisiti oggettivi e, soprattutto, soggettivi indicati nei commi 1 e 2 Art. 133 CP. Dunque, come esplicato da Gullotta ( 2011 ), la valutazione della pericolosità sociale deve prendere in considerazione un numero assai ampio di variabili, come, ad esempio, l’ ambiente personale e familiare dell’ infrattore, gli aspetti funzionali dell’ Io ( funzioni percettive, memorizzative ed organizzative ), l’ identità dell’ Io del reo ( integrazione, autostima, autonomia ), la forza della volontà personale, il controllo degli istinti, il funzionamento del Super-Io, l’ interiorizzazione di valori stabili, realistici, autocritici, il grado di rispetto delle Norme sociali, la gestione dell’ aggressività, l’ assenza di reazioni eccessive di fronte alle problematiche quotidiane e la relazione con gli oggetti interiorizzati. Come si può notare, l’ eventuale pericolosità del soggetto ed il conseguente pericolo di recidiva non sono affatto lasciati a prognosi sintetiche o semplicistiche e la diagnosi dell’ anti-socialità criminogena deve seguire i criteri indicati nel DSM-V, pur se, a parere di chi redige, Gullotta ( ibidem ) manifesta un’ eccessiva fiducia nel lavoro del CTU, che, nella maggior parte dei casi, ed alla luce degli Artt. 88 ed 89 CP, non potrà mai giungere a certezze assolute, in tanto in quanto la personalità dell’ individuo socialmente pericoloso è e sarà sempre dinamica, dunque soggetta a mutamenti imprevedibili, nel bene o nel male. Di nuovo, chi scrive intende criticare la presunta onnipotenza della Psicopatologia forense, la quale non giunge mai a teoremi matematicamente certi ed affidabili, soprattutto nell’ ambito delle devianze anti-giuridiche minorili e giovanili, le quali vedono protagonisti infrattori con un Io ed un Super-Io ancora in corso di formazione e stabilizzazione. Idolatrare il ruolo del CTU significa attribuire alla Medicina Legale un ruolo eccessivo, che finisce per coprire le altrettanto basilari valutazioni giuridiche del Magistrato.

Come ampiamente precisato da Ponti  &  Merzagora Betsos ( 2008 ), non tutte le patologie recano ad una criminalità violenta. P.e., se alla base della pericolosità sociale esiste un semplice ritardo mentale, le devianze e la recidiva riguarderanno, di solito, reati bagatellari, che sovente sono anti-sociali ancorché non anti-normativi. Pure nellla fattispecie dei disturbi nevrotici connessi ad un’ ansia eccessiva, come confermato da Capri ( 2008 ), l’ esplosione improvvisa dell’ aggressività può essere auto-/etero-controllata e, pertanto, la pericolosità sociale non è quasi mai ingestibile o gravemente invalidante. Egualmente non pericoloso per la collettività è pure l’ individuo demente, il quale può essere inibito con una semplice attività di accompagnamento, farmacologico o non, e di custodia. Viceversa, come rimarcato da Capri ( ibidem ), si nota una pericolosità sociale acuta nei disturbi psicotici “ che comprendono quelle condizioni morbose che comportano un sovvertimento della struttura psichica di particolare gravità e una disgregazione, più o meno avanzata, di tutta la personalità, caratterizzata da ritiro dalla realtà, percezione e affettività distorte, intelletto, giudizio, pensiero e linguaggio disturbati, regressione a comportamenti primitivi e assenza di auto-critica “. Ciononostante, anche per questa patologia, va contestato l’ abuso dell’ attribuzione dei disturbi psicotici, che spesso generano sì sofferenze personali, ma non conducono all’ aggressività etero-lesiva. Analogamente, bisogna precisare che non tutte le parafilie sono socialmente pericolose, tranne nella grave fattispecie delittuosa della pedofilia o di pratiche libidinose violente, abbondantemente vericolate e disinibite dalla pornografia e dalla semi-pornografia televisiva e on-line. Naturalmente, non può mancare un accenno alla pericolosità sociale indotta dal Disturbo Depressivo Maggiore, “ che può spingere al suicidio inteso come fuga dall’ angoscia, talvolta preceduto dall’ omicidio familiare come reazione ad una visione irrimediabilmente pessimistica della vita in cui il soggetto, gravato da complessi di colpa e d’ inferiorità coinvolge le persone più care “ ( APA, 2000 ). Nel Compendio criminologico di Ponti  &  Merzagora Betsos ( ibidem ), un posto di rilievo è occupato dai disturbi del controllo degli impulsi ad eziologia tossicomaniacale. In effetti, come ampiamente dimostrato, sostanze tossicovoluttuarie ed alcol disinibiscono, conducendo ad aggressioni, vandalismo ed omicidi volontari, il che deve recare il CTU alla previsione di un pericolo sociale grave e concreto, anzi imminente. Quanto, poi, ai disturbi schizoidi, borderline, narcisistici, evitanti e dipendenti, è molto complicato formulare un giudizio di pericolosità sociale, nel senso che tali patologie possono essere connesse a devianze bagatellari, ma anche a gesti oltremodo anti-giuridici, come l’ omicidio. In questi casi, il CTU è tenuto, alla luce dell’ Art. 133 CP. A valutare ogni singolo caso in modo da poter stabilire il grado qualitativo e quantitativo dell’ aggressività, ammesso e non concesso che una perizia medico-legale sia in grado di valutare aspetti personali e caratteriali non riconducibili a formule scritte su manuali e trattati. La personalità umana è pur sempre dinamica e non catalogabile alla stregua di una dimostrazione geometrica.

Nel testo degli Artt. 88 ed 89 CP, il reo socialmente pericoloso è definito come parzialmente ( Art. 89 CP ) o totalmente ( Art. 88 CP ) incapace di intendere e di volere. In Dottrina, Cadoppi  &  Veneziani ( 2012 ) sostanziano la capacità di intendere come “ l’ idoneità del soggetto a rendersi conto del significato sociale della propria condotta “. Specularmente, ( anche ) ai fini della valutazione della pericolosità sociale, De Matteis ( 2010 ) afferma che la capacità di volere consiste “ nell’ attitudine della persona a determinarsi in modo autonomo, in conformità al proprio giudizio. In altre parole, la persona dev’ essere in grado di auto-determinarsi in modo libero, ossia senza la coartazione di cause estranee “. Egualmente illuminante, sempre nell’ ottica degli Artt. 203 e 133 CP, è pure Cass Pen., sez. I, 15 febbraio 1982, in cui si precisa che “ l’ espressione capacità d’ intendere indica l’ idoneità del soggetto a valutare il significato e gli effetti della propria condotta, mentre l’ espressione capacità di volere indica l’ attitudine dello stesso ad autodeterminarsi in relazione ai normali impulsi che motivano l’ azione “. Pertanto, in Dottrina e in Giurisprudenza, l’ infermo di mente socialmente pericoloso è caratterizzato, in ultima analisi, da una volontà debole e, in secondo luogo, da una totale o parziale dispercezione della realtà. Inoltre, tale dispercezione può essere patologica o semi-patologica, come accade nel caso del disturbo caratteriale o di personalità di matrice borderline. Detto con lemmi di taglio psico-forense, “ il fondamento dell’ imputabilità [ ex Art. 85 CP ] è la coscienza che il soggetto ha del proprio atto, e la di lui normale autonomia volitiva “ ( Manzini, 1981 ). Quindi, ex comma 2 Art. 133 CP, è socialmente pericoloso chi non possiede un’ auto-coscienza forte ed un’ altrettanto stabile autonomia decisoria, come nel caso del ritardato patologico fermo alla volitività non autogestita che caratterizza il bambino. Del resto, il lemma “ volontà “ ricorre spesso anche in Crespi ( 1970 ), secondo cui “ nelle intenzioni del legislatore, l’ imputabilità deve rappresentare una mera caratteristica soggettiva del reo, una qualità personale. In quest’ ottica, il legislatore ha ritenuto che il reo affetto da una malattia di mente, che lo renda totalmente incapace d’ intendere e di volere, al momento del fatto di reato, debba andare esente da pena, anche in presenza di tutti gli elementi [ materiali ] del reato “. Dall’ analisi di Crespi ( ibidem ), si evince, indirettamente, che la pericolosità sociale dipende, più che da criteri esegetici oggettivi ( comma 1 Art. 133 CP ), da parametri interpretativi soggettivi ( comma 2 Art. 133 CP ), ovvero dai motivi a delinquere del reo, dal suo carattere, dai precedenti penali, dalla condotta contemporanea o susseguente al reato e dalle condizioni di vita individuali, familiari e sociali del reo ( nn. 1, 2, 3, 4 comma 2 Art. 133 CP ). Le predette osservazioni sono ribadite anche da Bertolino ( 1990 ), a parere del quale “ al medesimo risultato finale ( art. 85 comma 1 cp ) si perviene anche accedendo alla teoria della colpevolezza, [ purché ] intesa in senso normativo e non psicologico, quale rimproverabilità giuridico-penale. Secondo detta teoria, infatti, il reo affetto da una malattia di mente, che lo renda totalmente incapace di intendere e di volere, al momento del fatto di reato, dovrà andare esente da pena, a causa dell’ insussistenza della colpevolezza, poiché l’ imputabilità è presupposto della pena “. Anche sotto il profilo del Diritto Costituzionale, il comma 1 Art. 27 Cost. statuisce che “ la responsabilità penale è personale “ e, per conseguenza, l’ infermo od il semi-infermo socialmente pericoloso non è imputabile, non è rieducabile ( comma 3 Art. 27 Cost. ), ma è curabile e contenibile, a patto di non addivenire alla ratio della neutralizzazione retribuzionistica, la quale viola la tutela della dignità umana sancita nella CEDU e nelle Regole penitenziarie europee. Manzini ( ibidem ) àncora la nozione di imputabile e di socialmente pericoloso ai Lavori Preparatori del Codice Rocco, in tanto in quanto “ un soggetto capace, nel diritto penale, è imputabile e responsabile di un reato quando è stato causa fisica e psichica efficiente del reato stesso. Il “ folle “ totalmente incapace di intendere e di volere sicuramente può aver materialmente causato il fatto di reato ( art. 40 cp ), ma altrettanto certamente non può aver commesso il fatto di reato con coscienza e volontà ( art. 42 comma 1 cp ) e, quindi, a causa del suo stato di mente, non può essere ritenuto causa psichica del reato “

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Il presente volume, pubblicato grazie al sostegno economico dell’Università degli Studi di Milano (Piano di sostegno alla ricerca 2016/2017, azione D), raccoglie i contributi, rivisti ed aggiornati, presentati al convegno internazionale del 7 giugno 2016, al fine di consentire, anche a coloro che non hanno potuto presenziare all’evento, di vedere raccolte alcune delle relazioni, che sono confluite in un testo scritto, e i posters scientifici che sono stati esposti, in quella giornata, a Palazzo Greppi (Milano) e successivamente pubblicati sulla Rivista giuridica Diritto Penale Contemporaneo (www.penalecontemporaneo.it). Raffaele Bianchetti è un giurista, specialista in criminologia clinica; lavora come ricercatore presso il Dipartimento di Scienze giuridiche “Cesare Beccaria” dell’Università degli Studi di Milano e come magistrato onorario presso il Tribunale di Milano. Da anni insegna Criminologia e Criminalistica e svolge attività didattica all’interno di corsi di formazione post-lauream e di alta formazione in Italia e all’estero; partecipa come relatore a convegni, congressi e incontri di studio nazionali ed internazionali; fa parte di gruppi di ricerca, anche di natura transnazionale, coordinandone alcuni come responsabile dei progetti. È autore di scritti monografici e di pubblicazioni giuridiche di stampo criminologico, alcune delle quali sono edite all’interno di opere collettanee e di riviste scientifiche specializzate. Membro componente di comitati scientifici e di comitati redazionali, è condirettore  di due collane editoriali.Luca Lupária Professore Ordinario di Diritto processuale penale nell’Università degli Studi di Roma Tre e visiting professor  in Atenei europei e americani, è autore di scritti monografici su temi centrali della giustizia penale e di oltre cento pubblicazioni scientifiche, apparse anche su riviste straniere e volumi internazionali. È responsabile di programmi e gruppi di ricerca transnazionali sui diritti delle vittime, sulle garanzie europee dell’imputato e   sui rimedi all’errore giudiziario. Condirettore di collane editoriali, è vice-direttore della rivista “Diritto penale contemporaneo” .Elena Mariani è laureata in giurisprudenza e specialista in criminologia clinica. Da oltre dieci anni collabora con la Catte- dra di Criminologia e Criminalistica del Dipartimento di Scienze giuridiche “Cesare Beccaria” dell’Università degli Studi di Milano, effettuando seminari e attività di ricerca sui temi della giustizia penale minorile, della vittimologia, dell’esecuzione penale e delle misure di prevenzione. Svolge da anni attività didattica in corsi di formazione post-lauream e di alta formazione presso diversi atenei italiani. È autrice di una monografia in tema di sistema sanzionatorio minorile e per gli adulti edita in questa Collana e di varie pubblicazioni in materia criminologica, edite all’interno di opere collettanee e di riviste scientifiche specializzate. Attualmente   è componente esperto del Tribunale di Sorveglianza di Milano e dottoranda di ricerca in diritto penale presso l’Università degli Studi di Milano. 

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Bibliografia

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Dott. Andrea Baiguera Altieri

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