La norma attraverso Jaspers, ovvero il diritto quale finitudine ed angoscia

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“Mi inoltrerò nel racconto, toccando allo stesso modo le città grandi di uomini e le piccole. Quelle che anticamente erano grandi, per lo più sono divenute piccole, mentre quelle che al mio tempo erano grandi, furono piccole in antico. Sapendo dunque che la felicità umana non si ferma mai in uno stesso luogo, ricorderò ugualmente tanto le une quanto le altre”. (Erodoto, I, 5, 3-4)

Vi è la necessità di una riflessione che sia in forma di “sistematica aperta” cosciente della finitudine di ogni prospettiva singola, in un arricchirsi di differenti prospettive, la stessa natura temporale dell’esistenza impedisce la riduzione della verità ad una prospettiva definita, come sottolinea Jaspers, noi non siamo né all’inizio né alla fine eppure ci domandiamo dell’uno e dell’altro, anche se la domanda nel rinnovarsi è sempre originaria in quanto dipende da chi la pone, l’essere è disarticolato ed è solo un apparire che l’Io deve ricostruire (Jaspers).

Vi è una analogia con il principio di indeterminazione di Heisemberg in quanto ogni conoscenza su qualsiasi essere soffre di una certa indeterminazione, si vive nell’indeterminatezza dell’essere, così che la conoscenza umana nella sua determinata limitatezza diventa di volta in volta “un”essere, l’essere quindi può di volta in volta diventare oggetto di conoscenza, chiarificazione di esistenza o ricerca della sua essenza, il tempo non può che scandire l’essere in un succedersi di pensieri determinati e parziali con la coscienza in generale e la possibile esistenza in modalità, l’esperienza è pertanto singola come lo è l’interpretazione dell’essere nell’impossibilità di un universalmente valido, non ci rimane quindi che restare con Jaspers nell’incertezza.

Il potenziale fallimento dell’universalità non annulla comunque la tensione alla valutazione propria della ragione umana sebbene il mondo si manifesti in termini frammentati, siamo oggetti finiti, parziali nel mondo di cui manca una totalità, questa parzialità fa sì che il moto non abbia mai limiti, sebbene la scienza necessita di limiti al fine di definire un sapere finito e misurabile, il limite è pertanto parte e condizione dell’essere ma esso è anche motivo di incertezza dell’individuo nel raffronto con l’indeterminazione del proprio essere.

Vi è pertanto la necessità, afferma Jaspers, della domanda e risposta quali guide chiarificatrici nell’indeterminatezza dell’essere dove prevale su di esso l’apparire, non vi è possibilità di abbracciare l’intero essere e il fallimento del domandare come l’inadeguatezza della risposta ne è prova, ma rimane comunque la possibilità di una riflessione sul soggetto, la ricerca passa dalla coscienza all’esistenza, a tradurre l’essere nei modi della sua manifestazione e in questo si produce lo sconforto dell’esserci, ma anche lo slancio della ricerca nel nascondimento di se stesso e nel pericolo del naufragio, la verità sull’essere è quindi una verità parziale in divenire insieme ad altre possibilità.

Non è mai il singolo evento che conferma una ipotesi ma solo un insieme di eventi che considerati in un  “fascio” acquistano la valenza dell’esperienza (Duhem), gli strumenti intellettuali ne costituiscono una rappresentazione nel pensiero senza tuttavia diventarne fondamento nella realtà (Mach), si pone il problema dell’individuo quale essere nel raffrontarsi con la norma, anzi con i diritti di un sistema normativo.

La situazione di fatto non fa che fare emergere l’Io nel raffronto con una scelta già radicata, l’accettazione o il rifiuto della via costituita pone l’alternativa quale raffronto per l’essere, il rischio accettato della scelta fa emergere la costituzione del proprio essere (Jaspers), la regolamentazione diventa l’ambiente in cui avviene la scelta, prima nel costituire l’essere e poi nel presentarlo quale Io al mondo, la serie di diritti di cui l’Io è titolare diventa specchio del suo modo di essere, attraverso le modalità della loro interpretazione emerge l’essenza dell’essere costitutivo dell’Io.

Vi è l’impossibilità della “misurazione” dell’individuo nella sua unitarietà, quale affermazione di una volontà di potenza traducibile nel tentativo di un controllo totale, la norma è pertanto specchio parziale che spezzetta l’essere in una molteplicità di immagini, di eventi, fatti e avvenimenti che impongono all’Io sociale una molteplicità di ruoli a cui l’essere nell’adeguarsi e interpretarli cerca di reinterpretarsi ed esistere.

In questo esistere emerge quella che Heidegger individua come l’angoscia, un evento che nel suo sottile esplicarsi sottrae l’esserci alla possibilità di conoscersi, rivelarsi a se stesso, l’agire diventa un coprire, un non rivelare al proprio Io, l’aggressività impedisce il riflettere e l’agire una scusa per non pensare, un non vedere in sé, l’affermarsi non è tanto e solo un riconoscimento del proprio Io incarnazione dell’essere quanto la negazione dell’angoscia derivante dalla precarietà dell’esserci, un proiettarsi nei diritti rivendicati e nell’uso e abuso di essi, in quanto l’angoscia è l’impossibilità di mettersi in un rapporto costruttivo con il mondo e di realizzare il compito proprio dell’essere (Goldstein), la volontà di potenza nasconde in sé l’angoscia della finitudine, un sendimento di precarietà umana che già Erodoto avvertiva quando affermava che lo stato di superbia (hybris) e di accecamento (ate) foriero di disgrazie deriva da una prosperità eccessiva e prolungata.

Dott. Sabetta Sergio Benedetto

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