La natura della mediazione familiare: endofamiliare ed esofamiliare

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Abstract: L’Autrice indaga la complessità e la fragilità delle relazioni interpersonali e familiari attraverso la lente della mediazione familiare di cui mette in risalto l’attualità e la crescente utilità.
 
“Le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice, invece, è infelice a suo modo”.
Così recita il famoso incipit di “Anna Karenina” romanzo di L.N. Tolstoj, pubblicato nel 1877.
Dopo più di un secolo, quest’affermazione è oggi ancor più vera giacché si moltiplicano i casi di costellazioni familiari e di cosiddette relazioni fragili o ferite. A sostegno di queste è nata la mediazione familiare per geminazione da altri servizi preesistenti e da essa continuano a sorgere per geminazione altri servizi similari, quali l’orientamento educativo e quello familiare.
La mediazione familiare è nata ufficialmente negli U.S.A. per opera dell’avvocato James Coogler che, in seguito alla sua pesante esperienza di divorzio, apre nel 1974 il primo centro privato di mediazione familiare. Dagli U.S.A. si è diffusa in Canada sino a giungere in Francia e in Inghilterra.
Nel nostro Paese si fa risalire la nascita ufficiale della mediazione familiare al 1987 a Milano con la costituzione dell’associazione GeA – Genitori Ancora. In realtà nello stesso periodo si realizzano studi ed iniziative a Roma presso l’Università La Sapienza e a Bari grazie all’associazione C.R.I.S.I. (Centro di Ricerche e Interventi sullo Stress Interpersonale).
La mediazione familiare ha suscitato dapprima l’attenzione dei legislatori regionali (tra cui la Regione Toscana) e, poi, timidamente quella del legislatore nazionale, che l’ha menzionata nell’art. 4 legge 28 agosto 1997 n. 285, nell’art. 342 ter cod. civ. aggiunto dalla legge 4 aprile 2001 n. 154 e nell’art. 155 sexies cod. civ. aggiunto dalla legge 8 febbraio 2006 n. 54.
Dei tre richiami legislativi, quello che meglio inquadra la mediazione familiare è l’art. 4 della L. 285/1997 “Disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia e l’adolescenza” sia per la rubrica dell’articolo “Servizi di sostegno alla relazione genitore-figli, di contrasto della povertà e della violenza, nonché misure alternative al ricovero dei minori in istituti educativo-assistenziali”, sia per il contenuto della lettera i del primo comma “i servizi di mediazione familiare e di consulenza per famiglie e minori al fine del superamento delle difficoltà relazionali”. Da ciò si evince che la peculiarità della mediazione familiare in Italia, a differenza della Francia e dell’Inghilterra in cui essa è ancillare al sistema giudiziario, è la centralità della persona e della sua essenziale dimensione relazionale. Quelle relazioni che, in famiglia e fuori della famiglia, anche in seguito al passaggio dalla famiglia patriarcale a quella cosiddetta matrifocale (centrata sulla figura materna sola e talvolta costretta a cambiare lavoro e residenza per mantenere e proteggere i figli, spesso nati da padri diversi), oggi sono sempre più instabili e sfilacciate.
Prima della diffusione della mediazione familiare i nodi problematici d’ogni famiglia erano dipanati, nella migliore delle ipotesi, nella famiglia stessa (che, per natura, è considerata “luogo di mediazione attiva”) oppure con l’aiuto del parroco o delle figure anziane nella famiglia patriarcale o ancor di più dalle mature vicine di casa. A proposito dei rapporti di vicinato c’è un vecchio adagio meridionale che ripete “Vicino mio, specchiale mio”, da cui si ricava che per conoscere se stessi è determinante anche leggersi nello specchio degli altri, che la crescita personale ed interpersonale è un processo d’identità e conflitto con se stessi e con gli altri, dal conflitto intrapsichico a quello sociale (non a caso identità e identico hanno la stessa radice, a conferma che la dualità fa parte dello statuto ontologico dell’essere umano).
Nei nostri tempi sempre più dominati da fenomeni quali l’individualismo, il materialismo e il relativismo, si è perso di vista tanto il significato di persona quanto quello di famiglia, che è la culla della persona.
Nel latino classico persona significa maschera usata nel teatro, indica pertanto un insieme di caratteri che si mostrano all’esterno. Volendo, poi, dare arbitrariamente un’origine latino-medievale si può dire che persona viene da per sona, cioè che risuona attraverso e quindi anche in quest’etimo si ritrova il rapporto con l’esterno, con gli altri.
Passando al significato di famiglia, questa deriva da famulus, servitore, pertanto la famiglia è un gruppo di persone l’una al servizio dell’altra, l’una che va incontro all’altra (per questo si giustificano i vari tipi di famiglia da quell’anagrafica a quella colonica, da quella allargata alla vasta famiglia umana).
Come ci ricorda lo psicologo e psicoanalista Mario Trevi[1], “l’uomo è l’animale che diventa adulto attraverso una serie ininterrotta di dialoghi, a partire da quello muto con la madre prima dell’acquisizione della parola, e poi con una figura maschile, con i compagni di gioco, con gli insegnanti, e così via. L’esistenza umana è tutta una successione di dialoghi”. In quest’epoca di autismo collettivo, se i dialoghi in famiglia s’interrompono e sorgono conflitti insormontabili ecco l’intervento della mediazione familiare che, come la protezione civile in caso di calamità naturali, getta dei ponti e fornisce degli strumenti affinché le persone coinvolte siano in grado di continuare a camminare autonomamente. Ragione per cui attività sociali come la mediazione familiare e le altre complementari sono giustamente definite percorsi e servizi, perché offrono una guida, una bussola alla persona e alla famiglia per ritrovare se stesse.
Più di tutte, la mediazione familiare incarna i principi dell’art. 2 della nostra Costituzione soprattutto nella parte relativa alla solidarietà. Solidale, fra i vari significati, ne ha anche uno in meccanica quale elemento di un meccanismo rigidamente collegato ad un altro. Quest’accezione ben si addice al ruolo genitoriale, quanto a quello familiare in generale, perché i genitori, anche se separati o divorziati, non smettono d’essere tali nei confronti dei figli ed anche tra gli ex-coniugi possono permanere delle conseguenze di natura patrimoniale che danno luogo alla cosiddetta solidarietà post-coniugale. Quando questo meccanismo della solidarietà si scardina nella famiglia si hanno, tra l’altro, costi sociali ed economici elevati per le famiglie stesse e per lo Stato (come si legge nella Raccomandazione R (98)1 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa sulla mediazione familiare). Ebbene la mediazione familiare contribuisce a ridurre questi costi e ri-educa alla solidarietà familiare, che è alla base di qualsiasi altra forma di solidarietà sino a quella internazionale (cammino che non è altro che la cosiddetta “cittadinanza agita”, uno dei compiti educativi della famiglia prima ancora della scuola). Così si ritrova, a dirla con il filosofo e teologo Martin Buber[2], il “principio comunità” che è al fondamento del vivere umano, visto che noi nasciamo da un incontro, e la società torna ad essere intessuta come “comunità di comunità”, cioè come una trama complessiva ricca di luoghi, tradizioni e forme di relazione, che aiuta anche a far fronte alla dilagante depressione che da tempo non è più solo una patologia psichica, ma una cultura diffusa[3] che investe pure i bambini.
“Nella profondità dell’umanità condivisa, così come nel tessuto universale delle emozioni, la semplicistica rappresentazione del conflitto come contrapposizione dicotomica lascia dunque spazio ad un tessuto molto più ampio e complesso, tessuto su cui si aprono – inaspettate – nuove possibilità d’incontro[4]”.
Essendo la famiglia il primo ambiente (nel gergo della mediazione si direbbe setting) deputato all’eudanomia, benessere proprio ed altrui, la mediazione familiare, prima ancora di essere una professione (ed è stata questa l’operazione di restyling statunitense), è una “funzione sociale” a sostegno dell’”utilità sociale” della famiglia (mutuando la terminologia della nostra Costituzione) e di questo si dovrebbe tener conto in un quadro normativo organico disciplinante la famiglia (o meglio, le relazioni familiari) e l’auspicato tribunale della famiglia.
 
 
Dott.ssa Margherita Marzario
 
 

[1] Cfr., tra le varie opere, Dialogo sull’arte del dialogo. Psicoanalisi e psicoterapia, ed. Feltrinelli (2008)
[2] M. Buber, Il principio dialogico ed altri saggi, San Paolo Edizioni (2001)
[3] Così Roberto Mancini, docente universitario di filosofia, nella rubrica Sentire la speranza su Avvenire, 17 marzo 2009 p. 25
[4] Così Riccardo Sardi De Letto, psicologo e psicoterapeuta, in Educazione alla pace e alla gestione costruttiva dei conflitti

Dott.ssa Marzario Margherita

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