La moda delle Fondazioni di partecipazione

Greco Massimo 22/01/09
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La fondazione è, di per sé, un’ottima (e antichissima) invenzione giuridica. Costituisce uno dei capisaldi della presenza organizzata della società civile, quindi del pluralismo, della partecipazione, dell’utilizzo di risorse di origine privata per finalità di carattere collettivo. Ciò vale in particolare per le fondazioni che sono incentrate sull’idea del dono, quelle che chiameremmo filantropiche, nell’accezione anglosassone.
Il concetto di fondazione risale assai indietro nel tempo. E’ ben conosciuto dal diritto canonico fin dalla metà del milleduecento, dai tempi cioè di Papa Innocenzo IV: nelle universitas rerum, che oggi possiamo chiamare fondazioni, il fondo patrimoniale è ben in evidenza nella sua autonomia dal fondatore o dai fondatori. Di qui la sintetica definizione globalmente accettata, che denomina fondazione come <<un patrimonio per uno scopo>>”.[1] Seppure datato, l’istituto fondazione ha avuto una fortuna alterna nella sua effettiva attuazione: assai presente nel mondo anglosassone, tipicamente più attento a strutture sociali differenziate, ha stentato invece a trovare corpo nell’Europa latina dopo la messa al bando napoleonica, la cui filosofia politica non concedeva spazi fra il cittadino e lo Stato, lasciando solo qualche spazio a multiformi soggetto di origine religiosa. Così anche in Italia, la fondazione è uscita dalla marginalità istituzionale solo negli ultimi tempi, in parte sostituendosi alle Ipab (Istituzioni di pubblica assistenza e beneficenza), in parte sostituendosi ad altri soggetti pubblici come enti lirici o altri enti culturali e, in parte ancora presentandosi autonomamente sulla scena economica, sociale e politica della società italiana. Al censimento del 2001 le fondazioni in Italia sono 3.077 di cui 88 sono le fondazioni di origine bancaria.[2]
Le fondazioni che hanno successo – che cioè producono un buon servizio alla collettività nel rispetto delle intenzioni dei fondatori – debbono potersi valere di almeno due fattori: una fonte autonoma e stabile di reddito (generalmente, ma non esclusivamente, di fonte patrimoniale); l’esistenza di un consenso di fondo sostanziale sugli obiettivi istituzionali e sulle modalità di perseguirli all’interno degli organi di governo e controllo. In mancanza di queste due caratterizzazioni – come suggerisce il monitoraggio del settore in Italia da parte del Centro di documentazione sulle fondazioni della Fondazione Agnelli – le fondazioni rischiano di vivere una vita grama e di produrre assai più problemi di quanti non riescano a risolverne”.[3]
La legge Amato[4] ha avviato il percorso di privatizzazione delle Casse di risparmio e degli istituti di credito di diritto pubblico ed ha conferito finalità di interesse pubblico e di utilità sociale alle fondazioni di origine bancaria, collocandole all’interno del Terzo settore. Secondo il rapporto ACRI 1997 (Associazione fra le casse di risparmio italiane) il patrimonio delle 89 fondazioni bancarie nel nostro Paese è di 54.296 miliardi di lire e, nel corso dell’anno, sono stati erogati 354 miliardi suddivisi in 13.680 iniziative. Le fondazioni di origine bancaria, presenti nell’ordinamento italiano dal 1990, rappresentano oggi una realtà di grande rilievo, sia per la quantità di denaro posseduto e investito, sia per la loro presenza sul territorio, dove, regione per regione, sono un fenomeno consolidato, in molti casi decisivo per le sorti di altri enti e istituzioni e, tra l’altro, per lo stesso patrimonio culturale italiano. “Le fondazioni di origine bancaria sono a tutti gli effetti un corpo intermedio della società. Un corpo intermedio che ha radici antiche nel concetto di comunità, cioè la categoria il cui senso non solo si è riprodotto, ma si è anche innovato”.[5] Una definizione questa che, in linea con la sentenza della Corte Costituzionale n. 301/2003[6] che definisce le Fondazioni di origine bancaria come “soggetti di organizzazione delle libertà sociali”, colloca le Fondazioni in mezzo tra società ed economia, tra società ed istituzioni, insomma tra soggetto forte della società di mezzo, cioè di quella società che, rappresentando il mondo del lavoro e dell’impresa e il mutualismo dei soggetti sociali, ha dato vita a libere associazioni riconosciute e regolamentate per il loro peso sociale come i sindacati, le associazioni di rappresentanza, le Camere di commercio, le organizzazioni non governative. L’essere società di mezzo non significa non occupare spazi pubblici perché non istituzionali, ma partecipare degli interessi di un intero territorio.
Un modello innovativo nel panorama italiano è quello delle community foundation, originario degli Stati Uniti. “Lanciato nel 1997 dalla Fondazione Cariplo, il progetto conta 12 fondazioni in Lombardia che hanno accumulato un patrimonio di oltre 114 milioni di euro. Le <<fondazioni comunitarie>>, spiega Bernardino Casadei responsabile del progetto, non sono filiali della Fondazione Cariplo, sono soggetti autonomi che rispondono alla comunità locale”.[7]Ne deriva – secondo lo stesso Bonomi – che la logica di Community Foundation è ben più complessa di quella delle tradizionali Fondazioni bancarie. Infatti, non solo consente una presenza più radicata nel territorio, e dunque un rapporto più stretto e trasparente con la comunità, ma soprattutto consente una maggiore sensibilizzazione sugli investimenti e sulle realizzazioni”. Tra le prime fondazioni che si è ridisegnata come grande “gruppo no-profit” c’è la Compagnia San Paolo, che oggi ha sei strutture stabili alle quali ha trasferito oltre 20 milioni di euro nel 2004, circa il 18% degli stanziamenti effettuati. Per la fondazione torinese questo processo affonda le radici nella sua stessa storia. L’antica Compagnia di San Paolo, nata come Confraternita, creò già alla fine del ‘500 l’Ufficio Pio per fornire assistenza ai poveri e le case del soccorso per dare un’istruzione alle giovani donne.
Le fondazioni di origine bancaria rafforzano annualmente il loro impegno a favore del Mezzogiorno. Nell’ottobre 2005 è stato infatti promosso il “Progetto Sud”, un piano di infrastrutturazione sociale. “Si tratta di un’alleanza tra fondazioni e volontariato. L’intesa è stata siglata dal Presidente dell’Acri Giuseppe Guzzetti, e dai portavoce del Forum permanente del Terzo Settore, Edoardo Patriarca e Giampiero Rasimelli. Obiettivo dell’accordo è il rafforzamento (in particolare la patrimonializzazione) e la valorizzazione delle strutture di supporto sociale del Mezzogiorno. A tal fine saranno messi a disposizione 323,7 milioni di euro una tantum nel 2006 e successivamente circa 40 milioni all’anno. Tali risorse serviranno allo sviluppo di forti reti di solidarietà, al potenziamento di quelle esistenti, alla creazione di nuove e al supporto, alla crescita di servizi di promozione e qualificazione del volontariato, senza peraltro sostituirsi al necessario ruolo delle istituzioni pubbliche”.[8]
Il completamento della gamma delle fondazioni con le fondazioni grant-making di origine bancaria o corporate si accompagna a una stabile nascita di nuovi soggetti privati (sebbene spesso insufficientemente patrimonializzati) finalizzati alla gestione: diventano musei, ospedali, teatri, infrastrutture, progetti di sviluppo locale”.[9]
Sul sostrato giuridico classico delle fondazioni si sono innestati nel tempo altri elementi, tipici del fenomeno associativo, che hanno contribuito a generare fondazioni che ormai sono conosciute con il termine di fondazioni di partecipazione[10] ovvero fondazioni associative,quali strumenti di gestione dei servizi pubblici locali elaborati dal Notaio milanese Enrico Bellezza.[11]Si tratta di fondazioni non più istituite ad opera di un singolo soggetto, sia esso persona fisica ovvero impresa, ma costituite da una pluralità di soggetti (privati e/o pubblici), che condividono una medesima finalità. La particolare composizione mista, pubblico-privato, la disponibilità di un patrimonio vincolato ad uno scopo di pubblico interesse, l’agilità gestionale, nonché una governance interna semplice e facilmente identificabile, rendono la fondazione di partecipazione uno strumento giuridico-organizzativo in grado di trovare applicazione in diversi settori di intervento e di azione, tra i quali spicca quello sanitario”.[12]
 Rispetto alla fondazione tradizionale di diritto comune, la fondazione di partecipazione è caratterizzata da un particolare rapporto “tra i fondatori e la gestione della fondazione: il conferimento di beni all’atto di costituzione della fondazione da parte dei fondatori non spezza, come normalmente nella fondazione classica, il rapporto tra tali soggetti e l’ente. I primi, infatti, continuano ad esercitare un controllo sulle sue attività e si ingeriscono nella gestione”.[13]
La possibilità giuridica di questo tipo di fondazione è data dal fatto che accanto ad associazioni e fondazioni, il codice civile del 1942 abbia previsto le “altre istituzioni di carattere privato” (art. 12 c.c. abr.). Anche il DPR 10/02/2000, n. 361, abrogativo dell’art. 12 c.c., ha mantenuto intatta la dizione di “altre istituzioni di carattere privato” (art. 1). “Infatti lo strumento è idoneo ad essere applicato non solo a figure giuridiche tipiche, come fondazioni ed associazioni, ma anche a figure giuridiche atipiche, ovvero alle altre <<istituzioni di carattere privato>>. A tal proposito, il modello a cui fare riferimento in campo comunitario potrebbe essere quello del <<charitable trust>> anglosassone; si deve notare come il perseguimento di scopi charitable è divenuto per molta parte del mondo produttivo un modo efficace di collegarsi alla società civile, superando il classico strumento della sponsorizzazione. Per altri aspetti la fondazione di partecipazione è assimilabile alle <<community foundations>>, soggetti che hanno la caratteristica tipica di essere fondazioni senza fondatori ma con forti radici nel territorio, che poi è la strada per certi aspetti intrapresa dalle Casse di Risparmio”.[14]
Che la fondazione di partecipazione sia uno strumento alla moda lo dimostra il fatto che lo stesso è stato disegnato dal D.lgs. recante norme sul “Riordino della disciplina degli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico a norma dell’art. 42, c. 1, della legge 16/01/2003, n. 3”, col quale si è favorita la “trasformazione degli istituti di diritto pubblico” in “fondazioni di rilievo nazionale”, con enti fondatori il ministero della salute, la regione e il comune di riferimento, aperta alla partecipazione di altri enti pubblici e privati.[15] deliberare la propria trasformazione in fondazioni di diritto privato Stessa logica sembra essere seguita dal legislatore all’art. 16 della legge n. 133/2008 di conversione del D.L. 25/06/2008 n. 112 con particolare riferimento alla facoltà riconosciuta agli atenei italiani di “”. “Peraltro la legge 448/2001 delinea il ricorso al <<modello-fondazione>> come soluzione preferenziale anche in relazione alla trasformazione del <<panorama>> delle agenzie ed autorità del <<centro>> (come evidenziato dall’art. 28), rappresentando comunque il filo conduttore di un approccio strategico senza dubbio immediato: ricorso a persone giuridiche di diritto privato con strutturazione <<forte>> e con evidenziazione dei settori di intervento perfettamente aderente ad un’ampia serie di politiche pubbliche”.[16]
Un modello di fondazione che cerca di rispondere all’esigenza di collaborazione tra il settore pubblico ed il settore privato e di dare loro una legittimazione fatta di regole quanto di capacità operativa, è rappresentato dalla Fondazione di sviluppo. Il nome è stato attribuito da Alberto Quadro Curzio durante l’osservazione della realtà della Fondazione Fiera Milano. “Le fondazioni di sviluppo nascono sul territorio come espressione di un bisogno della società civile. Sono una via per dare soluzioni permanenti a mancanze strutturali e infrastrutturali di base per il Paese, perché vanno letteralmente a <<coprire dei vuoti>> Una governance della sussidiarietà, che possiede due output: uno a livello nazionale, dove è la politica a definire i confini delle azioni di questi nuovi soggetti, e l’altro a livello locale, dove dà voce a portatori di interessi particolari e si fa garante dello sviluppo territoriale”.[17]
Recentemente si è pure registrata la proposta della Fondazione per la sussidiarietà[18] di aprire al non profit il settore delle reti di pubblica utilità. “Da anni l’Italia è impegnata nel dibattito tra pubblico e privato – sottolinea Paola Garrone, economista e responsabile del Dipartimento public utilities della Fondazione per la sussidiarietà – e con una valutazione attenta si potrebbe sperimentare un modello di questo tipo per il servizio idrico e per il trasporto pubblico locale. Le esperienze estere, come quelle in Gran Bretagna o negli Usa dimostrano che le non profit utilities funzionano La vera rivoluzione è rappresentata dalla governance. La fondazione permette un’efficace rappresentanza dei diversi stakeholder. Nel Cda, accanto ai rappresentanti degli enti locali o a quelli degli utenti industriali, siedono i cittadini residenti che potranno dire la loro sugli investimenti o sugli aumenti tariffari. Il finanziamento dell’attività è realizzato con l’emissione di titoli di debito a lungo termine sui mercati finanziari. La proposta prevede poi per le fondazioni in vincolo a reinvestire gli utili o a restituirli in parte ai clienti sotto forma di sconto tariffario, ma anche a consultare i cittadini in caso di vendita della proprietà”.[19]
Un altro modello di fondazione è quello promosso dal Governo Prodi: la Fondazione per il Sud. Nata dal protocollo d’intesa tra le fondazioni di origine bancaria, il terzo settore e il mondo del volontariato è stata istituita con decreto firmato dai ministri dell’economia e della Solidarietà sociale il 13 settembre 2006. Per Pezzotta, presidente della Fondazione per il Sud, “Si vuole creare un’economia di relazioni articolata sulle reti del volontariato, sui vari soggetti del terzo settore, sulle università, per tentare di stimolare la capacità della società civile meridionale di attivare al meglio le proprie risorse”.[20] Secondo il direttore generale Giorgio Righetti, attraverso le linee di azione individuate dal comitato tecnico verranno erogati 20 milioni di euro per progetti sull’educazione e la formazione dei giovani. Altri 6 milioni saranno invece destinati per il raggiungimento dell’obiettivo di far nascere nuove Fondazioni di comunità quali soggetti attivi della sussidiarietà sociale che nel Mezzogiorno stentano a decollare.[21]
La fondazione può divenire così uno strumento gestionale di primo piano nel panorama del nuovo welfare, se correttamente applicata per forme di partnership pubblico-privato o fra Enti pubblici perché consente di superare alcune ambiguità delle società di capitale a controllo pubblico, che in molti casi sono esposte a interferenze della politica. Può consentire altresì al sistema pubblico di usufruire di maggiori disponibilità finanziarie e di management nella gestione dei servizi sociali, venendosi così a ridurre il rischio aziendale, associato a qualunque attività di produzione di servizi. Se l’impianto originario della legge Amato prevedeva solo quattro settori di intervento, il percorso fatto negli ultimi anni dalle esperienze pratiche, è stato quello di rendere disponibile una serie di varianti delle fondazioni tradizionali previste dal Codice Civile, capace di permettere un efficace quadro operativo sinergico tra pubblico e privato, indirizzato al duplice scopo di utilità sociale e di promozione dello sviluppo economico. “In questo secondo caso l’operatività può spingersi fino ad identificare la fondazione come un soggetto interamente agente nel settore, con le stesse modalità dell’imprenditore commerciale, con la sola fondamentale differenza che l’eventuale profitto non può essere distribuito. Per il resto la fondazione diviene un imprenditore che può anche – e questo è il punto di svolta – definitivamente abbandonare il modello grant-making per abbracciare quello operativo, investendo direttamente nel capitale di soggetti operativi e quotati in borsa”.[22]
 
 
Massimo Greco
 


[1] Paolo Legrenzi e Giuliano Segre, “A che cosa servono le fondazioni bancarie”, Il Mulino, n. 2/2007.
[2] Istat 2001.
[3] Marco Demarie, “Fondazione, formula non per tutti”, Il Sole 24 Ore, 20/06/2007.
[4] Legge n. 218/1990.
[5] Aldo Bonomi in occasione della V° Giornata della Fondazione Sussidiarietà, Sviluppo e Corpi Intermedi della Società del 2 giugno 2005.
[6] La Corte Costituzionale con questa importante, anche se isolata, sentenza, ha affermato che – anche in considerazione di quanto previsto dall’art. 118 co. 4 Cost. – non è possibile invocare funzioni attribuite alla competenza di istituzioni pubbliche (in quel caso le Regioni) per rivendicare a esse il potere di ingerenza nell’organizzazione di soggetti che appartengono a un ambito diverso da quello pubblicistico che il loro. Con tale argomentazione il Giudice delle leggi ha reso concreto un principio che appare fondamentale per impostare in modo corretto il problema del complesso rapporto tra stato e società civile, tra cittadini e autorità costituite.
[7] Alessia Maccaferri, “Fondazioni, i grandi gruppi del no-profit”, Il Sole 24 Ore, 23/07/2005.
[8] Nicoletta Di Molfetta, “Le fondazioni bancarie partner del terzo settore”, Il Sole 24 Ore, 19/10/2005.
[9] Marco Demarie, “Attenzione alle fondazioni pret-à-porter”, Il Sole 24 Ore, 25/01/2007.
[10] D. Mori, “Dalle fondazioni alle fondazioni di partecipazione”, Trieste, A.A. 2003/2004.
[11] Scarselli, “Aedon”, 3/2000, www.aedon.mulino.it/archivio/2000/3/franchi.htm.
[12] Alceste Santuari, “Trasformazione di una società a responsabilità limitata in fondazione di partecipazione”, Persona e Danno, 12/06/2008.
[13] P. Manes, “Le nuove prospettive in materia di fondazioni, Contratto e Impresa, 2004.
[14] Giancamillo Palmerini, “La Fondazione di partecipazione come ipotesi di gestione dei servizi pubblici locali”, Diritto.it, 08/06/2006.
[15] R. Balduzzi, “La riforma degli IRCCS: una sperimentazione gestionale <<topo-down>> che disattende la Costituzione?”, in G. Fiorentini, “I servizi sanitari in Italia”, 2004, Il Mulino, Bologna, 2004.
[16] Alberto Barbiero, “Le Fondazioni come modulo operativo per la gestione di spazi di azione riconducibili all’Amministrazione Locale”, Diritto.it, aprile 2002.
[17] Luigi Roth, “Lo sviluppo chiamato fondazione”, Il Sole 24 Ore, 03/11/2004.
[18] Proposta consegnata il 19 maggio 2007 al Ministro per gli affari regionali nel corso della tavola rotonda che ha chiuso la Scuola internazionale di sussidiarietà alla Venice International University.
[19] Chiara Bussi, “Utlities gestite da non profit”, Il Sole 24 Ore, 21/05/2007.
[20] Roberto Valguarnera, “Pezzotta: <<Sviluppare la cultura del dono>>”, La Sicilia, 12/05/2007.
[21] “Fondazione per il Sud: tre piani da 26 milioni”, Il Sole 24 Ore, 22/06/2007.
[22] Paolo Legrenzi e Giuliano Segre, “A che cosa servono le fondazioni bancarie”, Il Mulino, n. 2/2007.

Greco Massimo

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