La messa alla prova e gli altri istituti di favore per il reo minorenne

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1. La sospensione del processo con messa alla prova nel quadro del D.P.R. 448/1988.

 

La sospensione del processo con messa alla prova costituisce una delle innovazioni più interessanti del processo penale minorile. Introdotto con la riforma generale del processo penale del 1988 e inserito nell’art. 28 d.P.R. 22 settembre 1988 n. 488, l’istituto della sospensione del processo e messa alla prova è l’unico istituto presente nell’ordinamento italiano che consente l’applicazione della mediazione penale e delle altre strategie di giustizia riparativa (restorative justice) che contraddistinguono, invece, la maggior parte dei Paesi dell’Unione europea.

La giustizia riparativa ha come oggetto principale la posizione della vittima e i danni provocati ad essa in quanto conseguenza del reato, avendo come obiettivo la conciliazione tra vittima e autore di reato e la riparazione delle conseguenze. Così, l’autore del reato non è più soggetto passivo destinatario di una sanzione statale, ma diventa “soggetto attivo” a cui è chiesto di rimediare agli errori commessi ed ai danni procurati attraverso la sua condotta criminosa.

La misura della sospensione del processo con messa alla prova trae ispirazione dal probation system anglosassone, dal quale però, si differenzia in quanto non costituisce una misura alternativa alla pena, quindi posteriore alla sentenza, ma interviene nel corso del processo penale [1]; pertanto il modello italiano costituisce più esattamente un probation processuale dal momento che interviene nel corso del processo, comportandone la sospensione per un periodo predeterminato, allo scopo di consentire al giudice di valutare la personalità del minorenne all’esito della prova (art. 28, comma 1, d.P.R. 448/88)[2]. In tal modo lo Stato rinuncia alla sua pretesa punitiva, chiedendo in cambio al ragazzo non solo di astenersi, in futuro, dalla commissione di altri reati, ma anche l’impegno ad aderire ad un programma di risocializzazione e rieducazione.

La messa alla prova si può applicare per qualsiasi tipologia di reato, anche per quelli particolarmente gravi e di rilevante allarme sociale e può avere una durata massima di tre anni. La sospensione del processo è disposta con ordinanza nel corso dell’udienza preliminare o in dibattimento e l’istituto prevede che il minorenne venga messo alla prova sulla base di un progetto educativo predisposto dai servizi sociali minorili, che può avere i contenuti più disparati; si può trattare di prescrizioni di fare o di non fare, principalmente che riguardano lo studio o il lavoro, ma anche lo sport, le attività sociali o di volontariato. Inoltre è previsto anche che il giudice possa impartire prescrizioni dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa (art. 28, comma 2 d.P.R. 448/88).

A norma dell’art. 29 d.P.R. 448/88 l’esito positivo della messa alla prova comporta la misura premiale dell’estinzione del reato pronunciata con sentenza di non luogo a procedere, se intervenuta in corso di udienza preliminare (art. 425 c.p.p. e art. 32, comma 1, d.P.R. 448/88) ovvero di non doversi procedere, nel caso in cui la sentenza intervenga a conclusione del dibattimento (art. 531 c.p.p. e art. 33 d.P.R. 448/88); al contrario quello negativo comporta la ripresa del processo da dove era stato interrotto. La valutazione dell’esisto della prova avviene nell’udienza di verifica fissata appositamente dal giudice; trattasi di un’udienza preliminare o dibattimentale, secondo la fase nella quale il processo era stato sospeso che si svolge nel pieno rispetto dei principi del contraddittorio e della difesa alla presenza delle parti interessate: pubblico ministero, imputato, genitori o esercenti la potestà genitoriale, difensore, servizi minorili, persona offesa dal reato[3].

Viene valutata l’evoluzione della personalità del minorenne in senso dinamico, orientando quindi la decisione alla possibilità di cambiamento prodotta direttamente nel soggetto.

Ai sensi dell’art. 28, comma 5, d.P.R. 448/88 la sospensione è revocata in caso di ripetute e gravi trasgressioni. Il legislatore lascia <<ampi spazi di valutazione ai soggetti cui il minore è affidato>>[4]. Spetta così ai servizi minorili il compito di elaborare la proposta di revoca della misura, da presentare, dietro apposita relazione sul comportamento del minorenne e sull’evoluzione della sua personalità, direttamente al presidente del collegio che ha disposto la sospensione del processo nonché al pubblico ministero, il quale però può chiedere la fissazione dell’udienza prevista dall’art. 29 d.P.R. 448/88 (art. 27, comma 5, D. lgs. 272/89). La sospensione è revocata in caso di trasgressioni ripetute (ossia non episodiche) e gravi (ossia non lievi) e l’uso della congiunzione “e” indica che a legittimare la revoca non bastano violazioni lievi, anche se reiterate, né è sufficiente un’unica violazione, seppure rilevante[5]. Si può notare che la formula usata dal legislatore, è sostanzialmente identica a quella inserita nell’art. 20, comma 3, d.P.R. 448/88, in tema di “prescrizioni” imposte in via cautelare. I requisiti indicati sono complementari e non alternativi; è necessario quindi un vero e proprio rifiuto del minorenne ad impegnarsi nel progetto da egli accettato in precedenza; rifiuto attuato con ripetute e gravi violazioni dei patti stabiliti. Per la valutazione dell’opportunità di revocare la messa alla prova viene fissata la data di una nuova udienza che sarà dedicata alla valutazione delle trasgressioni. <<La sede in cui detta udienza viene celebrata è la stessa in cui la sospensione del processo ex art. 28 d.P.R. 448/88 è stata disposta (udienza preliminare, dibattimento o, eccezionalmente, giudizio d’appello) e l’eventuale provvedimento risolutivo assume la stessa forma dell’ordinanza motivata, questa volta di revoca della sospensione>>[6]. Questo implica che il giudice, nel momento in cui ritenga di dovere revocare, in presenza di ripetute e gravi trasgressioni, la sospensione del processo conseguente all’affidamento dell’imputato ai servizi sociali, deve osservare la regola del contraddittorio provvedendo preventivamente alla convocazione e all’audizione delle parti[7]. Il provvedimento di revoca, al pari dell’ordinanza che dispone la misura, è suscettibile di ricorso per cassazione ex art. 28, comma 3, d.P.R. 448/88.

In ordine alla legittimazione soggettiva, il comma 3 dell’art. 28 d.P.R. 448/88 si limita a provvedere che contro l’ordinanza possono ricorrere per cassazione il pubblico ministero, l’imputato e il suo difensore. La disposizione invece lascia alcuni dubbi interpretativi dal punto di vista oggettivo. <<Il giudizio della Cassazione sull’ordinanza sospensiva ex rt. 28 d.P.R. 448/88 ha ad oggetto innanzitutto i vizi del procedimento o dei presupposti, tra cui si possono annoverare: la mancata audizione delle parti, quindi la violazione del contraddittorio; l’omissione del progetto di intervento; la non adesione del minorenne al citato progetto; la non conformità del progetto di messa alla prova al contenuto dell’ordinanza che la dispone; i vizi riguardanti la motivazione del provvedimento e, in particolare, l’adeguatezza e completezza della stessa, anche in ordine sull’eventuale omissione dell’indagine sulla personalità del minorenne, ex art. 9 d.P.R. 448/88, ai fini dell’applicazione della misura>>[8].

La proposizione del ricorso comporta la sospensione dell’esecuzione del provvedimento, che non potrà riprendere il suo corso fino a quando la Corte non si sarà pronunciata; se la Cassazione respinge il ricorso, la sospensione avrà il suo corso, se invece essa lo accoglie, il processo riprenderà da dove era stato sospeso.

Riguardo all’ordinanza di segno inverso con cui il giudice rigetta la richiesta di messa alla prova, risultano non pienamente condivisibili le conclusioni dell’orientamento dottrinale prevalente e della giurisprudenza dominante, fermi nel negare il classico regime di impugnazione delle ordinanze dibattimentali ai sensi dell’art. 586 c.p.p. Le considerazioni a sostegno di tale orientamento si fondano sull’interpretazione del riferimento generico all’ordinanza, desumibile nel comma 3 dell’art. 28, d.P.R. 448/88, nel quale si parla della sola ordinanza di sospensione. A questo si aggiunge che <<l’autonoma impugnabilità dell’ordinanza reiettiva della richiesta di sospensione avrebbe apprezzabili effetti pratici ai fini dell’obiettivo di ridurre al minimo il contatto fra il minorenne e il processo penale, posto che quest’ultimo, anche in pendenza dell’impugnazione, non potrebbe che proseguire[9]. <<Del resto è assai probabile che il rigetto dell’istanza di sospensione e messa alla prova si assorbito nella stessa sentenza>>[10].

“Decisamente più convincenti appaiaono invece le considerazioni che permettono di aderire all’orientamento di segno opposto, favorevole all’autonomia e indistinta ricorribilità per cassazione dell’ordinanza con la quale viene disposta ovvero rigettata la richiesta di sospensione del processo per la messa alla prova e in tal senso dispongono sia l’interpretazione letterale dell’art. 28 d.P.R. 448/88, sia la ratio dell’istituto, che è quella di limitare al massimo il contatto traumatico tra il minorenne ed il processo penale”[11].

Il confronto tra la sospensione del processo con messa alla prova e gli altri istituti si rende necessario per verificare se il suddetto rimedio costituisca nella prassi soluzione favorevole rispetto agli altri esiti alternativi possibili previsti a carico dei minorenni autori di reato.

Tuttavia, prima di procedere all’analisi e al confronto tra la sospensione del processo con messa alla prova e gli altri istituti, sembra doveroso soffermarsi sul concetto di imputabilità.

 

2. L’imputabilità.

 

L’art. 26 d.P.R. 448/88 prevedendo che il giudice, una volta accertato che l’imputato è minore degli anni quattordici, “in ogni stato e grado del procedimento”, anche ex officio, deve pronunciare sentenza di non luogo a procedere “trattandosi di persona non imputabile”, da un lato costituisce l’applicazione processuale del principio espresso nell’art. 97 c.p., in base al quale non è mai imputabile chi al momento della commissione del fatto, non aveva compiuto i quattordici anni; dall’altro, consente di contingentare i tempi di permanenza del minore nell’alveo penale, dando attuazione ai principi di minima offensività e destigmatizzazione del processo minorile[12].

<<La capacità d’intendere e di volere del minore, che abbia compiuto i quattordici anni ma non ancora i diciotto anni, non è presunta come per l’imputato maggiorenne, ma deve essere obbligatoriamente accertata, a pena di nullità, in concreto e con riferimento al singolo episodio criminoso dal giudice di merito, il cui convincimento costituisce un apprezzamento di fatto insindacabile in cassazione se sorretto da adeguata motivazione, esente da vizi logici e giuridici>>[13].

Ne consegue che il concetto di incapacità di intendere e di volere di cui all’art. 98 c.p. è differente da quello indicato nell’art. 85 c.p. per l’imputato adulto. Infatti da un concetto statico di imputabilità, che si riduceva alla somma della capacità di intendere e di quella di volere, una giurisprudenza più evoluta, anche della Corte di Cassazione, è passata ad elaborare il concetto di maturità: il giudice, nel compiere l’esame previsto dall’art. 98 c.p. per stabilire l’imputabilità o meno dell’imputato minore tra 14 e 18 anni, deve procedere ad una valutazione complessiva della personalità di questo ed indicare i motivi prevalenti che lo convincano dell’esistenza della mancanza in lui della capacità di intendere e di quella di volere, non procedendo ad un’arbitraria ed artificiosa distinzione[14].

La capacità su cui si radica l’imputabilità esige non solo un accertamento della capacità del minore di rendersi conto del significato antisociale dell’atto che pone in essere ma anche la capacità di valutarne le conseguenze indirizzando la sua volontà in una direzione scelta con raziocinio e non sulla base di incontrollabili impulsi sostanzialmente infantili[15].

Pertanto l’accertamento della capacità di intendere e di volere del minore si risolve in un giudizio di natura psicologica nel quale va tenuto conto dello sviluppo intellettuale, prendendo a riferimento gli elementi e le condizioni familiari, ambientali e sociali del soggetto; è necessario comunque fare riferimento al singolo reato commesso, alle modalità del fatto delittuoso e al contegno del minorenne durante il processo.

La capacità di intendere e di volere del minorenne non deve essere presunta ma accertata; a tal proposito l’art. 8 d.P.R. 448/88 dispone che il giudice quando vi è incertezza sulla minore età dell’imputato, dispone, anche d’ufficio, perizia e qualora anche dopo questa, il dubbio persista, il soggetto minore è presunto di anni 14, quindi non imputabile, in applicazione dei principi del favore rei e in dubio pro reo.

3. La sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto.

 

Altra formula di proscioglimento anticipato riguarda la sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto. A norma dell’art. 27, comma 1, d.P.R. 448/88, durante le indagini preliminari, se risulta la tenuità del fatto e l’occasionalità del comportamento, il pubblico ministero chiede al giudice sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto quando l’ulteriore corso del procedimento pregiudica le esigenze educative del minorenne.

La ratio è quella di consentire la rapida e definitiva fuoriuscita dal circuito penale di quei minorenni autori di reati di scarsa rilevanza (i c.d. reati bagatellari) per i quali il procedimento potrebbe risultare addirittura dannoso sotto il profilo educativo.

Se dal punto di vista processuale il provvedimento può essere assunto in qualsiasi fase del procedimento, sotto il profilo sostanziale, è necessaria la presenza di tre requisiti: <<la tenuità del fatto, l’occasionalità del comportamento e il pregiudizio per le esigenze educative del minore causato dalla continuazione del procedimento>>[16].

<<La presenza di questi tre elementi comporta una sentenza di non luogo a procedere, che pone fine a ogni ulteriore attività processuale perché lo Stato non ha interesse a perseguire il colpevole, né il processo può produrre una finalità educativa>>[17].

In relazione al primo dei requisiti, si deve ritenere che il concetto di tenuità del fatto vada inteso in riferimento al “fatto reato” e non al danno e debba quindi essere valutato in base ai criteri generali indicati all’art. 133 c.p. con particolare riguardo alla natura, alla specie, ai mezzi, all’oggetto, al tempo, al luogo e ad ogni altra modalità dell’azione; alla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato; alla intensità del dolo o al grado della colpa.

Pertanto può considerarsi tenue un reato compiuto d’impulso, <<sotto la spinta di uno stato passionale>>[18], o anche un fatto connotato da colpa lieve ed accompagnato dalla colpa concorrente della parte lesa[19], o ancora con il <<pressoché totale consenso di quest’ultima>>[20].

Non hanno rilievo il titolo di reato o la pena per esso comminata per quanto si ritenga che dovrebbero essere qualificati, in linea di principio, come tenui le contravvenzioni; si riconosce, in ogni caso, che la pena edittale è uno dei parametri di individuazione della tenuità[21].

Anche in mancanza di un giudizio favorevole sugli elementi di cui all’art. 133 c.p. può del pari assumere valore la scarsa capacità a delinquere del soggetto, così come la condotta ovvero il comportamento contemporaneo o successivo e l’assenza di recidiva.

Alla valutazione dei criteri diversi dal danno ha fatto esplicito riferimento la Corte di Cassazione, secondo la quale la tenuità può essere ritenuta se il fatto sia oggettivamente modesto e venga realizzato con modalità che lo rendano ascrivibile alla naturale leggerezza delle persone di giovane età, le quali spesso non riflettono adeguatamente sulle conseguenze della loro condotta[22].

Pertanto, ad esempio, <<concorrere nella detenzione di droga “pesante”, destinata alla cessione a un numero imprecisato di consumatori è, comunque, condotta tutt’altro che tenue sul piano dell’offensività e dell’antisocialità>>[23] mentre invece, è di fatto indice di irrilevanza, l’aver perseguito chiaramente una finalità ludica, come nel caso di simulazione di uno status per ottenere piccoli vantaggi[24].

Il secondo requisito è l’occasionalità del comportamento. Secondo la dottrina maggioritaria pare che tale requisito non possa essere riferito ad un criterio di seriazione dei fatti, per cui possa dirsi che è occasionale la prima trasgressione, o la seconda, ma non quelle successive, né al criterio della recidiva.

Dunque occasionalità del comportamento non vuol dire necessariamente unicità, né episodicità, anzi contestando radicalmente il rilievo della dimensione puramente cronologica, si afferma che può non essere occasionale il comportamento riferibile al primo reato[25].

Non resta che ritenere, che l’occasionalità corrisponda ad episodicità della condotta che per un verso, può contemplare la reiterazione (ma non quella “sistematica” o “sistemica”) e per altro, rende compatibile l’istituito con pregresse vicende, del tutto indipendenti da quella per la quale si procede: un precedente di furto può, a ragione, apparire preclusivo, davanti alla reiterazione di fatto analogo, ma non per esempio davanti ad un delitto colposo derivante dalla circolazione di veicoli a motore[26].

La presenza dei requisiti oggettivi della tenuità del fatto e dell’occasionalità del comportamento non è sufficiente a fondare la sentenza di non luogo a procedere. Il procedimento deve chiudersi solo se la sua prosecuzione sia pregiudizievole per le esigenze educative del minorenne in modo che esso potrebbe continuare se manchi questo elemento, pur in presenza di un giudizio di irrilevanza del fatto[27]. Ciò significa che, per potersi pronunciare la sentenza di non luogo a procedere, devono concorrere entrambe le finalità, quella deflattiva e quella della minima offensività del processo, altrimenti questo potrebbe proseguire pur in carenza di un interesse dello Stato alla persecuzione di un fatto giudicabile come socialmente irrilevante[28].

Volendo operare un confronto tra l’istituto della sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto e la sospensione del processo con messa alla prova, si nota la diversità riguardo il presupposto fondamentale e l’ambito di applicazione.

La sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto è infatti utilizzabile nei soli casi di reati minori; inoltre, perché l’irrilevanza del fatto possa essere dichiarata è necessario, che il minorenne stia già seguendo il percorso di rieducazione, mentre nella messa alla prova è sufficiente la sola prognosi favorevole riguardo il cammino di risocializzazione che il ragazzo dovrà compiere.

Nei casi in cui il giudice ritenesse che potrebbero essere applicati entrambi gli istituti, è netta la preferenza per la sentenza di cui all’art. 27 d.P.R. 448/88. In tal caso è evidente, infatti, la maggiore vantaggiosità del rimedio per il minore, giacché essa non comporta alcun impegno per il minorenne, in quanto è una causa oggettiva di esclusione della pena e del processo per insufficiente offensività del fatto, esercitata come condizione di non proseguibilità dell’azione penale.

 

4. L’affidamento in prova al servizio sociale.

 

Attenzione particolare merita anche l’affidamento in prova al servizio sociale, istituto simile alla sospensione del processo con messa alla prova, in quanto rientra nel modello del probation anglosassone.

Disciplinato all’art. 47, l. 26 luglio 1975, n. 354 sull’ordinamento penitenziario costituisce tuttavia una misura alternativa alla detenzione di tipo generale, e comporta che il condannato venga sottoposto ad un periodo di prova di durata pari a quella della pena detentiva da scontare.

Risulta quindi evidente che tra la messa alla prova del processo minorile e l’affidamento in prova al servizio sociale non esiste rapporto di alternatività, ma i due istituti afferiscono ad ambiti diversi: l’affidamento in prova al servizio sociale, infatti, è successivo alla sentenza di condanna e rappresenta un succedaneo di questa con funzione terapeutica.[29]

Pertanto sostanziali differenze si riscontrano in primo luogo riguardo l’ambito applicativo dell’affidamento in prova che risulta circoscritto ai condannati ad una pena detentiva non superiore a tre anni: dispone infatti l’art. 47, l. 354/75 che la pena detentiva inflitta non deve superare i tre anni; pena tra l’altro da <<espiare in concreto: dunque, si tratta della pena al netto della parte già espiata o altrimenti estinta (ad es., per effetto di un indulto)>>[30]. Di contro nell’ipotesi della sospensione del processo con messa alla prova non esiste alcun limite edittale.

In seconda istanza, il periodo di prova, ai sensi dell’art. 47, l. 354/75 corrisponde alla durata della sanzione sostitutiva; nella messa alla prova ex art. 28 d.P.R. 448/88 è invece esclusa tale simmetria non solo perché ancora non v’è stata alcuna condanna, ma perché la funzione dell’istituto è differente: l’intervento non è un beneficiario alternativo alla detenzione, ma uno strumento diretto di risocializzazione di natura endoprocessuale[31].

Risultano invece evidenti le analogie riguardanti la ratio e la finalità delle due fattispecie in considerazione: nel senso che anche nel caso dell’affidamento in prova al servizio sociale, si ritiene che il provvedimento debba contribuire alla rieducazione del reo e assicurare la prevenzione che egli commetta altri reati (art. 47, comma 2, l. 354/75).

Tuttavia il giudizio prognostico che il giudice è chiamato ad effettuare, per poter concedere l’affidamento in prova, risulta assai più definito rispetto a quanto avvenga nel caso di sospensione del processo con messa alla prova ex art. 28 d.P.R. 448/88. Secondo la disciplina originaria, presupposto necessario per l’affidamento in prova è l’osservazione della personalità, condotta per un certo periodo in carcere; anche se a seguito di modifiche introdotte nell’art. 656 c.p.p. dalla legge 27 maggio 1998 n. 165, l’affidamento in prova al servizio sociale può essere disposto anche senza procedere all’osservazione in istituto, sulla base della valutazione del comportamento del condannato dopo la commissione del reato.[32]

Così come nella messa alla prova, anche in questo caso il beneficiario deve osservare una serie di prescrizioni dettate dal tribunale (in tal caso dal tribunale di sorveglianza) che il soggetto dovrà seguire in ordine ai rapporti con il servizio sociale, alla dimora, alla libertà di locomozione, al divieto di frequentare alcuni locali ed al lavoro (art. 47, comma 5 l. 354/75). Il reo inoltre deve adoperarsi anche nei confronti della vittima del suo reato e adempiere puntualmente agli obblighi di assistenza familiare (art. 47, comma 7, l. 354/75). <<L’attività riparatoria, però, pare strumentale a esigenze di compensazione delle ragioni della vittima e assume connotazione retributiva, nel senso di fungere da bilanciamento del danno provocato con l’atto criminale: nell’ambito della messa alla prova processuale, invece, la conciliazione e la riparazione fanno parte del percorso di maturazione del giovane>>[33]. Si ritiene però che, a differenza di quanto accade nella messa alla prova ex art. 28 d.P.R. 448/88, ove il consenso del minorenne è fondamentale, nel caso di affidamento come misura alternativa alla detenzione il reo non abbia la possibilità di interloquire sul tipo di prescrizioni, ma le debba subire; <<proprio questa diversità giustificherebbe il computo del periodo di affidamento revocato nell’ammontare della pena ancora da espiare: non si avrebbe analogo trattamento nella messa alla prova processuale per il carattere pattizio di quest’ultima>>[34].

Un’ampia discrezionalità è conferita al tribunale di sorveglianza anche riguardo la revoca del provvedimento. Un comportamento del soggetto contrario alla legge o alle prescrizioni dettate, potrebbe infatti comportare la revoca, che tuttavia dovrà essere disposta soltanto se la violazione commessa dal condannato appaia incompatibile con la prosecuzione della prova (art. 47, comma 11, l. 354/75).

L’esito positivo del periodo di prova estingue la pena detentiva e gli effetti penali della condanna, a differenza di quanto accade nella messa alla prova processuale, ove la conclusione positiva comporta l’estinzione del reato.

 

5. Il perdono giudiziale.

 

L’istituto del perdono giudiziale, previsto all’art. 169 c.p. costituisce una delle novità più significative del codice Rocco.

Esso nacque indubbiamente per un’esigenza di carattere indulgenziale e non si trattò di una riforma di poco conto, in quanto nell’impostazione autoritaria del sistema politico di allora, l’idea di poter rinunciare alla punizione per favorire la risocializzazione del reo, si allontanava dai caratteri di certezza e severità del diritto penale e dalla teoria della funzione di prevenzione generale affidata alla pena[35].

Ma come risulta dalla Relazione del Guardasigilli Alfredo Rocco, la deviazione dalla linea logica e fondamentale del magistero punitivo trova una giustificazione, tentando di attuare il trionfo di una più alta esigenza: quella di salvare dalla perdizione le giovani esistenze e di favorire in tal modo il progresso civile, rendendo sempre migliori, materialmente e moralmente, le condizioni della convivenza civile[36].

Nella formulazione del testo originario dell’art. 169 l’ambito di applicazione dell’istituto era piuttosto limitato, dovendo il giudice far riferimento al limite di pena edittale massima di due anni e a lire diecimila di multa o ammenda.

Tale formulazione fu legittimamente modificata con il r.d.l. n. 1404 del 1934. All’art. 19 del suddetto r.d.l. 1404/34 il legislatore dell’epoca, lasciando peraltro immutato il limite di due anni, ne ha sancito il riferimento alla pena applicabile in concreto, anziché a quella edittale, permettendo così di concedere il beneficio del perdono giudiziale anche agli autori di reati più frequenti e di una certa gravità.

Così ai nostri giorni, l’istituto del perdono giudiziale svolge un importante ruolo all’interno del sistema penale anche se non sono mancate le critiche, mosse dalla dottrina e rivolte alla gestione, troppo spesso indulgenziale del giudici, nell’applicazione quasi automatica del perdono giudiziale.

In tal senso l’entrata in vigore del d.P.R. 448/88 ha radicalmente mutato la scena, portando il giudice a poter scegliere tra l’applicazione del perdono giudiziale e l’istituto dell’irrilevanza del fatto ma soprattutto, in presenza di analoghi presupposti all’alternativa perdono giudiziale-sospensione del processo con messa alla prova.

Il problema si pone perché, ogniqualvolta sussistono i presupposti per concedere il perdono giudiziale, è possibile anche mettere il soggetto minore alla prova e l’unico elemento valutativo, contemplato nell’art. 169 c.p., è la prognosi di futura astensione del reo dalla commissione di altri reati; essa può essere equiparata a quella aspettativa positiva di evoluzione della personalità del minorenne che costituisce parametro essenziale per la sospensione del processo e la messa alla prova[37].

Si tratta, allora, di un giudizio richiesto al giudice, condotto in base ai parametri dell’art. 133 c.p. che deve avere come punto di riferimento il momento della decisione e non quello del commesso reato[38]. Così, ai sensi dell’art. 9, comma 2, d.P.R. 448/88 il pubblico ministero e il giudice possono sempre assumere informazioni da persone che abbiano avuto rapporti con il minorenne e sentire il parere di esperti, senza alcuna formalità.

Tuttavia nell’art. 169 c.p. si richiede al giudice una valutazione prognostica concernente la sola recidiva; perché invece venga disposta la messa alla prova, non è sufficiente il mero convincimento dell’assenza di una futura carriera criminale del minore (l’occasionalità del fatto è presupposto del solo rimedio dell’irrilevanza), ma occorre una valutazione generale della personalità, che riguarda tutto lo stile di vita del soggetto, non soltanto quello rilevante in ambito penale[39].

Orbene, non sembrano esserci dubbi che l’applicazione del perdono giudiziale sia più favorevole della messa alla prova e che in riferimento al principio del favor rei, il giudice debba dare preferenza al primo dei due istituti.

Appare meritevole di considerazione la decisione del Tribunale per i minorenni di Ancona del 28 febbraio 1995, che sostiene la tesi della maggiore convenienza del perdono giudiziale rispetto alla messa alla prova, in primo luogo per rispondere all’interesse del minore alla rapida fuoriuscita dal circuito penale, in seconda istanza perché in base al giudizio prognostico sulla condotta del soggetto minore si evince già quale sarà il suo futuro comportamento e da ultimo, perché dopo la sottoposizione alla messa alla prova, questa potrebbe anche avere esito negativo, a differenza del perdono che produce nell’immediato, l’estinzione del reato[40].

Il perdono giudiziale può essere concesso solo una volta, e presupposti per la sua concessione sono che il reato sia stato commesso da un minorenne e che il giudice, ritenga di poter applicare in concreto una pena detentiva non superiore a due anni di reclusione o una pena pecuniaria, sola o congiunta a pena detentiva, di ammontare non superiore a 1549,37 euro.

Costituiscono invece impedimento ad una applicazione del perdono giudiziale una precedente condanna per delitto, anche se con l’intervento della riabilitazione, o la dichiarazione di delinquenza abituale, professionale o per tendenza. Diversamente una precedente condanna alla pena dell’ammenda o dell’arresto per una contravvenzione, o a quella della multa per un delitto, non costituiscono condizione ostativa alla sua applicazione.

E’ evidente che per l’applicazione del perdono è fondamentale il giudizio sull’imputabilità e l’accertamento della responsabilità dell’imputato. D’altronde <<si perdona un colpevole, non un innocente>>[41].

 

6. La sospensione condizionale della pena.

 

La sospensione condizionale della pena è un istituto di carattere generale, il quale prevede appunto la sospensione dell’esecuzione della condanna per un dato periodo di tempo, entro cui se il soggetto non commette alcun reato, lo stesso si estingue.

<<La sospensione condizionale costituisce una deroga al principio della inderogabilità della pena, introdotta, nella sua originaria e genuina ratio, per esigenze di prevenzione speciale: sottrarre agli inconvenienti del carcere il soggetto condannato ad una pena di breve durata quando possa ritenersi nei suoi confronti deterrente sufficiente la condanna e la minaccia pendente di una sua futura esecuzione>>[42].

La sospensione condizionale si ispira al sistema del sursis, che fu adottato per la prima volta dalla legislazione belga e si limita alla sospensione dell’esecuzione della condanna pronunciata; si discosta, invece, dal più funzionale sistema anglosassone del probation, che implica la sospensione della stessa pronuncia della condanna e prevede l’imposizione al soggetto di regole e di condotta e, in particolare, l’affidamento del medesimo alla sorveglianza ed assistenza di determinate istituzioni[43].

Orbene, a differenza di quanto succeda con il perdono giudiziale, ove l’estinzione del reato avviene con il passaggio in giudicato della sentenza, l’effetto della sospensione condizionale è condizionato ed eventuale, producendosi soltanto nel caso, in cui il condannato superi la prova alla quale viene sottoposto nel periodo fissato dalla legge (cinque anni se la condanna è per delitto e due anni se trattasi di contravvenzione). <<Non può ritenersi, pertanto, contraddittoria la motivazione della sentenza che negando l’uno abbia concesso l’altro o viceversa, con l’unico obbligo del giudice di indicare adeguatamente le ragione della sua scelta, obbligo che può ritenersi soddisfatto quando appunto il giudice di merito, in considerazione della ratio e delle finalità dei due istituti giunga alla conclusione, evidenziando anche uno solo dei criteri indicati dall’art. 133 c.p. e altri elementi di rilievo, ai fini del giudizio valutativo, dell’effetto positivo che in concreto potrà derivare dal beneficio prescelto>>[44].

Gli effetti, dunque, sono più limitati e meno vantaggiosi ma il più esteso ambito di operatività nei confronti dei minori ha rappresentato e rappresenta tuttora un apprezzabile e cospicuo rimedio per evitare l’esecuzione della pena detentiva; sono difatti sospendibili le sentenze a pena detentiva fino a tre ani (proprio con la previsione di un differente ambito applicativo il legislatore ha cercato di differenziare la posizione del minore rispetto a quella dell’adulto)[45].

Per l’applicazione dell’istituto della sospensione condizionale della pena sono necessari alcuni presupposti fondamentali: in riferimento al tipo e all’ammontare della pena inflitta, deve trattarsi di una pena detentiva non superiore a due anni; <<ove il condannato non avesse compiuto i diciotto anni al momento del fatto, la pena detentiva può raggiungere i tre anni; nel caso infine in cui il reato sia stato commesso da persona di età superiore agli anni diciotto, ma inferiore agli anni ventuno ovvero da chi ha compiuto gli anni settanta, la pena detentiva soggiace al limite massimo di due anni e sei mesi>>[46].

Per quanto riguarda i precedenti penali del condannato, è necessario che il colpevole non abbia già riportato una precedente condanna a pena detentiva per delitto, non sia stato dichiarato delinquente o contravventore abituale o professionale ovvero non abbia già usufruito in precedenza della concessione della sospensione condizionale della pena.

La concessione è rimessa alla discrezionalità del giudice, il quale effettuando un giudizio prognostico, dovrà concedere il beneficio soltanto se presume che il colpevole si asterrà dal commettere nuovi reati.  Nel formulare la prognosi, il giudice dovrà quindi tener conto dei criteri indicati nell’art. 133 c.p. con particolare attenzione a quelli relativi alla capacità a delinquere: <<l’applicazione della sospensione condizionale dovrebbe dunque essere riservata a chi presenti una minima capacità a delinquere (anche se la prassi giurisprudenziale decisamente largheggia nel ritenere questo presupposto per l’applicazione dell’istituto)>>[47].

La sospensione condizionale della pena può essere inoltre subordinata all’adempimento di determinati obblighi tassativamente previsti dal legislatore all’art. 165 c.p. ossia alle restituzioni, al pagamento della somma liquidata a titolo di risarcimento del danno o provvisoriamente assegnata sull’ammontare di esso, alla pubblicazione della sentenza di condanna a titolo di riparazione del danno, all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato con modalità indicate dal giudice nella sentenza di condanna.

Anche la sospensione condizionale può essere revocata; la revoca è obbligatoria quando il condannato commetta un delitto o una contravvenzione della stessa indole, per cui venga inflitta una pena detentiva; se non adempie nel termine stabilito dal giudice gli obblighi che gli sono stati imposti; se riporta una nuova condanna per un reato commesso prima del passaggio in giudicato della sentenza che ha disposto la sospensione condizionale della pena oppure se la sospensione è stata concessa per più di due volte, ovvero se è stata concessa una seconda volta, allorché la pena inflitta, cumulata con quella irrogata con la precedente condanna, supera i limiti fissati dall’art. 163 c.p[48]

Dott. Sylos Labini Emanuele

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