La mediazione familiare attraverso la legislazione regionale

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Abstract: L’Autrice, in attesa di una compiuta definizione da parte del legislatore statale, traccia i confini dello strumento della mediazione familiare, differenziandolo da altre attività, leggendo stralci delle ultime leggi regionali in materia e facendo un’analisi etimologica di alcune locuzioni.

 

1. Cosa non è la mediazione familiare

Mentre nel 2010 il legislatore statale ha provveduto a legiferare sulla mediazione civile, in materia di mediazione familiare non si profila ancora alcuno approdo legislativo.

“La mediazione familiare è un percorso che sostiene e facilita la riorganizzazione della relazione genitoriale nell’ambito di un procedimento di separazione della famiglia e della coppia alla quale può conseguire una modifica delle relazioni personali tra le parti” (art. 1 comma 1 legge n. 26 del 24-12-2008 Regione Lazio “Norme per la tutela dei minori e la diffusione della cultura della mediazione familiare”). Fino ad ora è questa, in Italia, la definizione legislativa di mediazione familiare più completa, seppure discutibile, contenuta nella discussa legge regionale del Lazio. Discutibile perché non si riorganizza solo la relazione genitoriale ma ogni relazione familiare, la famiglia non si separa ma si trasforma (si può parlare di autopoiesi) e la modifica delle relazioni personali tra le parti non è potenziale ma è connaturale in ogni situazione anche non conflittuale. Comunque tutte le discussioni sullo specificum della mediazione familiare rimangono aperte.

E’, però, quasi pacifico ciò che non è o non dovrebbe essere:

  • psicoterapia o terapia tout court;

  • consulenza (nella legge n. 14 del 28-07-2008 Regione Emilia Romagna “Norme in materia di politiche per le giovani generazioni” si continua ad accostare la mediazione familiare alla consulenza);

  • counseling, chiarimento del problema all’interessato ed orientamento dello stesso verso una soluzione autonoma;

  • psicologia forense e giuridica, la cui ricerca è di ausilio all’avvocato nel campo civilistico per es. per l’interpretazione di clausole generali quali diligenza del buon padre di famiglia, buona fede, ecc. e nel campo penalistico per es. nelle indagini difensive (circa la lentezza dei tempi del legislatore in materia di mediazione familiare, può “consolare” sapere che la legge sugli psicologi si è avuta nel 1989, L. 18 febbraio 1989 n. 56 “Ordinamento della professione di psicologo”);

  • assistenza (nella legge n. 37 del 30-12-2009 Regione Piemonte “Norme per il sostegno dei genitori separati e divorziati in situazioni di difficoltà” si continua ad assimilare l’assistenza alla mediazione familiare; anche la legge sugli assistenti sociali è stata tardiva, L. 23 marzo 1993 n. 84 “Ordinamento della professione di assistente sociale e istituzione dell’albo professionale);

  • pedagogia, da quella clinica a quella giuridica;

  • reflecting, letteralmente “aiuto a riflettere”.

Non si tratta di una distinzione meramente terminologica e concettuale, necessaria ma non sufficiente, bensì di una differenziazione sostanziale essendo diversi gli effetti giuridici, i soggetti deputati ai vari tipi di intervento ed i ruoli delle parti e degli operatori. L’eventuale sovrapposizione o confusione determinerebbe non solo un’usurpazione di ruoli professionali ma soprattutto effetti negativi sulle persone coinvolte.

Molti studiosi manifestano un forte interesse alla differenziazione tra terapia familiare e mediazione familiare. Le principali fonti del possibile equivoco tra questi due interventi sono nell’aggettivazione comune e nel fatto che molti centri italiani per la mediazione familiare sono nati per gemmazione da quelli per la terapia familiare. A parte queste comunanze, numerose sono le differenze tra cui la semantica, la formazione di base degli operatori (che nella terapia è fondamentalmente clinica, nella mediazione è principalmente relazionale), la metodica (che nella terapia è analizzare il passato, nella mediazione progettare il futuro), il coinvolgimento delle parti (che nella terapia è accettazione dell’intervento, nella mediazione partecipazione all’intervento) ed anche la durata (che nella terapia è lunga mentre nella mediazione è breve). Si ribadisce che, anche se della mediazione familiare esistono tipi terapeutici ed essa può avere effetti terapeutici, tuttavia la mediazione non si identifica con la terapia. Tanto nella definizione della legge della Regione Lazio quanto in altre definizioni si parla di riorganizzazione e di relazione; entrambi i termini, come altri usati per definire la mediazione, cominciano col prefisso ri- che genera futuro, annuncia un percorso che non si arresta, che nuovi inizi sono sempre possibili. Infatti, dopo l’accompagnamento dell’eteromediazione le parti tornano all’automediazione (in gergo si parla di self empowerment). I termini mediazione, relazione e riorganizzazione hanno in comune il suffisso -zione che indica tanto azione quanto risultato che è ciò che identifica la mediazione, giacché si potrebbe dire tautologicamente che questa media per mediare.

La mediazione familiare si distingue dalla consulenza tecnica (e specificatamente da quella psicologica disposta d’ufficio in materia di minori) per la finalità, in quanto la mediazione verte ad aiutare la famiglia mentre la consulenza ad aiutare il giudice (art. 193 c.p.c.), per esempio sulle modalità dell’affidamento; per la metodologia, la mediazione è una relazione ternaria basata su colloqui paritari e progetti condivisi tra le parti mentre la consulenza si svolge sulla base di un programma peritale delineato individualmente dal consulente e si realizza in raccolta dell’anamnesi, colloqui clinici ed eventuale somministrazione di test; per l’impatto psicologico sugli utenti che tendono ad accogliere meglio il mediatore e non il consulente.

L’attività mediativa si avvicina al counseling per la comune origine statunitense e perché entrambi i mezzi sono “relazioni di aiuto”, ma la prima si caratterizza per l’essere relazione di aiuto nelle relazioni familiari mentre il secondo è diretto più all’aiuto individuale.

La mediazione differisce ontologicamente dall’assistenza (dal latino “adsistere”, stare presso, davanti, “star presso ad alcuno per aiutarlo, soccorrerlo o altrimenti gioviargli”), in primis quella sociale, perché l’assistente opera “per la prevenzione, il sostegno e il recupero di persone, famiglie, gruppi e comunità in situazioni di bisogno e di disagio e può svolgere attività didattico-formative” e di “collaborazione con l’autorità giudiziaria” (dall’art. 1 della legge 84/1993). La mediazione che significa “stare nel mezzo” vuol richiamare l’attenzione non su una o più persone all’interno della famiglia ma su un interesse (interesse ha lo stesso significato etimologico della mediazione, “essere in mezzo”) prioritario, “l’interesse della famiglia” (art. 143 comma 2 cod. civ; quest’espressione è stata una delle novità introdotte dalla riforma del diritto di famiglia del 1975) e “l’interesse dei minori” (art. 3 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia del 1989). Ha dei risvolti educativi (infatti nella legge n. 13 del 16-02-2010 Regione Umbria è compresa nell’art. 5 rubricato “Sostegno alla funzione educativa e di cura dei soggetti in età minore”) e opera in assoluta indipendenza dall’autorità giudiziaria anche se in via collaterale. Non si occupa in generale di “situazioni di bisogno e di disagio”, ma in particolare di “situazioni di crisi e disagio comunicativo e relazionale” (dall’art. 5 comma 2 della legge n. 13 Regione Umbria). Non si ha alcuna forma di sostituzione delle persone interessate né imposizione di alcuna decisione. Inoltre rispetto all’assistenza sociale o altre forme di assistenza ha una durata limitata, infatti gli incontri di mediazione possono oscillare tra i 10 e 12.

 

2. Cosa dovrebbe essere la mediazione familiare

L’intervento mediativo è diverso da quelle misure economiche come reddito minimo di inserimento, prima, reddito di cittadinanza, ora, o altro, che prevedono percorsi di sostegno alla genitorialità o altri percorsi formativi. Queste misure sono provvidenze (ai sensi dell’art. 31 comma 1 Cost.) che, pertanto, provvedono ad una necessità, ad un disagio che può anche perdurare.

Per determinare la mediazione familiare bisogna partire dal suo aggettivo “familiare”, per cui essa non è né coniugale, né genitoriale, né minorile (anche se nell’interesse dei minori là dove vi siano), ma agisce per la famiglia nella sua interezza (opportunamente la legge della Regione Umbria è intitolata “Disciplina dei servizi e degli interventi a favore della famiglia” e l’art. 15 della legge regionale dell’Emilia Romagna prevede l’istituzione di “centri per le famiglie”), quale sistema di relazioni, comunicazione e conflittualità. Relazione (dal latino “referre”, portare di nuovo, ricondurre, rivolgere, indirizzare), comunicazione (dal latino “cum” e “munus”, che compie il suo incarico insieme con altri) e conflitto (dal latino “cum” e “fligere”, in Lucrezio “far incontrare”, in Cicerone “mettere a confronto”) sono concetti connaturati alla mediazione. Questa interviene quando nella famiglia avvengono lacerazioni delle relazioni, interruzione della comunicazione ed esacerbazione della conflittualità. Non si tratta, perciò, di un solo conflitto, per il quale si potrebbe chiedere una consulenza, ma di uno stato conflittuale, infatti nell’art. 34 lettera c della legge n. 13 del 27-07-2007 della Provincia di Trento “Politiche sociali nella provincia di Trento” si prevede “mediazione familiare volta a risolvere la conflittualità tra genitori e tra genitori e figli, a tutela in particolare dei minori”. “Risolvere la conflittualità” non va inteso come dare una soluzione ad un conflitto ma, etimologicamente, come sciogliere i nodi, l’impasse di uno stato conflittuale (letteralmente risolvere significa “fare passare da uno stato di compattezza e durezza a uno contrario, sciogliere in liquido”). La definizione più adeguata appare, pertanto, quella più ricorrente di percorso di ri-organizzazione delle relazioni familiari in vista o in seguito alla separazione o al divorzio. Anziché riferirsi solo alla separazione e al divorzio, per rendere onnicomprensiva questa definizione si potrebbe mutuare la terminologia dell’art. 15 lettera a della legge regionale dell’Emilia Romagna “in occasione di eventi critici e fasi problematiche della vita familiare”.

La mediazione familiare (come ogni forma di mediazione), a differenza degli altri mezzi summenzionati, è un “intervento” in senso etimologico (dal latino “venire inter”) con due significati tecnici: intervento di situazione ed intervento di problema.

Si tratta di “intervento di situazione” se presenta le seguenti caratteristiche: se si prefigge di fronteggiare vicende delimitate nel tempo e nello spazio tramite azioni atte a rispondere a richieste circoscritte; se i singoli interventi mediativi non sono considerati come azioni finalizzate ad affrontare problemi sociali con una “logica operativa di servizio”; se i compiti attribuiti agli operatori si presentano piuttosto standardizzati (è tale la mediazione soprattutto quando si occupa dell’affidamento dei bambini, cosiddetta mediazione parziale). In queste ipotesi la mediazione è intesa quale “tecnica di gestione di situazioni conflittuali” tesa a recuperare la relazionalità interpersonale.

Si tratta, invece, di “intervento di problema” quando si è guidati dall’intento di affrontare non solo la situazione conflittuale emergente, ma anche di coglierne il significato di contesto (interessante è anche il significato etimologico di contesto, “tessere insieme, intrecciare”), al fine di individuare, interpretare (dal latino “inter partes), accompagnare le modificazioni che intervengono nel sistema relazionale di contesto, con una “logica operativa di confronto sociale”. La finalità è che soggetti e gruppi siano sollecitati a mettere alla prova le reciproche interpretazioni della realtà per ricercare le ragioni e le condizioni della compatibilità: in queste ipotesi la mediazione è intesa dunque quale “processo di confronto sociale” (processo ancor più rilevante nella mediazione penale) teso a recuperare anche la relazionalità sociale. Nell’art. 5 lettera c della legge regionale dell’Umbria si parla specificatamente di “azioni di mediazione fra soggetti a rischio e contesto di riferimento”.

La peculiarità della mediazione è quella centrata dalla legge regionale del Lazio, già nella sua rubrica, ove si legge “diffusione della cultura della mediazione familiare”. Dobbiamo fare in modo che la mediazione familiare divenga un fatto culturale, come in Cina e Giappone, ricordando che la cultura stessa è frutto di mediazione e riportando la famiglia alla sua cultura che è quella del servizio.

Dott.ssa Marzario Margherita

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