La “legge Pinto”: aspetti generale e profili di particolare rilevanza

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Il fondamento e l?origine della ?legge Pinto?.

Come ormai ampiamente noto, la legge 24 marzo 2001, n.? 89 ( meglio nota come ?legge Pinto? dal nome del Senatore che se ne ? fatto primo promotore), ha introdotto nel nostro ordinamento un meccanismo? volto a garantire equa riparazione ai danni subiti dagli utenti del ?servizio giustizia? a causa della durata irragionevolmente eccessiva del procedimento giudiziario di cui sono stati parti.

La legge trova la sua origine sistematica all?interno della Convenzione Europea dei diritti dell?uomo e delle libert? fondamentali[1], il cui articolo 6 pone il diritto ad un processo di fronte ad un giudice realmente terzo ed imparziale e, per quello che qui interessa, soprattutto il diritto a vedere da questo esaminate le proprie istanze in un tempo razionalmente breve.

Sul piano dell?ordinamento interno, la citata normativa trova base e ragione di esistere essenzialmente in virt? di due disposizioni costituzionali che, al riguardo, possono vedersi fra loro strettamente collegate.

La prima di esse ? l?articolo 24 Cost., che pone il diritto di agire e difendersi in giudizio: questo cosiddetto diritto di azione, riconosciuto a ?tutti? indistintamente, vista la sua importanza all?interno del moderno stato sociale di diritto, serve a garantire adeguata tutela alle situazioni soggettive lese o comunque messe in pericolo nella quotidiana vita di relazione. E? perci? evidente come gi? nel diritto di agire in giudizio sia contenuto in nuce il diritto ad un processo breve: agire in giudizio oggi per tutelare una propria situazione di vantaggio (ad esempio, il diritto a vedersi definitivamente assegnato un immobile di cui si ? gi? conseguita, in virt? di un titolo di acquisto valido ed efficace, la propriet?) ed ottenere una pronuncia sulla propria istanza a distanza di anni ed anni dalla notificazione della citazione (quasi quattordici anni nel caso esemplificativamente riportato[2]), significa innanzitutto riconoscere all?istante una tutela ineffettiva e, conseguentemente, arrecargli un pregiudizio gravissimo riferito proprio al diritto che si voleva tutelare con l?azione. Infatti, per tutta la durata del procedimento, si ? comunque perpetuata la situazione di incertezza relativa al medesimo, con tutto ci? che questo comporta in termini di godimento e libera disponibilit? del diritto.

La seconda norma costituzionale che si pone come fondante per la Legge Pinto ? l?articolo 111, la cosiddetta norma sul ?giusto processo?: frutto di lunghi dibattiti parlamentari e foriera di feroci polemiche politico-partitiche, la norma, per quanto pi? rileva in questa sede, pone nel suo primo comma il diritto ad un processo equo, del quale la legge assicura la ragionevole durata.

Questi i fondamenti sistematici e normativi della legge 89/2001.

Ad un livello molto meno alto, relativo agli scopi pratico-politici della legge stessa, possiamo invece segnalare come la sua funzione ? stata un?altra, molto pi? terrena: quella, cio?, di impedire la continua condanna dello stato italiano in sede di Corte di Giustizia Europea. Il Giudice comunitario, infatti, a fronte delle innumerevoli azioni intraprese dai cittadini italiani che avevano visto passare molti anni della loro vita in attesa di una sentenza che non veniva emessa, condannava lo stato italiano a risarcirli del danno morale subito, ma applicava anche una forte multa che andava a gravare ulteriormente sulle gi? esangui casse erariali.

Di qui, appunto, la soluzione della Legge Pinto, come ?muro? sulla via di Strasburgo.

Ricordiamo anche come la Corte di Giustizia, ormai oberata dalle azioni redibitorie di cui s?? detto, sfrutt? l?occasione e rimise alle Corti Nazionali anche i ricorsi gi? pendenti presso la propria sede al momento dell?approvazione della legge 89, grazie a quella che apparse come un?interpretazione ?al limite? ?e certamente disinvolta del principio di sussidiariet?. Il Governo in carica dovette allora rapidamente intervenire con un provvedimento tampone, tra l?altro discutibilmente adottato in forma di decretazione d?urgenza[3], col quale venivano rimessi negli esigui termini per proporre l?azione i cittadini che gi? avevano agito in sede sovranazionale.

Aspetti processuali della riforma.

Ricostruite le fondamenta della legge, possiamo ora dedicarci ad una breve riflessione sui suoi punti pi? importanti.

Innanzitutto, ? opportuno segnalare le questioni che sorgono in merito al primo comma dell?articolo 3, che pone la competenza a decidere dell?azione in capo alla ?Corte d?Appello del distretto in cui ha sede il giudice competente, ex articolo 11 c.p.p., a decidere dei procedimenti riguardanti i magistrati nel cui distretto ? concluso o estinto, o presso il quale pende, il procedimento nel cui ambito si assume verificata la violazione?.

Al riguardo ? da notare, innanzitutto, come il riferimento all?articolo 11 c.p.p., norma che stabilisce qual ? il giudice competente per i procedimenti penali contro altri magistrati, e che appositamente rimanda al Giudice avente sede nel capoluogo di distretto di Corte d?Appello pi? vicino a quello in cui esercita le sue funzioni il magistrato sottoposto a procedimento, lascia pensare ad una sorta di responsabilit? del magistrato anche nel contesto della Legge Pinto. Altrimenti, poco senso pratico avrebbe il richiamo dell?articolo 11 c.p.p, norma pensata per evitare che la cognizione ricada su uno judex suspectus, quale ?, per presunzione di legge, quello in servizio nello stesso distretto in cui esercita le sue funzioni il magistrato incriminato, valutati i condizionamenti di varia natura che in queste ipotesi potrebbero derivare per il giudicante.

Inoltre, col suo riferirsi al ?distretto? in cui si ? esaurito o pende il procedimento fonte di danno, la norma si pone come naturalmente riferita ai soli magistrati appartenenti all?ordine giudiziario, che sono i soli ad essere organizzati in distretti (con eccezione, ovviamente, della Corte di Cassazione). Si ? quindi posto il problema relativo alla competenza a decidere dell?azione di cui alla legge 89/2001 nei casi in cui questa venga proposta nei confronti dei Giudici amministrativi e dei Giudici speciali in genere (si pensi alle Commissioni Tributarie), i quali, notoriamente, sono diffusi territorialmente ma non organizzati in distretti.

Al riguardo la soluzione, avallata anche dalla Cassazione[4], ? stata quella di applicare il meccanismo di cui all?articolo 25 c.p.c., il quale, nel regolare il cosiddetto foro erariale, stabilisce che ?per le cause nelle quali ? parte un?Amministrazione dello Stato ? competente, a norma delle leggi speciali sulla rappresentanza e difesa dello Stato in giudizio, il Giudice del luogo dove ha sede l?ufficio dell?Avvocatura dello stato, nel cui distretto si trova il Giudice che sarebbe competente secondo le norme ordinarie. Quando l?Amministrazione ? convenuta, tale distretto si determina con riguardo al Giudice del luogo in cui ? sorta o deve eseguirsi l?obbligazione, o in cui si trova la cosa, mobile od immobile, oggetto della domanda?. Queste conclusioni sono tra l?altro mutuate, vista l?evidente contiguit? di ratio, dalle soluzioni adottate dal Supremo Collegio in materia di individuazione della competenza territoriale nei processi relativi alla responsabilit? civile dei magistrati incardinati ex l.n? 117 del 13 aprile 1988.

Per concludere sulle norme processuali contenute nella Legge Pinto, possiamo ancora evidenziare come il medesimo articolo 3 stabilisca che il procedimento si introduce con ricorso contenente tutti gli elementi previsti dall?articolo 125 c.p.c. per gli atti di parte; legittimati passivi dell?azione sono il Ministro della Giustizia (in relazione ai procedimenti conclusisi davanti al Giudice Ordinario), il Ministro della Difesa ?(circa i procedimenti svoltisi davanti alle Giurisdizioni militari), il Ministro delle Finanze (per i contenziosi risolti dai Giudici tributari) ed il Presidente del Consiglio dei Ministri (in tutti i casi diversi da quelli finora rilevati).

Come per regola generale, valevole in tutti i casi in cui ? convenuta un?Amministrazione Pubblica, il ricorso va notificato all?Avvocatura dello Stato competente per territorio (unitamente al decreto di fissazione della Camera di Consiglio).

La Corte d?Appello decide, in rito camerale, entro quattro mesi dal deposito del ricorso. La decisione ha la forma del decreto, che ? immediatamente esecutivo: circa la motivazione del procedimento, la Corte d?Appello non ? tenuta a ripercorrere tutto l?iter decisionale, essendo sufficiente una sintetica descrizione dei criteri e degli indici che sono stati usati per dirimere il contenzioso, avendo cura di riferirsi alle fasi o agli eventi del procedimento oggetto di azione risarcitoria che sono apparsi al collegio particolarmente indicativi ai fini della decisione medesima[5].

Segnaliamo, in limine, come l?azione vada proposta? a pena di decadenza, entro sei mesi dal divenire definitiva della decisione del processo, oppure durante la pendenza del procedimento nel quale si sarebbe originata la violazione (Cfr. Articolo 4 Legge 89/2001).

Profili sostanziali: il diritto all?equa riparazione e la struttura del danno.

Il diritto all?equa riparazione viene sancito nell?articolo 2.

Il danno di cui alla Legge Pinto ? quello, patrimoniale o? non patrimoniale, subito per effetto, come gi? anticipato, della violazione del termine di durata ragionevole del procedimento di cui alla citata Convenzione Europea.

La legge stabilisce che tale violazione pu? essere accertata considerando la complessit? del caso concreto sottoposto al Giudice, il comportamento delle parti nel procedimento, dell?organo giudicante e di ogni altra autorit? chiamata a concorrere al processo o a contribuirvi.

Non viene quindi data una definizione del concetto di ?durata ragionevole? del procedimento, n? quella di ?complessit? del caso?, che rappresenta un indice determinativo particolarmente importante. Allora, il Giudice chiamato a decidere sull?azione che trova fondamento nella legge Pinto, dovr? innanzitutto tenere presente l?ormai consolidata giurisprudenza comunitaria, alla stregua della quale il termine di durata ragionevole pu? fissarsi razionalmente in tre anni per i processi di primo grado, due anni per quelli di secondo grado, e un anno per i gradi successivi, a meno che particolari indici di complessit? del concreto procedimento non impongano un allungamento dei termini ora proposti.

Su questa base il Giudice dovr? allora porre in essere un equo apprezzamento (di merito, quindi sottratto al sindacato della Cassazione se non per motivi inerenti al vizio di motivazione) circa proprio gli indici proposti nell?articolo 2 della Legge 89/2001, tenendo in debito conto ogni circostanza che possa essere utile (ad esempio: il lungo stato di quiescenza in cui il procedimento ? versato, la mancata adozione dei provvedimenti necessari ad indirizzarlo verso una naturale fine in tempi ragionevoli, la presenza di manovre dilatorie come continue e sostanzialmente immotivate richieste di rinvio ). Al riguardo, pu? essere utile segnalare come la giurisprudenza di legittimit? non consideri rilevante ai fini della determinazione dell?eccessiva durata del procedimento, la violazione di termini meramente ordinatori. Ci permettiamo per? di dissentire da questa linea ermeneutica, in quanto la brevit? di un termine processuale, anche se non assistita da sanzione, deve comunque indurre a ritenere che sia necessaria l?emissione in tempi celeri del provvedimento? cui esso ? riferito. Altrimenti, ? inutile rilevare annualmente, nelle relazioni sullo stato della Giustizia lette dal Procuratore Generale presso la Cassazione, che i processi durano troppo con danno per lo Stato ed i suoi cittadini.

Una volta che sulle basi descritte si sia appurata l?irragionevole durata del processo, il danno non patrimoniale ? in re ipsa e non c?? altro da aggiungere circa la prova del nesso causale: ?sulla base dell? id quod plerumque accidit si deve ritenere che la durata del processo oltre un termine ragionevole sia produttiva di ansia, patemi d?animo, sofferenze morali, e, quindi, di danno non patrimoniale. Quindi, accertata l?irragionevole durata del processo, la prova del conseguente danno morale ? in re ipsa . Semmai, grava sull?Amministrazione convenuta l?onere di dedurre e provare i fatti che nel caso concreto eccezionalmente escludevano tale danno?[6]. L?unica condizione negativa richiesta ? che il danno in questione (distinto ovviamente da quello che eventualmente ha dato causa al processo che poi si ? rivelato essere troppo lungo) non deve essere stato oggetto di equo ristoro all?interno del procedimento da cui si ? originato[7].

A fronte di ci?, si pu? ritenere che il danno da eccessiva durata del procedimento, oggetto dell?azione redibitoria di cui alla legge 89/2001, sia imputato allo stato soggetto in via meramente oggettiva, in quanto, coi suoi organi, ? responsabile dei malfunzionamenti dei servizi pubblici essenziali, primo fra tutti quello della giustizia.

Conformemente alla dottrina e alla giurisprudenza dominanti[8], il debito da risarcimento del danno, anche nel caso della Legge Pinto, ? un debito di valore, in quanto avente per oggetto un ammontare che risulta essere equivalente al valore effettivo del danno da reintegrare. Di per s?, quindi, non ? sottoposto all?operativit? del principio nominalistico.



[1] Resa esecutiva con la Legge 4 agosto 1955, n.? 848 ed entrata in vigore per l?Italia il 26 ottobre 1955.

[2] Cfr. Tribunale di Roma 40346/03.

[3] Cfr. Decreto Legge 370 del 27 ottobre 2001.

[4] Ex multis Cass. Ord. n.? 1653 del 4.2.2003.

[5] Cfr. Cass. 1600/2003

[6] Cass. SS. UU. Civ. n.? 1339 del 26 aprile 2004.

[7] Cass. n.? 7254 del 16 aprile 2004.

[8] Ex plurimis BIANCA, Diritto Civile IV, Giuffr?, Milano 1993, 149 e Cass n.?1423 del 18 aprile 1977.

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Galati Alessandro

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