La laicita’ italiana: una laicita’ relativa e funzionale

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Il crescente dibattito, accesosi in seno all’opinione pubblica, in merito al principio di laicità dello Stato, si muove lungo due direttrici principali. Una prima prospettiva, di chiara derivazione illuministica, concerne, secondo il grande costituzionalista Costantino Mortati, “l’irrilevanza per lo Stato dei rapporti derivanti dalle convinzioni religiose, nel senso di considerarli fatti privati da affidare esclusivamente alla coscienza dei credenti” ossia si ispira a quel complesso di atteggiamenti e concezioni che rivendicano la completa autonomia dei valori temporali rispetto a quelli religiosi.
   Una seconda concezione, invece, pur ritenendo necessaria la distinzione tra ambito politico-civile ed ambito religioso, non rivendica il proprio disinteresse o il proprio rifiuto dell’uno a svantaggio dell’altro. Questo secondo modo di considerare il tema, ci sembra anche quello seguito dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale.
   Intervenendo sulla disciplina dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, il giudice delle leggi, con la famosa sentenza n. 203/1989, esplica il principio di laicità dello Stato, identificandolo con la non confessionalità del medesimo poichè implicante non la “indifferenza dello Stato dinnanzi alle religioni, ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale”. E proprio in ragione del fatto che la protezione del sentimento religioso è venuta ad assumere il significato di un corollario del diritto costituzionale di libertà di religione indipendentemente dai diversi contenuti di fede, la Corte Costituzionale, a partire dalla sentenza n. 329/1997, è intervenuta per sanzionare l’illegittimità di valutazioni e apprezzamenti legislativi differenziati e differenziatori con conseguenze circa la diversa intensità di tutela penale. La Corte, in altri termini, non solo prende coscienza e consapevolezza di uno sbilanciamento pro Ecclesia sotto il profilo della libertà religiosa ma cerca, attraverso interventi correttivi ed ispirati alla logica della ragionevolezza e della intrinseca razionalità delle differenziazioni normative, a porre le premesse, come osservato dal costituzionalista Stefano Ceccanti, affinchè la laicità, da un lato, si configuri quale “riflesso della protezione della libertà religiosa “negativa” della singola persona”, mentre, dall’altro, protegga “dal messaggio, sia pure a livello subliminale, di immagini simboliche di una sola religione”.
   Se però, almeno fino ad ora, la Corte Costituzionale non ha voluto salire “sulla croce”, delineando con chiarezza i tratti della laicità italiana, il Consiglio di Stato è riuscito laddove il giudice costituzionale non ha voluto spingersi. Sulla scia della sentenza 13 febbraio 2006 n. 556, il giudice amministrativo ha statuito che una visione universale di laicità, tale da prescindere da qualunque fede religiosa, risulta fuorviante e non conforme con il nostro ordinamento costituzionale. L’organo di consulenza giuridico-amministrativa e di tutela della giustizia nell’amministrazione (art. 100, 1°comma, Cost.), nella nota pronuncia di cui sopra ed in continuazione con un indirizzo già espresso nell’esercizio della sua funzione consultiva con il parere n. 63/1988, non solo ha affermato che la laicità italiana non può essere simile a quella francese o brittanica, pena un’inopportuna omologazione di culture, ma che il simobolo religioso rappresentato dal crocifisso esposto in luogo pubblico, esaurisce la sua portata fideistica per tradursi in espressione di “valori civilmente rilevanti”. Il che sta a significare che gli ideali di rispetto, tolleranza, eguale considerazione per ogni forma di credo, risultano propri del cristianesimo e addirittura prodromici all’avvento dello Stato di Diritto. Questa ricostruzione che vede nel crocifisso il “simbolo universale”, definito così nel parere n. 63/1988, non è rimasto esente da critiche tra i costituzionalisti. E’stato sostenuto, con vigore, che un simile inquadramento appare “un tentativo di difesa estremo quanto inutile” volto a produrre “un atteggiamento di arroganza culturale” sintomatico dell’ansia e del disagio “generati da un senso di vulnerabilità cui le società occidentali fanno costantemente i conti”.
   Ma è proprio così ? Il principio di laicità, in Italia, non si traduce in forme di attiva neutralità destinate ad impedire allo Stato l’affermazione di istanze religioso-ideologiche e pronte a concretizzarsi in una sorta di “progressiva indifferenza assai vicina al vecchio regime della totale separazione”, bensì, viceversa, si sostanzia in un’attitudine culturale, un rapporto con valori storici che devono essere propri, in egual misura, di credenti e non credenti. E si tratta di un rapporto non basato sulla pregiudiziale esclusione delle religioni dalla sfera pubblica, cogliendosi solo in termini relativi ossia in funzione delle istituzioni democratiche del paese preso a riferimento e del loro substrato culturale. Ora, il fatto che i valori ispiranti buona parte della legislazione italiana siano di indubbia matrice cristiana, non implica un’imposizione del simbolo cristiano, ma la semplice proposizione di un modello di convivenza, inteso quale principio ispiratore ed antefatto logico giuridico della stessa Costituzione formale.
   Pertanto, alla luce di queste valutazioni, il mito della “neutralità dello spazio pubblico” si configura come fuorviante ed in antitesi al carattere laico della società italiana. Fuorviante perché nel momento in cui la Costituzione menziona espressamente la Chiesa Cattolica e le altre fedi religiose, adotta una posizione “interventista” sul problema religioso impegnandosi ad una regolamentazione legislativa del medesimo; in antitesi perché risultato di un’astrazione forzata della dimensione pubblica da quella storico-culturale.
 
Daniele Trabucco-Assistente universitario in Istituzioni di Diritto Pubblico presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Padova (daniele.trabucco@alice.it)

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