La famiglia e le agenzie di socializzazione nella quotidianità del XXI secolo

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Il modello di Parsons  (AGIL) identifica quattro funzioni fondamentali che permettono a un sistema sociale di sopravvivere:

  • Adattamento, ossia reperimento di risorse sufficienti;
  • Raggiungimento degli scopi;
  • Integrazione o mantenimento della solidarietà e coordinamento tra le singole sotto-unità del sistema;
  • Latenza, ovvero creare, conservare e trasmettere la cultura del sistema con i suoi valori.

Ogni sottosistema è legittimato da questo legame funzionale ed il suo valore è proporzionato all’importanza che la società assegna alla sua funzione, d’altronde un’organizzazione per funzionare con una efficienza sufficiente alla sua sopravvivenza deve attrarre la lealtà dei propri membri, motivandone gli sforzi e coordinandoli, vi è quindi alla base un problema di integrazione.

La famiglia che è uno dei sotto sistemi atti all’integrazione, alla latenza e alla produzione, secondo la prospettiva di tipo funzionalista, risulta, come confermato dalla ricerca etnografica, un prodotto culturale avendo in ogni cultura una diversa organizzazione e distribuzione di funzioni.

In essa mentre la struttura designa le regole e la sua composizione ed ampiezza, le relazioni designano i rapporti di affetto e di autorità nel gruppo, nella società contemporanea i criteri prevalenti su cui si individua una famiglia sono la convivenza e la comunanza del bilancio, come già indicato dall’art. 7 del DPR 23/10/1971.

Vi sono delle qualità precise che vengono a strutturare la relazione familiare, quali l’impegno e l’affetto che non possono essere duplicati con le stesse caratteristiche in altri gruppi.

Bateson ha evidenziato il particolare tipo di comunicazione insito nella famiglia, chiamato “messaggi a doppio legame”, vi sono pertanto nelle relazioni familiari sia una prospettiva relazionale in cui l’interazione di cause ed effetti sono individuabili e definibili, sia una prospettiva transazionale dove cause ed effetti risultano totalmente interrelati.

L’evoluzione dell’istituto della famiglia

La famiglia vive una continua evoluzione che investe sia il livello temporale, che psicologico, in quanto risulta essere una realtà conflittuale dove diversi membri devono trovare varie modalità di intesa, e sociale, interagendo con altre entità. Vi è quindi in essa un senso di “identità” che si esprime attraverso i due livelli di appartenenza e differenziazione, i quali si conformano su precise regole che ne definiscono i termini della partecipazione e i rapporti con l’esterno.

Varie generazioni convivono al suo interno con differenti desideri, attese e informazioni, coesione ed adattabilità sono quindi fondamentali, ma vi è sempre il pericolo di uno scavalcamento dissimulato tra generazioni (triangolo perverso) con il conseguente venire meno della stima, comprensione e condivisione. Il superamento generazionale, favorito dalla medicina e dall’espandersi tecnologico, assume pertanto la configurazione economica di un marketing indirizzato al consumo.

Le strutture di relazione trasmesse lungo le generazioni vengono sottoposte agli eventi stressanti sia della storia familiare passata che dell’accelerazione sociale attuale. I forti cambiamenti subiti  dalle pressioni economiche e dai modelli imposti frantumano i rapporti.

Si tende quindi da una parte ad accettare il dissolvimento dall’altro a valutare in termini economici, attraverso una contabilizzazione arbitraria, i costi morali ed emotivi dell’incapacità relazionale, rivendicando l’attuazione di diritti che la stessa società viene a minare ed incrinare come valori riconosciuti ed apprezzati, dove la “differenziazione” nella famiglia comporta un rapporto conflittuale tra dipendenza e autonomia nel dissolversi del senso di appartenenza.

L’aumento delle famiglie di fatto e di quelle uni-personali, il crollo delle nascite, la rivendicazione di strutture familiari alternative, la richiesta di vari riconoscimenti giuridici a tipologie di relazioni diverse, hanno evidenziato la pressione a cui è sottoposta la famiglia quale unità di base della struttura sociale.   Da una parte si vuole continuare a riconoscere alla famiglia la funzione di trasmissione culturale, economica e di continuità generazionale, dall’altra l’insicurezza che su di essa si diffonde favorisce l’invasione pervasiva della “cultura degli esperti”, sia in funzione di supporto nelle insicurezze, che di fornitura dei servizi per le necessità economiche, ma gli stessi esperti nel modificare continuamente modelli e indicazioni creano confusione e insicurezza.

Le generazioni più giovani vengono commercialmente corteggiate, ma sono anche segregate dando loro una sensazione di inutilità sociale, tanto che è stata coniata la definizione di “società segregate per età”.

Si hanno, pertanto, modelli familiari estremamente fragili nei valori e nei comportamenti condivisi, anche se persistono culture ancora in grado di effettuare la trasmissione generazionale.

Nell’ultimo secolo si è progressivamente andati a definire dei modelli normativi entro le famiglie, si è proceduto quindi a scansionare rigidamente le varie età con i relativi diritti e obblighi, al contempo è venuta meno la sovrapposizione generazionale data dalla nascita di numerosi figli in un ampio arco di tempo, si è quindi accentuata da una parte l’attenzione spasmodica e persa dall’altra la capacità esperenziale, delegandola ad esperti esterni.

Il riconoscimento di una serie continua di diritti alla nuove generazioni ha creato un linguaggio dei diritti, che ha minato il modello legittimo  di autorità genitoriale, costringendo ad una continua contrattazione interna. Tanto più rafforzata da una decisa capacità consumistica delle nuove generazioni, del tutto sganciata dagli altri requisiti dell’età, del lavoro, della costruzione di una nuova famiglia, con una trasformazione ontologica della stessa che da struttura portante della società, dove diventa palestra e luogo di trasmissione dei valori culturali, diventa soggetto dei consumi.

Tuttavia lo scollamento tra capacità di consumo e autonomia lavorativa porta a nuove forme di disagio e tensioni con il disvelamento della falsa promessa di una nuova crescita.

La famiglia implica anche un consumo collettivo che è di per sé un giudizio di valore nella formazione della priorità, questa è tuttavia una capacità che tende a scontrarsi con un crescente individualismo nei consumi, un’affermazione della propria autonomia in relazione alla potenziale appartenenza ad altri gruppi.

Sebbene parte dei consumi restino in comune, avviene una crescente conflittualità nella distribuzione della capacità di spesa, nell’accesso alle risorse che  può essere dovere e responsabilità ma anche al contempo una notevole forza di coazione, un mezzo per imporre la propria visione nella relazione familiare. D’altronde l’intervento dello Stato è avvenuto, a partire dagli anni ’70, a favore dell’individuo contro l’autorità familiare, la definizione dei diritti individuali ha generato nuove tensioni nella struttura familiare.

L’intervento ha creato conflitto tra lo Stato, quale detentore del potere normativo, e la possibilità regolamentare insita nella famiglia come unità tradizionale, nel contempo si è realizzato quello che è un sovraccarico funzionale con l’attribuzione di nuovi compiti; la pressione gerarchica si è trasformata in una conflittualità diffusa, in cui la morte è intesa come una semplice evaporazione di una proiezione olografica e non il passaggio doloroso dall’ordine al caos di un sistema biologico.

Se la famiglia è articolata in forme e bisogni differenti, percorsa da tensioni e fratture interne, lo Stato nell’intervenire a protezione dei membri più deboli ridefinendo e delimitando i diritti e gli obblighi, non presenta a sua volta obiettivi e fini chiari e omogenei. Attraverso le proprie agenzie di socializzazione interviene sulla famiglia con comportamenti molte volte contradditori, creando a sua volta arbitrii secondo un livello proporzionale alla debolezza sociale della famiglia.

Vi è quindi una elevata invasione dell’autonomia familiare con una forte omologazione standard, in cui diritti individuali e autonomia di consumo si incontrano nello Stato sociale. La famiglia è pertanto la struttura iniziale in cui si alimentano i conflitti e le distorsioni, la possibile violenza e l’inganno, una palestra da cui trasferire le tensioni alle agenzie di socializzazione, per arrivare infine alla società nel suo insieme, proiettandosi sulle sue istituzioni e organizzazioni.

La famiglia secondo i giuristi

Gazzaniga osserva il reciproco influsso tra comportamento individuale e gruppo sociale, tanto che l’80 -90% delle conversazioni trattano di persone specifiche da noi conosciute (Emler). Il nostro rispecchiare, simulare e imitare emozioni, tendono a favorire i rapporti sociali, ma possono anche dare luogo a falsità e inganni nel riuscire a controllare con la volontà tanto l’imitazione inconscia che il mimetismo. Vi sono comunque alla base delle intuizioni morali che permettono una rapida e universale collaborazione (Haidt), la loro violazione comporta riprovazione ma anche sfiducia se imposta con la violenza o ripetuta nell’inganno.

Vi sono cinque moduli morali: relativi alla “sofferenza”, aiutare gli altri e non danneggiarli, alla “reciprocità”, il senso di equità, alla “gerarchia”, rispettare gli anziani e l’autorità legittima, alla “purezza fisica e mentale”, e ai “legami di coalizione”, lealtà verso il gruppo, (Haidt e Craig) mentre i moduli morali hanno un valore universale, le virtù nel derivare dalle differenti combinazioni dei moduli, hanno caratteristiche proprie per ciascuna cultura specifica (Gazzaniga).

Per Bateson le relazioni sono alla base della biologia e questa vale anche  relativamente al pensiero, ma la conoscenza è qualcosa di più vasto in cui entrano a farne parte l’intero processo vitale dalle percezioni, alle emozioni, alle azioni. Una unità che supera la divisione cartesiana e di cui la “teoria di Santiago” offre una coerente cornice scientifica, così che la mente non è più un ente ma un processo (Capra), come lo è il processo di socializzazione che si esercita anche attraverso la mediazione delle agenzie sociali che possono avere carattere generale o specializzato.

Le informazioni trasmesse dovranno avere una necessaria precisione e non essere contraddittorie, come del resto i modelli da imitare, devono pertanto esservi in una socializzazione di successo tanto la definizione dei ruoli che delle relative funzioni le quali hanno per oggetto la struttura sociale.

Il ruolo, quale snodo tra struttura sociale e individuo, indica i comportamenti correlati allo status, esso, sebbene in divenire, impone il rispetto dello stesso pena la perdita di credibilità, con la conseguente difficoltà per l’inserimento sociale e al contempo il conseguimento di una salda identità personale, nella pratica l’individuo interiorizza solo quella parte di società con cui entra in rapporto.

Accanto alla famiglia quale agenzia di socializzazione maggiormente rilevante vi è il sistema educativo, il quale ha il duplice ruolo di espressione dei valori di una cultura e di strumento di conservazione dell’ordine sociale, il venire meno della tradizione e del principio di autorità per Durkheim è causa di una diffusa incertezza nella trasmissione dei valori.

Anche i mezzi di comunicazione di massa partecipano, con il gruppo dei pari, alla socializzazione, dobbiamo considerare che i gruppi di appartenenza rappresentano per gli individui la fonte dei valori, ma anche una forte motivazione al cambiamento. Nei gruppi giovanili vi è il laboratorio per le sperimentazioni che in futuro potrebbero essere istituzionalizzate, infine vi sono le comunità quali luogo che forniscono un significato e quindi una identità per il proprio sé e per il mondo.

Agenzie specializzate quali la scuola, le Chiese, i partiti e le associazioni si sono affiancate alla famiglia, ma è in essa che avviene l’interiorizzazione delle norme attraverso la selezione dei messaggi e si acquisiscono gli elementi culturali futuri per l’orientamento della personalità.

Secondo la teoria dei funzionalisti e di Parsons, vi è  in ciascuno la necessità sia dell’inserimento nella società che del conseguimento di una identità personale, questa definizione del sé avviene in base alle altrui opinioni (Mead), circostanza che comporta inevitabili restrizioni da cui nascono i conflitti, il superamento degli stessi può avvenire con una mediazione positiva oppure attraverso atti di forza o inganni.

Le sanzioni a loro volta non saranno sempre formali ma si baseranno molto sui caratteri informali e le pressioni psicologiche che ne conseguono, vi sarà quindi un forte riflesso tra la creazione della personalità nella famiglia e il suo modo di porsi entro le altre agenzie di socializzazione.

La tecnologia viene ad influenzare fortemente i rapporti di socializzazione, in particolare l’informatica che aumenta l’aggressività attraverso la creazione di una dipendenza e ponendo modelli alternativi, l’individuo trova pertanto estremamente difficile conservare una propria identità a seguito delle pressioni e della frammentazione dell’esistenza, con un conseguente aumento di possibili frustrazioni e angosce.

La relatività delle esperienze fa sì che prevalga l’effimero e il provvisorio con una insicurezza di base, dove le relazioni stabili necessarie alla società vengono a perdersi, sostituite dal provvisorio.

La sicurezza della regolarità è sostituita dalla valutazione del rischio, si crea lo spazio per una violenza da frustrazione come reazione all’angoscia; si deve considerare che sebbene vi sia una base biologica secondo la teoria ereditaria, appare l’acquisizione sociale, attraverso l’apprendimento, il fattore determinante per il momento e le modalità della sua manifestazione.

Gli antropologi hanno osservato la necessità dell’esistenza del concetto di guerra per il suo scatenarsi, come l’esistenza di una aggressività più sviluppata per i campioni sportivi (Mead), sono quindi le circostanze storiche che determinano il livello di aggressività, è il suo essere pagante, i vantaggi che se ne ottengono nelle relazioni umane che ne aumentano il livello e ne rafforzano l’uso.

Interviene il principio della punizione che dalla rappresaglia evolve verso il diritto, ma il diritto può essere uno schermo dietro cui effettuare ingiustizie, dall’eccesso alla non adeguatezza della reazione, si crea la rabbia quale base per l’ulteriore aggressività.

Come in tutti i momenti della crescita i modelli imitativi risultano fondamentali sia per le relazioni pacifiche che aggressive, vedere ed essere si equivalgono se non vi sono filtri critici, in quanto la violenza si manifesta in molte occasioni in termini socialmente raffinati, attraverso lo schermo di una giustificazione che può essere ideologica (Bandura), essa può quindi essere istigata attraverso modelli culturali in cui non è solo premiante ma dimostrata come giusta.

L’attivazione emotiva è l’elemento su cui agire per scatenare l’aggressività, la violenza diventa quindi la risposta sia ad una frustrazione causata da quello che si ritiene una arbitrarietà, tanto maggiore quanto prossima al desiderio,  sia dalla manipolazione culturale degli stati emotivi.

Interviene la scenicità della violenza quale prestazione sociale (Avil), vi è quindi in essa  una serie di copioni normativi che seguono regole comportamentali e culturali, dove sia le caratteristiche personali degli individui che il loro livello di pensiero morale vengono ad interloquire.

“Uniformità”, “conformità” e “obbedienza” inducono all’eguaglianza nel comportamento. Gli psicologi hanno individuato quattro fattori che agiscono nella nostra società verso l’uniformità: le “norme sociali”, i modelli propri di un “contagio sociale”, il “confronto” in base a cui richiediamo il consenso altrui e l’ “autoconsapevolezza”. A sua volta la conformità all’etica del gruppo aumenta con la dimensione del gruppo e con le necessità psicologiche di interazione con il gruppo stesso, fino ad interiorizzare i giudizi del gruppo sotto la pressione informativa. Infine l’obbedienza, che cresce con la vicinanza dell’autorità ritenuta legittima o legittimata, ma con il crescere del potere cresce anche la possibilità di venire corrotti dal potere stesso in una crescente autostima, favorita dalla facilità del potenziale ricorso a mezzi coercitivi e dalla progressiva distanza con i soggetti “bersaglio” del potere stesso (Kipnis), che fa perdere ad essi la dimensione umana, fino a diventare semplici unità da contabilizzare.

Mistificare non è tanto e solo ingannare consapevolmente, bensì anche illudere se stessi e coilludersi in una progressione irrefrenabile, accettare l’informazione passivamente rinunciando alla razionalità di un libero arbitrio, mancare di quella che gli psicologi chiamano  reattività alla minaccia di riduzione della libertà, non consapevolmente e liberamente accettata in proporzione ai fini che si ritiene giusto raggiungere.

D’altronde la reattività una volta innescata può a sua volta portare all’eccesso della disarticolazione organizzativa, quale mancanza di fiducia che si diffonde e persiste nei rapporti , vi è quindi una difficoltà nel trovare l’equilibrio, tra libertà e cooperazione, nel perseguimento dei fini sociali che la comunità dovrebbe individuare ed accettare.

Nella socializzazione al fine di ridurre i conflitti interpersonali comunicazione e fiducia sono essenziali, infatti, dove vi è una forte identità di gruppo i comportamenti strettamente individualistici diminuiscono, mentre la collaborazione aumenta superando la “trappola sociale” della razionalità egoistica individuale (Hardin).

L’inganno e la mistificazione in generale possono generare l’aggressività causa del fallimento sociale, lo stesso difficile rapporto tra equità ed eguaglianza viene minato, quello che è ritenuta una equa e giusta distribuzione di costi e benefici viene alterata, come nella ricerca di un minimo di eguaglianza, concetti già di per sé culturalmente difficili da determinare per le regole dello scambio.

si deve considerare che una volta definiti equità ed eguaglianza creano aspettative che finiranno per operare come delle regole; le regole di scambio nel determinare il comportamento sociale sono norme sociali espressioni della cultura, talvolta formalizzate nelle leggi (Homans) al fine del mantenimento dello scambio di servizi.

La forza vitale della riproduzione, viene quindi piegata nell’atto distruttivo dalla falsa promessa di un radioso avvenire, per cui necessita ed è obbligo subire la violenza attuale o, all’opposto, appagarsi della sola materialità nel vuoto funzionale del proprio essere, in una esistenza puramente riflessa sui modelli calati e imposti dal mercato.

Scrive Nagel, “L’utilitarismo assegna un primato all’interesse per quello che accadrà. L’assolutismo assegna un primato all’interesse per quello che si fa. Il conflitto tra essi si produce perché le alternative che affrontiamo sono raramente soltanto scelte tra risultati totali: sono anche scelte tra linee di condotta o misure alternative da prendere” (95, Nagel T., Guerra e massacro, in Questioni mortali, T. Nagel, Il Saggiatore, 2015).

Vi è in questo conflitto il riflettersi tra l’individualismo e una concezione comunitaria, l’estremizzazione delle due posizioni porta all’aggressività, all’atto violento come risoluzione del conflitto, ma la violenza, che non si esprime solo e tanto nella materialità dell’atto, si espande nella psiche e quindi nelle relazioni sociali, dovendo essere giustificata dall’autore sia verso se stesso che verso la collettività.

Il disvelarsi dell’atto necessita di una copertura giustificazionistica, una giustificazione che si allarga dall’atto individuale all’atto collettivo, fino alla massima espressione della comunità politica, tanto che Sombart  sostiene essere la guerra il motore dello sviluppo del sistema economico e della società moderna, un’opinione accolta da una schiera di autori.

Poche le voci contrarie tra cui Toynbee, che richiama il crollo delle civiltà passate, e Nef nel cui libro “War and Human Progress” dimostra che “molte affermazioni della scuola costruttiva sui contributi dati dalla guerra alla società sono illusori o esagerati e in cui si sostiene che non la guerra, ma le limitazioni ad essa imposte hanno condotto a progressi sociali e tecnici”, (22, Preston R.A. e Wise S. F., Guerra e società, in Storia sociale della Guerra, P.R.A. e W.S.F., Arnoldo Mondadori ed. 1973).

Nella logica della società vi è la necessità di gestire il conflitto individuale riducendolo a fatto episodico e contingente, al fine di attutirne l’impatto sociale, l’aggressività individuale viene a turbarne la logica anche se risulta in molti casi culturalmente premiante.

Interviene la giustificazione della stessa, la sua necessità ontologica e pratica nella quotidianità del vissuto, in cui i piani della giustizia e dell’equità vengono usati quale copertura nella confusione delle scale dei valori.

L’aggressore trova la sponda per giustificare la sua violenza e in questa girandola acquista l’immagine dell’aggredito, l’insicurezza dei valori diventa una insicurezza della giustizia e quindi una insicurezza sociale, l’individualismo estremo si autoalimenta, come del resto il richiamo ad un collettivismo vendicativo, la res pubblica diventa un contenitore da cui attingere, mentre si invoca la giustizia, i due estremi vengono nei fatti a sostenersi vicendevolmente.

La violenza d’altronde ha perso in molte occasioni i caratteri visivi immediati, diventando più impalpabile, adattandosi alla nostra crescente sensibilità, più legata ai confini dell’accettabile, la rozzezza si è raffinata, differenziata in mille rivoli privati e sociali, resa più difficile da gestire.

Il successo nella sua limitazione comporta una crescente complessità nella gestione, senza negare violenti ritorni di fiamma che i flussi culturali ed economici della globalizzazione comportano, tanto da fare rilevare a Paolo Flores d’Arcais che “la realtà potrebbe essere tale per cui, ahimè, siamo costretti a vivere sull’orlo del baratro, col nichilismo sempre incombente, perché l’auspicata legge morale naturale e/o razionale non c’è” (4, Controversia sull’etica di P. Flores d’Arcais e D. De Monticelli, in Almanacco di filosofia, AA.VV., MicroMega, 5/2011).

La responsabilità umana è quindi una responsabilità di disvelamento della mistificazione che permette di rendere socialmente e individualmente sopportabile l’aggressività, andare oltre la formalità della legge nella ricerca del possibile, delle reti relazionali ideologiche su cui la violenza poggia ed è supportata.

Considerando che anche la repressione di una atto violento è al contempo bene e male, in quanto è nell’individuo come essere umano il discrimine e non fuori di esso, un foro interno giudicato con altri fori interni, dal progressivo accumulo esperienziale e culturale che in essi si depositano e “forse maturano”

Possiamo riprendere le seguenti parole di Geiger: “Altri mi accuseranno di una spietata filosofia di potenza, capovolgendo lo stato delle cose. Niente mi è più estraneo della sublimazione del potere quale fattore della vita associata umana. Ma come rimanere ciechi dinanzi al fatto che non idee, bensì potenze concrete dirigono i destini degli uomini e che la vittoria apparente di un’idea non è che la vittoria della potenza che di questa idea si avvale? Nessuno si piega così docilmente al potere quanto chi lo nega. Solo se rimane celato, avvolto nel manto rubato dell’idea, esso potrà sedurre le masse”.

Ancora “ Il nihilismo dei valori è il risultato di un discernimento gnoseologico che enuncia come stanno certe cose, ma non come dovremmo comportarci noi. Con pretesa di validità asseriamo soltanto che pensare e conoscere sono una cosa, sentire e volere un’altra; che non possiamo spacciare sentimenti e volontà soggettive per conoscenze oggettive senza renderci colpevoli di una ipocrisia.

Non è stato asserito che il conoscere sia più valido del sentire, e mai la verità teorica viene anteposta ad altri valori o contrapposta ad essi in quanto non – valori”.

Infine “ L’illuminismo critico non è la diffusione di una dottrina nihilista rispetto ai valori, bensì l’evoluzione di una facoltà spirituale che, una volta destata, non potrà mancare d’agire secondo la propria legge interiore.

Esso è con tutta semplicità: il progresso del divenire umano. E se all’indirizzo del pensiero da noi rappresentato si volesse dare un nome, io proporrei : Umanesimo intellettuale” (622-624, T. Geiger, Saggi sulla società industriale, UTET , 1970).

La centralità di un progetto culturale, al fine di creare coesione sociale, risulta centrale in qualsiasi progetto politico e nazionale, non potendosi lasciarne la progettualità alla normale amministrazione dei tecnocrati, come è avvenuto nell’ U. E. , dove l’aspetto monetario e finanziario, privo di una effettiva pianificazione politica unitaria, ha portato al prevalere di aspetti particolari e a conflitti interni non facilmente gestibili.

In una confusione di valori e prospettive viene meno la terza morale, quella collettiva di norme e istituzioni culturali, dove le leggi non servono tanto e solo a contenere gli imbroglioni, quanto a coordinare su larga scala (Tomasello).

Questo tuttavia necessita sia di valori e progetti condivisi, che della necessità di una identificazione in un gruppo o comunità ben definita, da cui ricavare sostegno e protezione, non solo materiale bensì anche di valori, in modo da definire una propria identità, un proprio essere psicologico.

L’elemento umanistico della cultura occidentale deve  quindi affiancarsi alle capacità tecniche, quale elemento costituente di una propria identità da contrapporre ad altre culture, cementando la comunità su valori definiti ed accettati nella loro regolamentazione.

Questo può comportare talvolta una rielaborazione che sembrerebbe restrittiva di alcuni valori, se configgenti con altri valori, in questo vi è la dinamica della necessità del contemperare al fine della loro sostenibilità nel tempo, come qualsiasi struttura vivente, biologica o sociale che sia.

Oggi la lotta globale avviene prevalentemente in termini economici, circostanza che non esclude di per sé l’uso dei mezzi militari in termini diretti o indiretti, quale pressione, su diverse scale geopolitiche più o meno ampie.

L’uso dell’informatica su diversi livelli, il mito della globalizzazione ridotta a puro fatto economico ed edonistico non ci fa vedere i diversi grandi centri di potere economico-politici mondiali che premono su di noi, dove la libertà imprenditoriale e l’accumulo di ricchezza non corrispondono ai valori di libertà propri della cultura umanistica occidentale (Galli della Loggia).

Vi è quindi la necessità di recuperare gli studi umanistici, quale base per gli aspetti più propriamente tecnici, impedendo il dissolversi di una continua frantumazione del nostro sistema culturale, dove la capacità di analisi sia fondata sulla valutazione degli eventi storici e del pensiero critico, se non si vuole ripetere in termini aggiornati su scala più ampia le esperienze del ‘900, a partire da quelle di una concentrazione e gestione autoritaria degli aspetti sociali in una libertà economica (De Mauro).

Il concentrarsi sugli aspetti puramente economici della globalizzazione, fa sì che non si vedano gli arbitri altrui, perdendo pezzi della propria autonomia e disponendoci più facilmente alla dipendenza (Galli della Loggia).

 

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  • Ronson J., Psicopatici al potere. Viaggio nel cuore oscuro dell’ambizione, Codice ed., 2014;
  • Rossi D., Max Weber – Una idea di Occidente, Donzelli ed., 2007;
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  • Simmel , Il conflitto della civiltà moderna, SE, 1999;
  • Sorel G., 442-444 Vol. III, in Storia della Filosofia di N. Abbagnano, UTET, 1974;
  • Tomasello M., Storia naturale della morale umana, Raffaello Cortina, 2018;
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  • Turner, Just Capital, Laterza, 2004;
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  • Whittall J. – Bseiso J., L’assurdo come metodo:così il medio oriente è diventato una trappola, 205/210, Limes, 6/2015;

 

Dott. Sabetta Sergio Benedetto

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