La disciplina del diritto punitivo amministrativo: il rapporto tra sanzione accessoria e sanzione principale

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La disciplina del cd. diritto punitivo amministrativo, distinto dal diritto amministrativo della prevenzione e da quello disciplinare, ha trovato nella l. 24 novembre 1981, n. 689 una sua prima organica razionalizzazione.

L’articolo 12 della stessa, riguardo l’ambito di applicazione, include nel proprio perimetro solo le sanzioni pecuniarie. Tuttavia, la dottrina pressoché unanime ha tentato, sin dall’emanazione, in vario modo di svalutare la portata delimitatrice della norma per addivenire ad una diversa ricostruzione in via interpretativa della rilevanza della l. n. 689/1981.

In particolare, si sono individuati all’interno dell’articolato normativo tre nuclei fondamentali: a) i principi in materia di tutela giurisdizionale; b) i principi sul procedimento; c) i principi sostanziali sull’illecito e la sanzione.

La l. n. 689/1981, dunque, finisce per avere un ambito di applicazione elastico, in quanto investe un genus di sanzioni (principalmente, ma non esclusivamente pecuniarie) comprensivo di una pluralità di species, solo in alcuni casi dotate di una disciplina speciale.

Una lettura sistematica e costituzionalmente orientata, dunque, non può non condurre all’estensione applicativa dei principi fondamentali di cui agli artt. 1, 2, 3 e 4 della l. 689/1981 ad ogni sanzione amministrativa in senso stretto e quindi ad ogni illecito amministrativo, anche se la sanzione prevista non è pecuniaria. Restano fuori dall’applicabilità degli stessi solo quei provvedimenti che, seppur pregiudizievoli per il destinatario, assumono carattere primariamente riparatorio.

Solo integrando, pertanto, il dato testuale dell’art. 12 con considerazioni ispirate in ambito sanzionatorio ad ineludibili esigenze di garanzia, emerge chiaramente tutta l’importanza di sistema dei principi sostanziali e procedimentali fissati nella l. n. 689/1981, intorno alla quale è possibile costruire l’edificio della repressione amministrativa.

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Manuale dell’illecito amministrativo

La legge 24 novembre 1981, n. 689 è ancora oggi, dopo 40 anni, il pilastro fondativo dell’intero sistema sanzionatorio amministrativo.  Ogni tentativo di superamento di questo sintetico ed efficace impianto normativo è naufragato, così come ogni rimaneggiamento estemporaneo ha fatto peggio del problema che si intendeva correggere. Il modello di riferimento per la punizione “extra penale” resta quello della Legge 689/1981. Si può, dunque, affermare che l’illecito amministrativo è un’autonoma figura giuridica, perfettamente connaturata all’esercizio del potere amministrativo, esercitato con regole proprie, arricchite da feconde contaminazioni provenienti dalle altre norme amministrative a struttura procedimentale. In omaggio a questa unitarietà di struttura e funzione, è parso cosa utile approntare un testo, per gli operatori pratici, che abbracciasse tutti gli aspetti della materia: dalle nozioni basilari, all’analisi delle fasi dell’accertamento e dei procedimenti di irrogazione delle sanzioni pecuniarie e accessorie, fino al contenzioso e al processo. Questa terza edizione dell’opera, che esce appunto in concomitanza con il quarantesimo compleanno della legge 689, è stata interamente revisionata, aggiornata con le novità normative e giurisprudenziali, nonché arricchita con nuovi commenti e analisi, in modo da far cogliere appieno ai lettori la dinamica evolutiva degli istituti che disciplinano forme e modi della punizione amministrativa.   Giuseppe NapolitanoAvvocato, Dirigente comunale, è Dottore di ricerca in Diritto amministrativo e specializzato nella stessa materia nonché in Scienze dell’amministrazione. Autore di numerose pubblicazioni scientifiche, collabora con svariate agenzie per la formazione in ambito universitario e tecnico-professionale.

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Il rapporto tra sanzione accessoria e sanzione principale

La problematica, in particolare, vale per le sanzioni di natura diversa da quelle pecuniarie, sia che le si possa qualificare come “accessorie” ad altre, di regola esse sì consistenti nel pagamento di una somma di danaro; sia che si aggiungano, in via autonoma o accessoria a vere e proprie pene.

La l. n. 689/1981 si occupa delle cd. sanzioni “accessorie” diverse dalla confisca all’art. 20, prevedendone la possibile applicazione da parte dell’autorità amministrativa competente qualora esse già conseguissero al reato soggetto a depenalizzazione ad opera della medesima legge. Anche in questo caso, dunque, il dato letterale è legato al contesto di generalizzata decriminalizzazione di precedenti illeciti operata dalla normativa sulla base della tipologia di pena per gli stessi prevista. Sotto tale profilo, quindi, solo nel caso in cui un reato, divenuto illecito amministrativo, già prevedesse l’applicazione, in via accessoria, di sanzioni consistenti nella privazione o sospensione di diritti e facoltà derivanti da provvedimenti dell’amministrazione, esse possono facoltativamente essere applicate dall’amministrazione con l’ordinanza ingiunzione che commina anche la sanzione amministrativa pecuniaria.

La lacunosità del riferimento letterale spiega dunque il tentativo di parte della dottrina di sottrarre dall’ambito sanzionatorio le misure consistenti nella privazione o nella sospensione di diritti e facoltà che non siano accessorie rispetto ad un illecito amministrativo da depenalizzazione, individuandone la ratio nella protezione e realizzazione diretta degli interessi dell’Amministrazione in quanto permetterebbero l’ “interdizione” di un soggetto o di una sua attività in ragione della ritenuta inidoneità a soddisfarli, avuto riguardo alla condotta preventivamente tenuta.

Il Consiglio di Stato, sezione II, 4 giugno 2020, n. 3548 chiarisce il rapporto tra sanzione accessoria e sanzione principale, chiarendo che la sanzione accessoria, in quanto si aggiunge ad altra cd. “principale”, abbia essa natura penale o amministrativa, di regola ne segue le sorti; pertanto l’estinzione del procedimento che riguarda la prima, in assenza di esplicite indicazioni di senso opposto da parte del legislatore, incide anche sulla seconda; quanto detto non accade ove il concetto di “accessorietà” sia solo sinonimo di “aggiunta”, non di “correlazione strumentale”; ciò per scongiurare l’ipotetica violazione del principio del ne bis in idem, che vieta di assoggettare la medesima condotta ad un tempo ad una sanzione penale e ad una sanzione amministrativa: l’esistenza di un autonomo disvalore della medesima condotta in ragione della diversa angolazione dalla quale essa viene riguardata (ad esempio enfatizzando l’utilizzo strumentale dell’attività commerciale svolta), può imporre l’integrale valutazione giuridica del fatto anche sotto il profilo della conseguente punizione

I criteri Engel e la prospettiva sostanzialistica

La Corte europea dei diritti dell’uomo, Plenaria 8 giugno 1976, caso 5100/71 Engel and Others v. th Netherlands ha elaborato i criteri per qualificare i provvedimenti come penali “Se agli Stati contraenti fosse concesso di classificare a loro discrezione un illecito come disciplinare invece che penale, o di perseguire l’autore di un illecito di carattere misto sul piano disciplinare invece che penale, l’applicabilità di disposizioni fondamentali quali gli artt. 6 e 7 risulterebbe subordinata alla loro volontà sovrana. Una tale ampia possibilità di scelta risulterebbe incompatibile con gli obiettivi e il contenuto della Convenzione. La Corte dunque, ai sensi degli artt. 6 nonché 17 e 18, ha competenza a stabilire da sé se la materia disciplinare non invada in realtà la sfera del penale. In breve, l’autonomia del concetto di penale opera a senso unico […] In tale prospettiva, occorre anzitutto sapere se le previsioni che definiscono l’illecito in questione appartengono, secondo il sistema legale dello Stato resistente, alla sfera del diritto penale, disciplinare o entrambi assieme. Ciò, tuttavia, non rappresenta che un punto di partenza. Le indicazioni così fornite hanno solo un valore formale e relativo e vanno esaminate alla luce di un comune denominatore ricavabile dalle legislazioni dei vari stati contraenti. La natura intrinseca dell’illecito è un fattore di maggior importanza. Quando un militare si ritrova accusato di un atto o di un’omissione che in tesi violano le regole che governano l’attività delle forze armate, lo Stato può in linea di principio impiegare contro di lui il diritto disciplinare invece che quello penale. Sotto questo profilo, la Corte concorda con il Governo. Tuttavia, il sindacato della Corte non si ferma qui. Tale sindacato risulterebbe in linea generale illusorio se non prendesse anche in considerazione il livello di severità della sanzioneche l’accusato rischia di subire. In una società conformata al principio di legalità, appartengono alla sfera del diritto penale tutte le privazioni della libertà che siano applicate quali sanzioni, con l’eccezione di quelle che per natura, durata o modalità di esecuzione non siano significativamente afflittive[…]”. 

Pertanto, non è il solo valore formale, ed in un certo senso “il nome del provvedimento” o l’etichetta nazionale a definire l’illecito, bensì la natura del provvedimento, ovvero lo scopo deterrente della sanzione applicate e la severità della sanzione.

Il principio di legalità in materia di sanzioni amministrative

L’articolo 7 CEDU disciplina il principio di legalità in materia penale. Con il caso Scoppola del 2009, le garanzie di legalità dell’articolo 7 CEDU sono state intese non solo come principio di non retroattività della legge penale più severa, ma anche come applicazione della pena più sfavorevole al reo.

La Corte europea dei diritti dell’uomo, Scoppola c. Italia, 17 settembre 2009 ha affermato l’obbligo di retroattività in bonam partem “Agli occhi della Corte, è coerente con il principio della preminenza del diritto, di cui l’articolo 7 costituisce un elemento essenziale, aspettarsi che il giudice di merito applichi ad ogni atto punibile la pena che il legislatore ritiene proporzionata. Infliggere una pena più severa solo perché essa era prevista al momento della perpetrazione del reato si tradurrebbe in una applicazione a svantaggio dell’imputato delle norme che regolano la successione delle leggi penali nel tempo. Ciò equivarrebbe inoltre a ignorare i cambiamenti legislativi favorevoli all’imputato intervenuti prima della sentenza e continuare a infliggere pene che lo Stato e la collettività che esso rap- presenta considerano ormai eccessive. La Corte osserva che l’obbligo di applicare, tra molte leggi penali, quella le cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato, si traduce in una chiarificazione delle norme in materia di successione delle leggi penali, il che soddisfa a un altro elemento fondamentale dell’articolo 7, ossia quello della prevedibilità delle sanzioni”.

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Dott.ssa Laura Facondini

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