La disciplina codicistica della rescissione

Sgueo Gianluca 27/12/07
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1. Il principio dell’equilibrio contrattuale – 2.1 Gli elementi della fattispecie. Lo stato di pericolo o di necessità – 2.2 La conoscenza della controparte e l’abuso dello stato di bisogno altrui – 2.3 La sussistenza di condizioni inique a carico del contraente necessitato – 3. La riduzione ad equità – 4. Prescrizione dell’azione di rescissione – 5. Conclusioni
 
1. Il principio dell’equilibrio contrattuale
Uno degli aspetti fondamentali, la cui comprensione è essenziale per capire quale sia lo spirito della rescissione e quale sia lo scopo del legislatore nel disciplinarla, è la necessità che permanga inalterato, a seguito della conclusione di un contratto, l’equilibrio tra le prestazioni.
Le riflessioni sull’euilibrio contrattuale, a loro volta, impongo di ragionare anche sul tema dell’autonomia contrattuale, poiché si tratta di due concetti tra loro complementari, per quanto opposti: l’equilibrio contrattuale limiti la libertà delle parti a contrarre, che tuttavia contribuiscono, nell’attività stessa di contrattazione, a raggiungere l’equilibrio tra le reciproche prestazioni[1].
Ebbene, ai sensi dell’art. 1322 del codice civile, secondo il quale: “le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge”, si evince il principio dell’autonomia contrattuale.
Inoltre, tale autonomia si ricava dalla lettura del principio predisposto dall’art. 1372 del codice civile, secondo il quale il contratto ha forza di legge tra le parti.
A fronte di queste affermazioni di principio del codice, sembrerebbe possibile dire che la volontà delle parti sia assoluta nella conclusione di un negozio. Non è così[2]. Il codice predispone al contempo un controllo di meritevolezza sulla libertà delle parti, affinchè questa non si tramuti in arbitrio ed affinchè i valori delle parti possano risultare meritevoli di tutela, ovvero rispondenti ad una finalità apprezzabile da parte dell’ordinamento giuridico e, quindi, socialmente utile. Dunque, i limiti che incontra la libertà negoziale possono essere spiegati alla luce dell’esigenza di tutelare interessi particolarmente meritevoli, ad esempio quello del contraente debole[3].
Date queste condizioni, ed avendo presente il fatto che il giudice non può sindacare l’equivalenza delle prestazioni in ogni caso perché altrimenti si negherebbe del tutto l’autonomia negoziale delle parti, il codice prevede gli strumenti della rescissione e della risoluzione per eccessiva onerosità. La prima, in particolare, testimonia come le pati siano libere di porre in essere un contratto con prestazioni sproporzionate economicmente purchè ciò non discenda dall’esistenza di una situazione di pericolo o di bisogno nota all’altra parte che, pertanto, ne intenda approfittare.
Per concludere, non si deve trascurare l’importanza di questo binomio tra i due opposti estremi: equilibrio del negozio ed autonoma volontà delle parti. Come dimostrano le pagine seguenti, infatti, la rescissione e la sua applicazione “giocano” proprio sulla convergenza tra simili elementi, cercando di raggiungere il primo, ma preservando la seconda.
 
2.1 Gli elementi della fattispecie. Lo stato di pericolo o di necessità
Dalla lettura del primo comma dell’art. 1448, che recita: “Se vi è sproporzione tra la prestazione di una parte e quella dell’altra, e la sproporzione è dipesa dallo stato di bisogno di una parte, del quale l’altra ha approfittato per trarne vantaggio”, è agevole desumere che vi sono tre elementi che caratterizzano la fattispecie della rescissione per lesione: lo stato di bisogno di un contraente, l’abuso dell’altro (il cd. approfittamento), e la sproporzione tra le prestazioni dedotte nel contratto.
La dottrina, nello sforzo di offrire all’istituto una sistemazione dogmatica adeguata, ha talora optato per soluzioni “monistiche”, vale a dire che ha attribuito preminenza ad uno solo dei tre elementi, a discapito degli altri due. Così, evidenziando lo stato di bisogno, si è parlato di vizio del volere o del consenso; oppure, evidenziando l’approfittamento, si è parlato di sanzione di un comportamento illecito; infine, ponendo in luce la sproporzione tra le prestazioni, alcuni hanno parlato di vizio della causa del contratto[4].
Esistono allora più forme di rescissione? Non esattamente. Si può dire piuttosto che la rescissione è un istituo complesso che abbraccia ipotesi tra loro diverse, in ragione della presenza preponderante di uno dei tre elementi che la qualificano. Ciò non toglie tuttavia che gli altri elementi, benchè minoritari, debbano comunque essere presenti.
La prima condizione prevista dal codice è dunque la presenza di uno stato di bisogno in capo al soggeto leso. La nozione di stato di bisogno comunemente accolta dalla giurisprudenza è molto ampia[5]. Lo stato di bisogno, infatti, non coincide necessariamnte con l’assoluta indigenza, con la totale incapacità patrimoniale, con la nullatenenza o anche con uno stato di povertà. Può invece essere riscontrato anche nella semplice difficoltà economica, o in una carenza di liquidità contingente, dovute alle cause più disparate[6]. Il tutto in conformità all’impostazione patrimonialistica che anima il codice civile del 1942, secondo cui i bisogno individuali sono generalmente soddisfatti con mezzi di natura economica.
Ciò che, semmai, è necessario è l’esistenza di un rapporto di causa ed effetto tra lo stato di bisogno e la determinazione a contrarre. Ovvero, in altre parole, è necessario che la parte “debole”, appunto in ragione delle condizioni economiche negative nelle quali si trovava, abbia deciso di contrarre a condizioni particolarmente svantaggiose[7].
Ovviamente, poi, va chiarito che è irrilevante non solo il bisogno di denaro (che tuttavia resta l’ipotesi più comune), ma anche qualsiasi altro bene o servizio. Questo vale ad escluderela coincidenza dello stato di bisogno con una qualsiasi posizione debitoria, ed anzi ne estende la portata ad una serie di ipotesi tra le più svariate: ad esempio, per minaccia di confisca, timore che venganopprovate leggi limitative, o, anche, per esigenze di indole morale. L’importante è che queste esigenze, di qualunque natura siano, abbiano sempre e comunque riflessi di natura patrimoniale, nel senso che, per soddisfarle, si utilizzino mezzi economici, che possono essere procurati solamente mediante un contratto a prestazioni corrispettive.
Sempre a proposito dello stato di bisogno, va chiarito che, anzitutto, non può essere considerato tale uno stato meramente psicologico, ma deve essere una condizione oggettiva. Dunque, non rileva il cd. “stato di bisogno putativo”[8].
Inoltre, lo stato di bisogno oltre che effettivo deve essere anche attuale. Ciò significa che deve sussistere nel momento in cui è stipulato il contratto e non sopravvenire successivamente (nel qual caso sarà applicabile un rimedio diverso) o essersi già estinto (nel qual caso non troverà applicazione la rescissione)[9].
Infine, lo stato di bisogno può riguardare sia il contraente sia, anche, una persona diversa, purchè legata agli interessi del contraente[10]. Il codice in effetti parla di “parte contraente”, dunque offre una definizione piuttosto ristretta. Ecco perché la giurisprudenza ha ammesso la possibilità che sia in condizioni di bisogno una persona diversa dal contraente, ma ha anche specificato che deve trattarsi di uno stretto congiunto, o comunque di una persona che abbia un legame molto stretto con esso[11].
 
3.2 La conoscenza della controparte e l’abuso dello stato di bisogno altrui
L’art. 1448, al primo comma, richiede che il contraente abbia approfittato dello stato di bisogno della controparte per trarne vantaggio. Cominciamo col dire che il termine “approfittare” ha una molteplicità di significati: tale può essere la conoscenza delle condizioni economiche della controparte, oppure la volontà di trarre un vantaggio particolare per sé stessi, oppure, anche, può dipendere dalla volontà di precludere all’altra parte la possibilità di un ricavo.
La giurisprudenza e la dottrina prevalente escludono che l’approfittamento si debba necessariamente concretare in un comportamento attivo. Ciò significa che l’approfittamento può ravvisarsi anche qualora manchi un’operosità della controparte finalizzata a trarre vantaggio dallo stato di necessità altrui[12]. Ciò tuttavia lascia aperta la questione su cosa debba considerarsi un comportamento profittatorio. Se seguiamo la lettera della legge, verifichiamo immediatamente che l’intenzione di questa nn è quella di colpire la mera accettazione di una proposta di contratto avanzata da chi versa in stato di bisogno, ad esclusione del caso previsto dall’art. 1447 del codice civile: il grave pericolo di danno grave alla persona. Piuttosto, appare chiaro che la rescissione è stata pensata in modo più ampio e che quindi un qualche comportamento positivo vi deve pure essere nel soggetto perché egli diventi un profittatore e perché il negozio possa essere copito con la rescissione. Possiamo allora escludere che un comportamento completamente passivo integri gli estremi dell’approfittamento.
Tuttavia, non ogni mancanza di azione diretta può dirsi che sia una foma di comportamento passivo, e dunque può escludere il ricorso alla rescissione. Ad esempio, accettare l’offerta del soggetto in stato di bisogno, quando c’è la consapevolezza dell’utile a proprio vantaggio e dello svantaggio per la controparte, è una forma di comportamento attivo[13]. Ecco dunque che, in senso definitivo, per scoprire se c’è stato o meno un approfittamento, si deve indagare sulle intenzioni del soggetto, prescindendo dal fatto che questo abbia compiuto atti specifici o piuttosto si sia esentato dal porli in essere. Quello che conta è, in altre parole, l’intento della parte che ha tratto vantaggio dal negozio.
Diversa, e molto più complessa, è la questione relativa al rapporto tra l’approfittamento e la conoscenza dello stato di bisogno altrui, che sono due condizioni ben distinte tra loro. Vi sono, in merito, due tesi principali: alcuni sostengono che basti la conoscenza dello stato di bisogno, senza necessità di ulteriori attività da parte del soggetto. Il semplice fatto che il contraente conosca le difficoltà della controparte, infatti, potrebbe essere un incentivo ad approfittarne[14]. Altri, invece, ritengono che la conoscenza sia solamente prodromica all’azione della parte, che deve dimostrare di volerne approfittare.
Va detto comunque che la giurisprudenza prevalente accoglie la prima delle due tesi e ritiene che la semplice conoscenza del bisogno integri gli estremi dell’abuso, come accade nel reato di usura. Infatti, si spiega, se per il limitato settore del contratto d’opera concluso in stato di pericolo la legge stabilisce essere irrilevante la mera conoscenza del pericolo in cui versa l’altro contraente, invece, per la generalità dei casi di rescissione, essa deve necessariamente chiedere qualcosa di diverso, e precisamente che il contraentre abbia approfittato dello stato di bisogno altrui per trarne vantaggio[15].
 
2.3 La sussistenza di condizioni inique a carico del contraente necessitato
Il terzo ed ultimo requisito della rescissione per lesione è costituito dalla sproporzione tra la prestazione di una parte e quella dell’altra. Infatti, ai sensi dell’art. 1448 del codice civile, al secondo comma: “L’azione non è ammissibile se la lesione non eccede la metà del valore che la prestazione eseguita o promesa dalla parte danneggiata aveva al tempo del contratto”.
Pertanto, entrambe le prestazioni vanno stimate con riferimento al momento della conclusione del contratto ed ovviamente deve aversi riguardo al valore che la cosa aveva all’epoca del contratto e non successivamente[16].
È pacifico in giurisprudenza che la determinazione del valore delle prestazioni, ed in particolare della scelta del metodo di stima, implicano indagini di fatto rimesse al prudente apprezzamento del giudice di merito, e sono pertanto insindacabili in sede di legittimità, ove sorrette da congrua motivazione. Al giudice di merito è attribuito il potere di determinare il valore sulla base del criterio tecnico appropriato alle concrete circostanze di fatto[17].
Va rilevato, in conclusione, che non tutti gli autori sono d’accordo sul fatto che la rescissione sia uno strumento per ottenere il riequilibrio del contratto. Tali autori sostengono che se il legislatore avesse voluto questo risultato sarebbe stato altamente illogico riservare alla sola controparte il potere di operare la riduzione ad equità. La distruzione dello scambio, infatti, può non essere l’ideale per il contraente bisognoso che si trovi privato anche delle già scarse utilità ricavate dal contratto. Il suo interesse, si finisce per concludere, sarebbe forse meglio raggiunto forzando il contratto a raggiungere lo scopo cui è predestinato, per assicurare alla parte lesa almeno un vantaggio minimo[18].
 
3. La riduzione ad equità
L’offerta della riduzione ad equità è lo strumento che consente, nei contratti risolubili e rescindibili, di porre un rimedio all’eliminazione del vincolo negoziale, o alla ricostituzione di un vincolo nuovo. Esso, piuttosto, agisce attraverso una rinegoziazione delle condizioni contrattuali originarie, ponendole in equilibrio[19].
Se ben si ricorda, nel parlare dell’attuale disciplina della rescissione, si è sottolineato come essa sia il frutto delle diverse correnti interpretative che si sono sviluppate nei periodi precedenti. Ebbene, a tale proposito, il primo aspetto da sottolineare è proprio questo: la reductio ad aequitatem è l’aspetto che più di ogni altro risente di queste molteplici influenze[20].
Basta pensare che, già nel diritto romano, la lex secunda[21] prevedeva un meccanismo similare che si basava su quattro principi: la possibilità di porre nel nulla la compravendita della cosa; il fondamento equitativo dell’istituto, applicabile però per mezzo di azione giudiziaria; la possibilità di mantenere inalterato il contratto, purchè il compratore versasse il supplemento del prezzo; oppure, infine, la circostanza per cui l’istituto si applica nel solo caso in cui il prezo versato dal compratore sia inferiore alla metà del valore della cosa venduta.
Successivamente, sul meccanismo della reductio esercitarono le loro influenze diverse teorie, giuridiche e non. A partire dalle teorie cristiane, per arrivare a quelle giusnaturalistiche[22], fino al Codice napoleonico[23].
Nell’attuale sistema codicistico, ed in ragione dell’applicazione fattane dalla giurisprudenza, si può dire che l’offerta di riduzione ad equità risponde ad un’esigenza pratica: restituire certezza ai rapporti contrattuali, nei quali le programmazioni dei contraenti, nonché l’assetto degli interessi, voluto al momento della costituzione del contratto, vengono colpiti da fenomeni patologici. La sopravenienza di fenomeni esterni, infatti, può spezzare, indipendentemente e contro la volontà delle parti, l’equilibrio sinallagmatico. Da qui la possibilità offerta loro dal legislatore, impedendo che l’unico effetto a realizzarsi sia quello della eliminazione del vincolo.
L’istituo è dunque disciplinato in due disposizioni: nell’art. 1450 del codice civile, che titola “offerta di modificazione dle contratto”, e fa ovviamente parte della disciplina sulla rescissione, prevista, come si è visto, nel Libro IV, titolo II, capitolo III del codice; nell’art. 1467, comma terzo, del codice civile, che titola “contratto con prestazioni corrispettive”, ed è parte della disciplina inerente la risoluzione per eccessiva onerosità[24].
 
Con essi il legislatore ha inteso dare, tramite il richiamo all’equità, un indirizzo per l’applicazione di regole di conformità e di adeguamento a criteri economici per la valutazione e soluzione dei problemi rappresentati dalle variazioni dei costi, dei valori negli scambi e della moneta nel periodo intercorrente tra la conclusione e l’esecuzione del contratto, sia pure limitatamente al verificarsi di eventi straordinari ed imprevedibili (come dispone l’art. 1467), o alla particolare posizione di svantaggio cui viene a trovarsi una parte, traendone vantaggio l’altra (ar. 1450).
In tali circostanze l’ordinamento richiede che la parte avvantaggiata, al fine di mantenere in vita il rapporto, si offra di modificare il regolamento contrattuale alterato e di ricondurlo nei giusti termini equitativi, creando un rapporto che implica necessariamente l’assunzione di nuove e più onerose condizioni da parte dell’offerente.
 
4. Prescrizione dell’azione di rescissione
Resta da trattare, per ultimo, il tema della prescrizione dell’azione di rescissione, tenendo presente che la disciplina che la riguarda può subire variazioni in ragione dell’ambito di applicazione che la riguarda.
Ai sensi dell’art. 1449, comma 1, l’azione di rescissione si prescrive entro un anno dalla data di conclusione del contratto, anche in ipotesi di compravendita con patto di riscatto, di cosa futura e di beni immobili per scrittura privata autenticata[25].
Peraltro, la disposizione appena citata deve essere coordinata con la regola generale che fa decorrere il termine di prescrizione solo dal momento in cui il diritto può essere fatto valere e non è applicabile, quindi, a contratti sottoposti a condizione sospensiva, per i quali il termine annuale di prescrizione dell’azione di rescissione può farsi decorrere solo dalla data in cui si è verficato l’evento dal quale dipendono gli effetti del contratto[26].
Parimenti, nell’ipotesi in cui il prezzo della vendita non sia determinato al momento della conclusione del contratto, ma risulti determinabile in un momento successivo, il termine di prescrizione dell’azione di rescissione per lesione inizia a decorrere non dal giorno della conclusione del contratto, ma dal momento successivo in cui il prezzo sia stato determinato, giacchè solo da tale momento il pregiudizio patrimoniale del soggetto danneggiato, che deriva dalla sproporzione delle prestazioni, diviene reale ed effettivo e sorge la possibilità giuridica di sperimentare l’azione[27].
Ovviamente, l’interruzione della prescrizione può aver luogo solamente a seguito di una domanda giudiziale, restando irrilevante la costituzione in mora della controparte[28].
Esistono due problemi significativi riguardanti la prescrizione.
Il primo nasce dalla lettura del primo comma dell’art. 1449 del codice civile il quale prevede che, se il fatto costituisce reato, si applica l’ultimo comma dell’art. 2947 del codice civile.
Il secondo problema riguarda la prescrizione dell’azione di rescissione nell’ipotesi in cui le parti si siano avvalse della sequenza contratto preliminare-contratto definitivo.
Secondo la giurisprudenza prevalente, in una simile ipotesi, sorgono due distinte azioni di rescissione, ciascuna con un proprio termine di prescrizione annuale, che decorre dal momento in cui sono state conclusi[29].
Ad ogni mofo, il ptomittente venditore, convenuto in giudizio per l’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere il contratto, può chiedere in via riconvenzionale la rescissione del preliminare per lesione, anche se dalla data di conclusione di questo sia già decorso il termine annuale di prescrizione, perché solo con l’azione giudiziale per l’esecuzione specifica sorge per il convenuto, in concreto, la lesione. È però improponibile l’azione di rescissione per lesione contro la sentenza che ha accolto la domanda di esecuzione specifica dell’obbligo di concludere il contratto.
Se la giurisprudenza ha dato conto di questi aspetti, c’è da dire che la dottrina ha discusso più lungamente. Esistono, in merito, due distinte posizioni[30]: secondo alcuni, l’azione di rescissione è proponibile soltanto nei confronti del contratto preliminare (dalla cui conclusione decorre il termine annuale di prescrizione). Nel caso di contratto stipulato in esecuzione del vincolo preliminare, invece, non ha luogo alcuno sfruttamento, perché la stipulazione è solo un adempimento di un vincolo precedente; di altra opinione sono coloro i quali ritengono che l’azione di rescissione è proponibile solo contro il contratto definitivo, oppure, sia contro il definitivo che contro il preliminare (come afferma la giurisprudenza).
Esistono però numerose pronunce in cui si sottolinea che l’elemento determinante ai fini della decisione del termine da cui far decorrere la prescrizione è la circostanza che il contratto definitivo introduca elementi innovativi rispetto a quelli contenuti nel contratto preliminare[31]. In caso contratio, infatti, ben si potrebbe stabilire che il termine di decorrenza è quello in cui è stato stipulato il contratto preliminare poiché, in effetti, il regolamento ivi contenuto è quello che le parti si sono limitate a confermare al momento di stipulare il contratto definitivo.
La questione resta problematica ed estremamente delicata. Benchè entrambe le posizioni abbiano ragioni valide su cui argomentarsi, e benchè il termine annuale possa apparire un termine congruo per riflettere sulla possibilità di rivolgersi ad un giudice, o piuttosto rinunciare all’azione, non bisogna dimenticare che, anzitutto, è frequente il fatto che tra preliminare e definitivo trascorra un margine di tempo considerevole. Inoltre, è anche vero che la parte danneggiata spesso non ha i mezzi economici, o non ha la consapevolezza, per ottenere la riduzione ad equità, rischiando di perdere l’unica possibilità di riportare in equilibrio le prestazioni.
 
5. Conclusioni
Giunti al termine di questa breve esposizione sulla rescissione possiamo individuare alcuni punti fermi.
Anzitutto, la rescissione, così come viene disciplinata nell’attuale sistema codicistico, è il risultato delle influenze del precedente codice civile, ma, anche, del lavoro giurisprudenziale e della interpretazione dottrinaria. Simili influenze sono estremamente importanti per comprendere i problemi che si sonoc reati intorno all’applicazione quotidiana dell’istituto.
In secondo luogo, bisogna tenere presente, in sede di discussione sulla rescissione, le differenze che sussistono tra il negozio invalido, ed il negozio che è semplicemente compromesso, poiché variano gli strumenti risolutivi e dunque non sempre risulta applicabile la rescissione (che è ovviamente più adatta per la prima tipologia di negozio).
Vanno considerati, in terzo luogo, sia il principio dell’equilibrio contrattuale, che è il fine ultimo cui tende la rescissione (e non solo, anche tutti gli altri strumenti predisposti dal codice al fine di preservare la buona esecuzione del negozio) sia il rimedio della riduzione ad equità, che bilancia gli effetti della rescissione e consente alle parti interessate a preservare un vincolo contrattuale di operare semplici modifiche al fine di ristabilire il sinallagma.
 
 


[1] Cfr. Marucci B., Equilibrio contrattuale: un principio nella continuità, in Rassegna di diritto civile, 2003, pag. 213: “Trattare di un tema come quello dell’equilibrio contrattuale impone di soffermarsi ache sul significato da attribuire alla nozione di autonomia contrattuale: i due termini potrebbero apparentemente sembrare in contrasto perché verrebbe da dire che laddove c’è autonomia c’è libertà di autodeterminarsi e, con essa, una libertà incondizionata di realizzare anche contrattazioni equilibrate”.
Vedi anche Gentili A., De iure belli: l’equilibrio del contratto nelle impugnazioni, in Rivista di diritto civile, 2004, II, pag. 29: “Il diritto presuppone il conflitto. Certe affermazioni sulla naturale moderazione dei contraenti, scambiando il desiderio per la realtà diffondono illusione. Alla guerra tra le parti però possono essere imposte delle regole, e tanto meglio se l’adesione risulta spontanea”.
[2] V. Marucci B., Equilibrio contrattuale: un principio nella continuità, in Rassegna di diritto civile, 2003, pag. 215: “Opportunamente la dottrina più recente è ritonta sul tema affermando che la libertà non è tale soltanto quando è arbitratia, indiscriminata e senza limiti. La libertà, in un ordinamento sociale e solidaristico, deve essere regolata, conformata ai valori di fondo ai quali l’ordinamento si ispira”.
[3] Va detto peraltro che questa circostanza è retaggio degli ordinamenti moderni, in cui, soprattutto a seguito della spinta dell’ordinamento comunitario, si sono poste le premesse per garantre una migliore tutela di interessi che precedentemente non trovavano accoglimento nell’ordinamento. Quello del consumatore è il più classico degli esempi.
[4] Cfr. Minervini E., La rescisione del contratto, in Rassegna di diritto civile, 1997, II, pag. 765: “Evidenti sono le difficoltà degli autori che sono chiamati a delinere in poche battute un istituto così complesso e problematico. (…) non va però prestato osequio alle scelte del legislatore, che ha anteposto la rescissione per stato di pericolo alla rescissione per lesione”.
[5] V. Corsaro L., Rescissione, in Digesto delle discipline privatistiche. Sezione civile, Torino, 1993, pag. 635: “In che cosa consista lo stato di bisogno, che sta alla base della rescissione, è da sempre oggetto di controversia. Di questo concetto si è lamentata a suo tempo l’eccessiva genericità, così come pure si è evidenziata successivamente la sua ristrettezza, inteso esso nel significato tradizionale di bisogno economico, menno in dubbio, talvolta, anche da qualche pronuncia della giurisprudenza”.
[6] Per un esame approfondito della giurisprudenza si veda in particolare Minervini E., La rescisione del contratto, in Rassegna di diritto civile, 1997, II, pagg. 768 ss.
Tra i vari casi in cui si è invece esclusa la presenza di uno stato di bisogno vi sono, ad esempio, quello inerente la vendita di beni per far fronte ad un matrimonio imminente, oppure di un cambiamento di residenza, o, ancora, per assicurare ad un figlio un trattamento successorio preferenziale rispetto a altri. Stesso dicasi per un bene che non è possibile amministrare in modo convenziente, ad esempio a causa della distanza, o della vendita di un bene fruttfero per realizzare la liquidità.
[7] V. Minervini E., La rescisione del contratto, in Rassegna di diritto civile, 1997, II, pag. 768: “Occorre che lo stato di bisogno abbia obnibulato il consenso della vittima, spogliandola della piena libertà di decidere”.
[8] Così, ad esempio, Marini E., La rescisione nel diritto vigente, in Enciclopedia del diritto, 2000, pagg. 974 ss.
[9] V. Minervini E., La rescisione del contratto, in Rassegna di diritto civile, 1997, II, pag. 771: “Non potrebbe parlarsi di stato di bisogno qualora taluno acquistasse medicinali non facilmente reperibili in commercio, o di cui temesse l’esaurimento delle scorte, in previsione di un loro futuro ipotetico uso”.
[10] V. Corsaro L., Rescissione, in Digesto delle discipline privatistiche. Sezione civile, Torino, 1993, pag. 636: “E così, pure, non è rilevante distinguere fra bisogno della persona, dell’ente e del rappresentante: l’importante è che ci sia il bisogno quale necessità di evitare un danno. E, per altro verso, non ha senso affannarsi a discutere se il bisogno di un qualsiasi bene altrui, capace di salvare la persona da un danno, sia fattispecie inquadrabile nel pericolo di cui all’art. 1447 o nel bisogno di cui all’art. 1448: poiché se per la legge la disciplina del pericolo vale solo per l’opera di salvataggio altrui e non per altro tipo di prestazione di cui si abbisogni, ogni altra necessità cade sotto la disciplina generale del bisogno dell’art. 1448”.
[11] Fa ovviamente caso a parte quello del contratto concluso dal rappresentante. Inquesto caso è ovvio che chi conclude il contratto, il rappresentante appunto, non versa affatto in condizioni di necessità. Tuttavia, poiché il rappresentante può agire anche in nome proprio, ma sempre e solamente nell’interesse altrui, è sufficiente che lo stato di necessità riguardi il soggetto interessato. Se poi il rappresentante concluda un contratto nel suo interesse (abusando del potere concesso) e questo contratto di rivela sproporzionato, allora egli non potrà invocare lo stato di bisogno per rescindere il legame.
[12] Non mancano tuttavia voci dissenzienti, le quali ritengono che sia necessaria comunque una spinta, almeno psicologica, della controparte, che riveli l’intenzione di trarre un vantaggio concreto della conclusione del contratto. Ad esempio, Corsaro L., Rescissione, in Digesto delle discipline privatistiche. Sezione civile, Torino, 1993, pag. 637: “Ciò che è fondamentale è che il bisogno sia determinante del consenso”.
[13] In merito, Corsaro L., Rescissione, in Digesto delle discipline privatistiche. Sezione civile, Torino, 1993, pagg. 639 ss.
[14] In tal caso, rileva Minervini E., La rescisione del contratto, in Rassegna di diritto civile, 1997, II, pagg. 774 ss., l’elemento volitivo o intenzionale risulta svilito perché è sufficiente che sussista la conoscenza dello stato di bisogno quale condizione psicologica per contrarre. L’autore chiarisce però anche che: “non basta la mera consapevolezza dello stato di bisogno, ma occorre anche la consapevolezza di trarre dalla stipulazione del contratto una immoderata utilità economica, e cioè la conoscenza dell’abuso”.
[15] Cfr. Corsaro L., Rescissione, in Digesto delle discipline privatistiche. Sezione civile, Torino, 1993, pag. 639: “A favore di questa interpretazione, oltre alla lettera della legge, e ciò è ancora più importante, vi è la tradizione, e in particolare l’origine stessa dell’attuale disciplina che è nata, come la storia dimostra, per combattere e colpire l’attività di sfruttamento del bisogno altrui. E nello stesso senso è, inoltre, la stessa norma penale dell’usura, che è volta a colpire la prava volontà di nuocere e di cui la rescissione, nell’intenzione dei compilatori, costituiva la corrispondente generae sanzione nel campo civile”.
[16] Ciò, tenendo conto dei prezzi correnti e mediamente ottenibili in una normale contrattazione, nonché delle circostanze che possono incidere sulla definizione del prezzo di un bene. Ad esempio, l’ubicazione della cosa alienata, la capacità di questa ad essere alienata o industrializzata o la capacità a divenire produttiva. Tenendo conto, infine, delle prestazioni accessorie, come ad esempio le spese notarili sostenute dal compratore.
[17] Aggiunge, peraltro, Gentili A., De iure belli: l’equilibrio del contratto nelle impugnazioni, in Rivista di diritto civile, 2004, II, pag. 36: “Lo squilibrio delle prestazioni costituisce sicuro ed esplicito fondamento della rescissione del contratto. MA nel dir questo non si intende dire altro se non che esso è posto fra le condizioni inderogabilmente richieste dalla norma per l’azione. È invece altamente controverso se esso costituisca fondamento della rescissione anche nel senso politico giuridico: se cioè nel concorso di elementi soggettivi (stato di bisogno, stato di pericolo) e oggettivi (condizioni inique, lesione enorme) il legislatore abbia disposto la rescissione per rimediare lo squilibrio, ma l’abbia limitata ai casi in cui uno stato di debolezza che lo qualifica, ovvero abbia tutelato un contraente debole, ma nelle sole ipotesi in cui il pregiudizio da lui subito appaia grave”.
[18] Secondo l’opinione di Gentili A., De iure belli: l’equilibrio del contratto nelle impugnazioni, in Rivista di diritto civile, 2004, II, pag. 36: “Tutto ciò dimostra come la rescissione sostanzialmente non abbia efftti veri sull’equilibrio contrattuale, posto che chi può chiederla non può per tal via ripristinarlo e chi può ripristinarlo (in favore della controparte) non è la parte protetta. Non stupisce perciò che l’istituto sia tradizionalmente indicato come massima riprova della inammissibilità di un sindacato giudiziale sullo scambio”.
[19] Cfr. Corsaro L., Rescissione, in Digesto delle discipline privatistiche. Sezione civile, Torino, 1993, pag. 643: “L’istituto della rescissione trova il suo epilogo nella riduzione ad equità del contratto che il profittatore, secondo l’art. 1450, può offire allo sfruttato ed impedire, così, la rescissione, se il giudice ritenga equa l’offerta da lui fatta”
[20] Lo nota, tra gli altri, Tarone L., Appunti sul rimedio della reductio ad aequitatem, in Giurisprudenza di merito, Milano, II, pag. 198: “L’offerta di riduzione ad equità nei contratti risolubili e rescindibili è un istituto che risente, nell’ambito della ricostruzione storica, delle contraddizioni che hanno caratterizzato, nelle varie epoche, gli atteggiamenti tenuti dai legislatori e dagli interpreti a fronte di questi fenomeni di dissoluzione del contratto”.
[21] Che prende il nome dalla rubrica che ha ricevuto nel codice giustinianeo e che risulta riconducibile, seppure con alcuni dubbi, ad un rescritto degli imperatori Dioclezioni e Massimino del 185 D.C.
[22] V. Tarone L., Appunti sul rimedio della reductio ad aequitatem, in Giurisprudenza di merito, Milano, II, pagg. 198 ss.
[23] Che ebbe due meriti: quello di reintrodurre l’istituto, che era stato soppresso durante la rivoluzione francese a causa della svalutazione, che ne impediva l’operatività, e quello di influenzare la legislazione italiana, anche attraverso il progetto italo-francese del codice delle obbligazioni e dei contratti, di cui s’è detto già nelle pagine precedenti.
[24] Nota Tarone L., Appunti sul rimedio della reductio ad aequitatem, in Giurisprudenza di merito, Milano, II, pag. 201: “Bene accolta fu la disciplina di cui all’art. 1467 c.c., in quanto con essa si diede positivo accoglimento alla clausola rebus sic stantibus, che pur si era cercato da taluni di enucleare nel sistema del codice civile del 1865, il quale ne conteneva solo alcune specifiche applicazioni; non lo stesso si può dire a proposito dell’azione generale di rescissione per lesione, alla cui profonda innovativa nulla toglieva l0’essere essa risultante dalla generalizzazione dell’azione di rescissione prevista per la sola vendita immobiliare dall’art. 1529 c.c. del 1865”:
[25] La giurisprudenza ha chiarito che si tratta di un termine di prescrizione, e non di decadenza, e si è soffermata su ciascuna di queste figure, contribuendo ad arricchire lo spettro di ipotesi entro le quali essa si applica.
[26] Si veda, ad esempio, Corte di Cassazione, 30 maggio 1995, n. 6050
[27] La giurisprudenza, in merito, è molto nutrita. Valga, su tutte, Corte di Cassazione, 4 gennaio 1993, n. 10
[28] Si discute semmai se ha efficacia interruttiva il riconoscimento del diritto da parte del profittatore.
[29] Secondo Corte di Cassazione, 22 novembre 1978, n. 5458, ad esempio, simile conclusone si giustificherebbe in ragione del fatto che le condizioni per proprorre l’azione di rescissione sussistenti fin dalla stipulazione del prelimnare non escludono che le stesse possano permanere ed abbiano autonoma rilevanza nel momento della conclusione del contratto definitivo. Inoltre perché l’abuso dello stato di bisogno e la lesione si consumano ulteriormente in tale momento, in quanto solo con il negozio definitivo la parte danneggiata esegue una prestazione posta a suo carico.
Ne parla anche Corsaro L., Rescissione, in Digesto delle discipline privatistiche. Sezione civile, Torino, 1993, pag. 630:
[30] Ne da conto in maniera approfondita Maresca G., Ancora in tema di prescrizione dell’azione di rescissione per lesione, in Diritto e giurisprudenza, 1972, XXVIII, pag. 55: “…quell’indirizzo giurisprudenziale, che può ritenersi prevalente, per il quale dalla conclusione del contratto definitivo decorre il termine annuale di prescrizione dell’azione generale di rescissione per lesione ultra dimidium”.
[31] V. Corsaro L., Rescissione, in Digesto delle discipline privatistiche. Sezione civile, Torino, 1993, pag. 630: “Per la verità, sulla soluzione adottata dalla Corte di appello molto ha influito il rilievo che il contratto definitivo aveva innovato rispetto al contratto preparatorio, da perdere con quest’ultimo ogni collegamento. Altrimenti, continua il ragionamento della corte, se lo squilibrio tra le prestazioni si è già verificato con le pattuizoni contenute nel contratto preliminare, non vi è nessuna ragione plausibile per far decorrere la prescrizione dell’azione relativa dal contratto definitivo e non anche dal preliminare”:

Sgueo Gianluca

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