La custodia cautelare presofferta pesa sulla eventuale regressione del procedimento

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            Spesso succede che un processo, a causa di un provvedimento di annullamento o per altre cause, retroceda a un grado o a una fase antecedente.
            Nei casi in cui sia in corso una misura cautelare si è posto il problema di limitare la durata del procedimento medesimo, atteso che l’impianto procedimentale trova proprio fondamento nella correlazione tra termini massimi della custodia e sviluppo delle fasi processuali.
            Secondo il dettato legislativo dell’art.303 c.p.p., è stato infatti previsto che a far tempo dalla data della decisione che comporta la regressione del procedimento, “decorrano di nuovo i termini” tipici della fase in cui il procedimento è regredito.
            La Consulta peraltro, è stata chiamata a risolvere la controversa questione relativa alla rilevanza della custodia cautelare subita antecedentemente al provvedimento di annullamento.
            Ciò perché l’esegesi fornita nel tempo dalla giurisprudenza per la stima della custodia già subita, aveva confermato la rilevanza del trattamento cautelare anteriore alla decisione di regresso del procedimento, ma solamente di quello afferente la stessa fase in cui il procedimento fosse regredito, restando privi di rilevanza, invece, i periodi compresi tra le due fasi omologhe (vedasi da ultimo: Cass.Sez.Un.19 gennaio 2004, n.4).
            Con la sentenza in commento, la Corte Costituzionale ha preso definitivamente posizione in merito al problema prospettato e ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art.303, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in cui non consente di computare ai fini dei termini massimi di fase determinati dall’art.304, comma 6 dello stesso codice, i periodi di custodia cautelare sofferti in fasi o gradi diversi dalla fase o dal grado in cui il procedimento è regredito.
            Ciò perché, secondo la Corte, l’art.303 del c.p.p. non ammetteva alcuna valutazione della custodia sofferta nel corso di fasi disomogenee del giudizio e pertanto necessitava di una pregnante modifica, tale da inserire un termine c.d. “interfasico”.
            In tal guisa viene affermata la sussistenza di un vero e proprio “diritto vivente”: cioè di una norma saldamente introdotta nell’ordinamento mediante il significato assegnatole dalla prassi giurisdizionale.
            La conciliabilità del comma 2 dell’art.303 c.p.p. con la Costituzione, viene pertanto così determinata sulla base del significato proprio attribuitogli dal giudice ordinario.
            Le premesse dalle quali la Corte è partita fanno riferimento al “valore unitario e indivisibile” della tutela della libertà, che non può subire deroga alcuna per effetto di particolari congiunture processuali.
            E proprio sulla base di tali premesse che, secondo la Corte, deve interpretarsi l’art.303, comma 2 del C.p.p. sulla base del “diritto vivente” e perciò dichiararsi costituzionalmente illegittimo per i motivi esposti.
            Resta peraltro da chiarire se, regredito il procedimento, possa ancora valere quella suddivisione temporale in base alla quale, procedendo il giudizio con i provvedimenti decisori di fase, decorrono sempre nuovi termini di durata della custodia.
            Il sistema tracciato dalla legge, sulla base dell’interpretazione fornita dalla sentenza in trattazione, dovrebbe essere il seguente: una volta emesso il provvedimento che implica la regressione del procedimento inizia a decorrere un nuovo termine, della durata in astratto proporzionale ai reati in contestazione e correlativa alla fase processuale in cui il processo è regredito; ai fini del computo del tempo attribuito al giudice per emettere il provvedimento conclusivo della fase in corso, occorre detrarre integralmente da detto termine il tempo impiegato dal primo inizio della stessa fase, o dall’inizio della custodia se successivo.
            Detto impianto risulta maggiormente benevolo per l’imputato e permette che i “vantaggi” della custodia c.d. interfasica antecedente all’annullamento si consumino con la successiva chiusura della fase in cui il procedimento è regredito, non avendo rilevanza alcuna, nel giudizio conseguente, qualora venga adottato sollecitamente il relativo provvedimento.
            Giova peraltro segnalare un problema che potrà presentarsi in fase di applicazione di questa nuova disciplina, quello della sua consistenza nei procedimenti ancora in corso, per i quali la fase di regressione sia già stata definita.
            Detta problematica andrebbe chiarita alla luce della sintesi tra il principio di “retroattività” delle sentenze di illegittimità costituzionale (articolo 30 della legge 87/1953) con le posizioni prevalenti in materia di scarcerazioni “ora per allora” (cfr.Cass.Sez.Un., 24 aprile 2002, n.26250), ma restano comunque alcune zone d’ombra che la Corte non è riuscita a chiarire con precisione.
            Ciò che merita apprezzamento tuttavia, è l’indubitabile riaffermazione della prevalenza del diritto vivente: la Consulta ravvisa ancora una volta che le valutazioni di legittimità di una legge debbono necessariamente basarsi sulle soluzioni ermeneutiche affermate dai giudici ordinari, qualora esse assumano lo spessore di “diritto vivente”.
 

Avv. Buzzoni Alessandro

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