La crisi sociale e democratica. Riflessioni a margine di M. La Torre, la sovranità radicale: Hermann Heller in id, la crisi del novecento. Giuristi e filosofi nel crepuscolo di Weimar, Bari, 2006, 55-129

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Immaginare una storia transnazionale del movimento operaio, delle sue rivendicazioni giuridiche e culturali, risulta piuttosto complesso e per molti aspetti concretamente irrealizzabile: l’afflato internazionalista che ha animato alcune delle pagine più significative del pensiero socialista non poteva produrre (e nei fatti non ha prodotto) uniformità di conseguenze e di strategie[1]. Si rivelerebbe assai complesso inoltre individuare una linea guida idonea a rappresentare le molteplici istanze portate avanti nel conflitto; si resterebbe inesorabilmente nel poco decifrabile guado di due confini troppo lassi. Da un lato la critica al modello di produzione capitalistico e alle varianti fenomenologiche che ne sono derivate, dall’altro la posizione problematica nei confronti dell’ordine costituito, “protetto” da una strumentazione disciplinare e coercitiva di natura (anche e frequentemente) giuridica. La storia del movimento operaio, non v’è dubbio, è dal punto di vista estetico una storia di scissioni: il settarismo che l’ha percorsa ha sempre la forma dell’abbandono polemico, dell’addio ferocemente stizzito. È una storia tumultuosa, quella delle rivalità intestine, che cela dietro di sé il fantasma eticista del “tradimento della rivoluzione”[2]; il metodo organizzativo interno del centralismo democratico, antifrazionista nelle intenzioni, antideviazionista -sulla carta- per la tutela della dottrina, poteva divenire semplice assorbimento coattivo del pluralismo correntistico o comunque intrapartitico. Se questa degenerazione ha un’autonoma evidenza nella vicenda della III Internazionale, è tuttavia caratteristico delle esperienze precedenti e successive un certo indugiare tra le accuse di massimalismo che spesso hanno gravato sui gruppi più appassionati, spontaneisti e rivoluzionari e la denuncia di opportunismo, compromesso e gradualismo spesso rivolta alle componenti di ispirazione riformista, favorevoli (almeno) ad (alcuni) istituti giuridici della democrazia borghese, inclini a una mediazione concertativa con le forze più strutturate e potenti in un dato gruppo sociale, anche come viatico temporaneo ineludibile per la società senza classi[3].

Questa introduzione, del tutto arbitraria se non fosse per la ricorrenza statistica dei due fenomeni che descrive, è funzionale per accettare due premesse: innanzitutto, che la crisi della social-democrazia può riguardare difficoltà tecnico-gestionali dei partiti che mirano a realizzarla, cambiamenti fenomenologici delle dinamiche di sfruttamento non recepiti o non avversati dalle loro classi dirigenti, o l’uno e l’altro elemento combinati insieme[4]. Secondariamente, spinge a valutare la figura del giurista Hermann Heller non solo nel quadro del dualismo interno a quel partito social-democratico (Circolo di Hannover vs. Circolo di Hofgeismar), ma anche e ben più incisivamente nel novero delle ambiguità teoretiche e d’azione politica che spesso hanno contraddistinto la storia del movimento socialista proprio nei momenti in cui la sua risposta agli eventi doveva essere più compatta ed antagonista.

E tuttavia nella parabola giusfilosofica di Heller si scorgono intuizioni che stanno ancora a testimoniare appartenenza meditata e veridica alla “famiglia socialista democratica”, prefigurandone alcuni sviluppi e ricalcandone alcune incongruenze. Nondimeno, la dottrina giuspubblicistica di Heller può, nei limiti e nei meriti, fornire spunti sostanziali per comprendere la crisi attuale del socialismo democratico, ivi compresa la recente riemersione di tematiche, come i diritti di libertà e le connessioni che li agganciano ai diritti politici e sociali, che la nomenclatura social-democratica ha, forse colpevolmente, ritenuto definitivamente acquisite e non più meritevoli d’una difesa militante.

La continuità di Heller con una tradizione politico-culturale che agisce col proprio originale bagaglio di convinzioni teoriche, all’interno di quelli che verranno definiti i “partiti di massa”, si evidenzia anche nell’atto formale di adesione al partito social-democratico, e in particolar modo nella verbalizzazione del rifiuto delle tesi su materialismo storico e internazionalismo[5]. È inoltre necessario precisare che la nozione di partito social-democratico del secolo scorso era più ampia di quella adesso corrente[6]: innanzitutto, l’iter scissionistico, tipicamente euro-occidentale, che avrebbe portato le frange comuniste a costituirsi in raggruppamenti distinti non si era ancora compiutamente esplicato e, sul fronte “opposto” dello scacchiere politico, nelle file del socialismo militavano intellettuali ora d’estrazione radicale ora vagamente umanista, o addirittura utopica e libertaria. I social-democratici non erano all’apice della loro espansione elettorale, ma forse erano al vertice della loro inclusività culturale. Se ciò non bastasse, il duplice dissenso helleriano ha una sottigliezza metodologica più acuta di quanto potesse esser apparso ai congenerazionali del filosofo[7]. Il rifiuto dell’internazionalismo, val la pena subito rimarcare, non ha nulla a che vedere con la propaganda stalinista, sostanzialmente contemporanea, del “socialismo in un solo Paese”; ciò è visibile sia per ragioni deontologiche che teleologiche. Il dover essere del partito operaio stalinista, attraverso la burocrazia (filo)governativa, non escludeva rapporti e legami con partiti sparsi per il mondo, tuttavia dirottava le energie di quadri intermedi e militanti verso il rafforzamento della Rivoluzione d’Ottobre. Era un “socialismo” iperstatalista, a volte scopertamente nazionalista ed esclusivista, ma si proponeva come tale in quanto avamposto della “lotta di classe”, alfiere indiscusso e indiscutibile della “dittatura del proletariato”[8]. Soprattutto per contingenze biografiche, Heller -anche nella più appassionata affermazione di un decisionismo politico e giuridico- non assecondava alcuna smania accentratrice: l’orizzonte strategico del conflitto era la nazione[9], la nazione quale risultante d’elementi politici ed etnografici, non come fascio di poteri da acquisire, detenere ed organizzare. Il tema della vittoria sovietica rispetto all’istanza internazionalista del partito proletario è cruciale nella storia del movimento operaio: giustificherà, in Francia, Spagna ed Italia, il frontismo democratico-popolare, ritenendosi infatti risolta la questione rivoluzionaria nella conquista del potere, anche per il tramite del consenso elettorale, pur di raggiungere la posizione che già i bolscevichi detenevano rispetto al proprio “stato”, al governo assunto sulla “Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche”.

Il socialismo, specie quello slegato dai suoi antesignani utopistici, sembra avere particolarmente a cuore (lo studio delle strategie per) la conquista del potere politico. Questa impostazione ha il demerito di lasciare scoperto un argomento che era stato decisivo per l’affermazione degli stati nazionali (cuius regio, eius religio)[10] e, successivamente, delle tesi liberali (il concetto di tolleranza)[11]: la questione religiosa[12]. Allo smembramento dell’Unione Sovietica, tre tendenze, tra loro antagoniste, percorreranno -nell’incapacità di risposta politica della appena rinnovata classe dirigente, ora nazionalista ora proprio social-democratica- l’antico blocco socialista: piccole comunità neopagane, da sempre attenzionate da apparati di polizia more solito serventi istanze paramilitari e filogovernative, la decisa riaffermazione dell’ortodossia legata alla riscoperta scientifica del diritto canonico orientale[13], l’espansione dei gruppi protestanti specie lungo l’asse baltico settentrionale. Forse quale retaggio della nozione marxista della religione come “oppio dei popoli”, anche i partiti social-democratici al governo nel continente, suggestivamente apertisi a tesi comunitaristiche di esponenti di particolari tradizioni religiose (Walzer, Taylor)[14], ignoreranno la capacità inclusiva dell’espansa tutela del diritto di libertà religiosa quale architrave d’un discorso sulle future politiche dell’integrazione, preferendo invece l’argomento della forza divisiva del simbolo e regalando alle classi conservatrici il tema dei rapporti coi convincimenti religiosi[15], risolti, dal punto di vista politico, in un’incongrua implementazione del principio di maggioranza e, in chiave ideologica, nella riemersione di elementi dal vago sapore teocratico.

Si delinea tuttavia, al tempo di Heller, un pericoloso riduzionismo in merito alla questione del potere[16], la cui presa si rimette, quasi esclusivamente e quasi dualisticamente, a una promozione fideistica del momento rivoluzionario (il “Sol dell’Avvenire”) o a una tattica parlamentarista che ritiene possibile, anche attraverso l’estensione del suffragio, il rivolgimento elettorale dei rapporti di forza tra “classe” e “capitale”[17]. Entrambe le soluzioni trovano nella teoria politica italiana antifascista degli sviluppi che eccedono una riproposizione troppo “filologica” e cristallizzata del materialismo storico marxista[18] -l’altro dissenso esplicitato da Heller all’ingresso formale nel partito[19]. In ordine alla prima prospettiva potrebbe citarsi Emilio Lussu, e la peculiare attenzione che riserva alla tempistica del momento rivoluzionario: la dialettica fatta propria da Lussu ha un contenuto principalmente operativo, ulteriore al rapporto “mezzi”/“fini” che di solito incornicia la prassi insurrezionale[20]. Tra lo spontaneismo rivoluzionario e l’ottica gradualista della riforma, la strada battuta da Lussu è quella di un’azione progressiva: in progressione il cammino della liberazione, attraverso una maturazione costante del clima di tensione; finalizzata all’efficacia pratica la selezione degli argomenti teorici[21]. Per altro verso, Lussu adotta un regionalismo basato sul principio dell’autodeterminazione che Heller rappresenta in modo più tecnico e raffinato nella difesa del Land prussiano, ragionando in termini di “competenza” su forme e strutture d’un governo federale[22]. È però rispetto all’egemonia culturale come nozione costitutiva del rapporto tra classi, nei termini in cui è elaborata da Gramsci, che si notano consonanze più penetranti col pensiero helleriano. Esercitare egemonia culturale significa definire la “mitologia” politica di una nazione: significa fornire un collante rivendicativo radicale che viene ritenuto assiomatico rispetto alla predisposizione decisionale dell’attività politica. Conviene notare che non solo il concetto di “egemonia culturale” può esser d’aiuto nel chiarire in Heller i rapporti tra Kultur e decisione, ma anche il contrario: che, attraverso il sincretismo metodologico di Heller, risultano più netti gli scopi politici perseguiti da Gramsci[23]. Se si accetta questa linea interpretativa, si coglie come l’elemento singolare-biografico in ordine al demos e alla politeia accomuni, in un tentativo universalizzante, i tre teorici considerati: minoranza etnica (sardi Lussu e Gramsci, d’origine ebraica Heller[24]), alla ricerca spasmodica di un’appartenenza nazionale (auto)identificativa -un (particolare tipo di) indipendentista[25], un (particolare tipo di) meridionalista, un (particolare tipo di) nazionalista: Lussu, Gramsci, Heller.

Nella teoria politica marxista, oltre al materialismo storico e all’internazionalismo, sembra esservi spazio per un ulteriore presupposto: la critica dell’economia politica sub specie della critica alla produzione capitalistica. Anche in ordine a questo profilo è agevole comprendere lo scetticismo di Heller, intimamente connesso com’è alle riserve esplicitamente avanzate. Per Hermann Heller, diversamente rispetto a Marx ed Engels[26], lo spazio politico non è inevitabilmente sottomesso alla sfera economica, né in questa ineluttabilmente avvinto. Per tali ragioni, anche se sussiste in Heller un orizzonte aspramente critico nei confronti dello sfruttamento economico, l’attenzione degli studi e l’impegno politico non possono limitarsi a una valutazione, per quanto puntuale e rigorosa, delle mere modalità produttive. Inoltre Heller, soprattutto negli scritti più maturi, non difende alcuna prospettiva estrema di relativismo morale[27], neanche nella misura in cui una teoria ius-politica decisionista dovrebbe concentrarsi sulle modalità attraverso le quali la decisione penetra nell’agire sociale e non alla stessa maniera sul processo motivazionale, soggettivo e contestuale, che ha contribuito a determinarla. La considerazione di questi argomenti, più vivace all’inizio del percorso filosofico dell’autore, portava più probabilmente a una relativizzazione degli strumenti conoscitivi e a una visione particolaristica, contingente e molto circostanziata di ciò che comunemente si indica come “eadem sentire”; eppure tale tecnica “sociologista”, che rimetteva al popolo la sovranità e conseguentemente la possibilità discrezionale di violare il diritto statuito[28], non ha tratti in comune con posizioni radicalmente nichiliste o libertariste. L’eventualità che un ordine costituente scardini, in situazioni eccezionali, l’ordine (precedentemente) costituito, più che rievocare l’imperativo anarchico “abolire lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo”, sembra invece costituire un salvacondotto per l’avvento della Rivoluzione. Esso, giungesse, non sarebbe antigiuridico, ma in realtà portatore di una nuova Costituzione. Tale mutamento, si osservi, potrebbe riguardare ciascuna delle cinque nozioni di “Costituzione” individuate da Heller[29]. Mentre allora, nell’opera del filosofo, si fa strada una posizione istituzionalmente parlamentarista e via, via concettualmente giusnaturalista, tesa alla ricerca di una Verità argine alla violenza irresponsabile -e legibus soluta– del Reich[30], all’autore possono esser mossi due rilievi di cui persino la social-democrazia attuale dovrebbe tener conto per imparare proficuamente dai propri errori: il giudizio storico-politico sul fascismo[31] e la qualificazione del potere giudiziario in un ordinamento giuridico.

In merito al primo aspetto, desta limitate sorprese l’apprezzamento nei confronti della politica mussoliniana su trasporti e ordine pubblico[32]. E così pure la sottovalutazione di tematiche -come le stesse relazioni con le confessioni religiose organizzate e presenti sul territorio- nel cui ambito il disegno fascista esasperava tendenze reazionarie emerse nella stagione liberale[33]. La fascinazione degli ambienti social-democratici verso figure politiche carismatiche, e propagandisticamente votate al più sicuro pragmatismo, non è ancora sopita (nonostante le pericolosità insite in derive leaderistiche o tecnocratiche di questo tipo)[34].

Né stupore desta la critica sul deficit di “mitologia” politica del regime, dal momento che tramite essa Heller può riaffermare l’inadeguatezza culturale della classe dirigente, senza dover svalutare gli aspetti positivi raccolti nella sua analisi[35]. Nel favor rivolto alle camere elettive, forse innaturalmente contrapposte, come fronti d’una stessa trincea, all’autorità giudiziaria, si scorge lo spettro di un ceto di giudicanti formatosi in una sorta di tradizionalistico (e formalistico) ossequio a norme e prassi dell’Ancienne Regime[36], senza saper criticamente distinguere le garanzie procedurali acquisite dalle strumentalizzazioni sostanziali poste in essere dalle rinnovate forze egemoni.

Nell’ottica helleriana, la sovranità popolare si esplica nel voto più che in una domanda -giudiziale- di giustizia. Ma opporre alla permeabilità delle magistrature da parte dei gruppi sociali dominanti l’inesausto richiamo della maggior trasparenza delle cariche elettive non è strategia (sempre) proficua: anche chi governa per il tramite del consenso di massa può annodare alle istituzioni il cappio di tornaconto (proprio) e sfruttamento (altrui).

 

 

 

Domenico Bilotti

 


[1] La vocazione internazionalistica contraddistingue, anche nominalmente, tutte e quattro le maggiori esperienze storiche del movimento operaio di ispirazione marxista, sin dalla prima (1864), come programmaticamente espresso in K. MARX, L’Internazionale operaia, 1993, Milano, contenente anche una comunicazione rivolta al Presidente degli Stati Uniti Abraham Lincoln (peraltro repubblicano, ma apprezzato per la battaglia “antischiavistica”). Cfr. ibidem, 24-27.

[2] È sufficiente pensare al nome di un celebre opuscolo circolato nelle file del movimento operaio ad esito dei lavori preparatori della III Internazionale, quello attraverso cui Lenin attaccava Kautsky e le prime istanze revisionistiche. Cfr. V. I. LENIN, La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky, Milano, 2006, (in particolar modo) 35-131.

[3] E, in ottica critica, ibidem, 52-60 (par. “Democrazia borghese e democrazia proletaria”).

[4] Questa opzione critica ha del resto buon gioco ad affermarsi anche presso chi contesta il ciclo politico social-democratico svoltosi sotto la presidenza di Pierre Mauroy -1992/1999- all’Internazionale Socialista (che, a dispetto del nome piuttosto “impreciso” e fuorviante, raduna soprattutto organizzazioni che si riconoscono nella social-democrazia e nel socialismo liberale). Cfr. sul punto (a cura di R. “V.” SCELSI) A. NEGRI, Goodbye mr. Socialism, Milano, 2006, (particolarmente) 51-60.

[5] Cfr. sul punto M. LA TORRE, La crisi del Novecento. Giuristi e filosofi nel crepuscolo di Weimar, Bari, 2006, 57-58.

[6] Fenomeni di questo tipo (modificazioni del senso comunemente attribuito al termine) hanno interessato anche la disciplina giuridica. In merito alla discutibile dicitura “socialismo giuridico”, etichetta spesa per numerosi civilisti italiani tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, è in realtà interessante l’obiezione secondo cui “[…] si suole ricomprendere tutti quei personaggi e movimenti che si prefiggono di far penetrare entro il tessuto del diritto privato precise istanze di solidarietà sociale. Si tratta, in altre parole, di solidarismo e non di socialismo”, formulata da P. GROSSI, La cultura del civilista italiano. Un profilo storico, Milano, 2002, 33-34, n 14.

[7]In maniera alquanto suggestiva, e secondo un modello impiegato anch’esso dal pensiero reazionario, Heller contrappone il nazionalismo all’imperialismo. La prospettiva internazionalista -dice quest’argomento- è quella occupata non tanto dal movimento operaio quanto dal capitalismo che si è fatto mondiale e che, mosso unicamente da fini economici (di profitto economico), ha perso (seppur lo ha mai avuto) qualsiasi ancoraggio in una forma comunitaria di vita sociale, in una patria insomma. È il capitalista il “senza patria”; il proletario invece è inserito in una collettività originaria che dà senso alle sue sofferenze e alla sua lotta”, si nota acutamente, ripercorrendo l’iter concettuale helleriano, da parte di M. LA TORRE, La crisi del Novecento, cit., 66.

[8]I soviet sono la forma russa della dittatura proletaria. Se un teorico marxista, accintosi a scrivere sulla dittatura del proletariato, avesse realmente studiato questo fenomeno […], questo teorico avrebbe dato una definizione generale della dittatura e ne avrebbe esaminato poi una forma specifica, nazionale, i soviet, criticando i soviet, in quanto una delle forme della dittatura del proletariato”, secondo la prospettiva leninista circa l’impossibilità della trasformazione dei soviet in organizzazioni statali (in ottica “normativa”, non meramente “descrittiva”: cfr. par. “i soviet non devono trasformarsi in organizzazioni statali” [sottolineato mio]), espressa in V. I. LENIN, La rivoluzione proletaria, cit., 68.

[9] Sul punto, ancora, M. LA TORRE, La crisi del Novecento, cit., 66.

[10] Ciò contribuisce a spiegare la peculiarità della situazione italiana (e della sua politica ecclesiastica), sin dal periodo liberale ad oggi. Rispetto al fenomeno associativo che andava smarcandosi dalle duplici inibizioni statuali e curiali, nota Mantineo, “alcuni dei profili problematici oggetto di studio da parte degli esponenti più autorevoli della dottrina ecclesiasticista attenevano a questioni rilevanti non solo per l’inquadramento giuridico delle confraternite, come fenomeno associativo, ma anche per valutarne la funzione nella prospettiva dello Stato che “unitariamente” si misurava con il fattore religioso da un punto di vista improntato al giurisdizionalismo”, in A. MANTINEO, Le confraternite: una tipica forma di associazione laicale, Torino, 2008, 91.

[11] Un fenomeno associativo religiosamente orientato, alternativo e concorrente rispetto alle pretese temporalistiche e spesso oggetto di atteggiamenti repressivi, ha radici antiche che retrostanno sia alla formazione degli Stati nazionali sia alla formulazione teorica e politologica del concetto di “tolleranza”. “Gli studiosi della materia si sono trovati, comunque sia, concordi nell’individuare le prime tracce della tendenza ad associarsi da parte dei fedeli, nei capitolari carolingi, ove le gilde e le gildonie rappresentavano i gruppi di laici che si incontravano con lo scopo di favorire la preghiera in comune. Tali raggruppamenti non si potevano definire “corporazioni”: ne avrebbero acquisito gli elementi tipici parallelamente alla nascita delle corporazioni delle arti e mestieri e con il sorgere delle prime municipalità”, ibidem, 43.

[12] Anche se le categorie del conflitto sociale non valgono a definire i termini dei conflitti inter-religiosi, o più spesso intra-religiosi, la suggestione dominante è che il frazionismo che contraddistingue i gruppi confessionali più consistenti possa ugualmente contribuire a determinare (anche) gravi agitazioni civili e sociali, nonché una risposta coercitiva delle autorità competenti. “L’altro elemento comune alla dottrina ecclesiasticista era rappresentato dalla considerazione che il fenomeno dell’associazionismo laicale si era sviluppato spesso in contrapposizione con la gerarchia ecclesiastica e che, solo in questa prospettiva, era stata definita, a partire dal Concilio di Trento, una disciplina che riduceva notevolmente gli spazi di autonomia […]”, ibidem.

[13] La riemersione di questo ambito scientifico sembra aver avuto ricadute metodologiche importanti anche in altri settori disciplinari, “[…] ritengo comunque utile rilevare fin d’adesso come, al di fuori dell’evidente interesse per la storia giuridica delle Chiese cristiani orientali, il nesso piuttosto che la cesura tra diritto romano e diritto bizantino sia di fatto sollecitato dall’odierna diffusione dell’insegnamento del diritto romano nelle facoltà giuridiche dell’Europa Orientale. Il fenomeno pone, tanto in Russia quanto negli altri paesi […], il quesito se sia opportuno o meno determinare l’ambito storico del diritto romano in conformità agli schemi tradizionali dell’esperienza giuridica occidentale […]”, in G. BARONE-ADESI, Ricerche sui corpora normativi dell’impero romano. 1- I corpora degli iura tardoimperiali, Torino, 1998, XI.  

[14] Questa osservazione è pertinentemente fatta propria da E. DIENI, Il diritto come “cura”. Suggestioni dall’esperienza canonistica, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (http://www.statoechiese.it), Giugno 2007, 45, n 132, ove per il vero Dieni affianca, nella sua analisi, a Taylor e a Walzer anche MacIntyre, per il quale l’iniziale formazione teologico-filosofica risulta ancora più spiccata.

[15] La disciplina giuridica del fatto religioso ha tuttavia evidenziato incertezze teoriche e pratiche anche in esponenti di quelle forze reazionarie, e certamente non social-democratiche, che nel gioco degli schieramenti al Parlamento Europeo si riconoscono nel Partito Popolare. In ogni caso, la loro risposta è parsa aver maggiore presa sull’opinione pubblica. Cfr. sul tema F. MARGIOTTA BROGLIO, Nicolas Sarkozy, un laico “placato”, in Reset, Novembre/Dicembre 2009, 26-31.

[16] Tale osservazione circa una tensione invariante alla conquista del potere è forse enfatizzata in A. NEGRI, Fabbrica di porcellana. Per una nuova grammatica politica, Milano, 2006, 11-15, nel momento in cui si ritengono affini, almeno dal punto di vista “definitorio”, le categorie politiche elaborate da Schmitt, Weber e Lenin, nel rispettivo itinerario politico e concettuale.

[17] Questa dicotomia “rivoluzione”/“riforma” sembra avere qualche punto di contatto col dualismo ricostruttivo individuato da Bobbio (“governo degli uomini” vs. “governo delle leggi”), almeno nella misura in cui la “rivoluzione” esige il fomento di una avanguardia, che è soggettività di classe, e perciò azione diretta degli uomini, mentre la “riforma” sembra riuscire a perseguire almeno taluni dei suoi scopi attraverso un innalzamento qualitativo della produzione legislativa. Cfr. N. BOBBIO, Il futuro della democrazia. Il comune denominatore di tutte le questioni politicamente rilevanti, Torino, 1995, 169-194.

[18] Una prospettiva che si interroghi sui limiti del materialismo storico può ovviamente condurre ad esiti diversi. “Ciò significa che egli [Heller] non crede nella supremazia del fattore economico sul politico. La storia è il risultato di più cose di quanto ammetta il materialismo storico, e soprattutto della lotta politica e ideologica. Questa tesi potrebbe però essere condivisa anche da un anarchico o da un socialista libertario o liberale, ed è infatti uno dei punti su cui ad esempio tanto l’anarchico Mikhail Bakunin quanto i socialisti liberali Francesco Saverio Merlino e Carlo Rosselli fanno leva nella loro critica del marxismo”, come osserva M. LA TORRE, La crisi del Novecento, cit., 58-59.

[19] E ancora, “se la distinzione tra “spirituale” e “materiale” adoperata da Heller può ricordare la dialettica di “sovrastruttura” e “struttura” tipica delle dottrine marxiste, là dove lo “spirituale” di Heller corrisponderebbe alla “sovrastruttura” dei marxisti, e il suo elemento “materiale” alla loro “struttura”, va notato innanzitutto che l’economia fa parte per Heller dell’ambito “spirituale”, mentre egli menziona come componenti della determinante “materiale” il territorio geografico (Boden) e la razza (Blut), fattori del tutto irrilevanti nel pensiero marxista. D’altra parte, in questa proposta teorica, lo “spirituale” non è, come accade invece alla “sovrastruttura”, del tutto subordinato all’elemento “materiale”: tra i due v’è una relazione di dipendenza reciproca” (sottolineato mio), ibidem, 66.

[20] È interessante notare come, pur citando Lussu, Walzer non dedichi uno specifico approfondimento alle attività insurrezionali, tuttavia analizzando ipotesi eventualmente propedeutiche all’insurrezione e alla liberazione (resistenza all’occupazione militare, violenza e liberazione, il problema della rappresaglia in tempo di pace). Cfr. M. WALZER, Guerre giuste e ingiuste. Un discorso morale con esemplificazioni storiche, Roma-Bari, 2009, 222-226; 257-259; 271-278.

[21] Il nocciolo della singolare metodologia politica insurrezionale è espresso in E. LUSSU, Teoria dell’insurrezione, Camerano, 2008.

[22] Tanto sulla singola vicenda prussiana quanto (e soprattutto) sulle evidenti ricadute nella teoria del diritto pubblico elaborata da Heller, cfr. M. LA TORRE, La crisi del Novecento, cit., 109-110.

[23] Tuttavia in Gramsci l’influenza della sfera economica si esprime con molta più radicalità che in Heller, anche quando viene prefigurata la possibile egemonia del lavoro cognitivo. Cfr. sul punto, A. GRAMSCI, La questione meridionale, Roma, 1993, 32-33, specie in riferimento al ceto intellettuale come classe intermedia tra il latifondismo e i lavoratori agrari nel Centro-Sud; esso, socialmente più vicino ai secondi, resta fondamentalmente influenzato nella sua elaborazione dal primo. 

[24] In riferimento alla peculiare vicenda biografica di Heller, e allo stesso modo testimonianza autentica di un più diffuso clima politico-culturale, “[…] eppure egli di nascita non è tedesco, cittadino del Reich guglielmino, ma suddito di Sua Maestà Apostolica Francesco Giuseppe, sovrano dell’Impero Asburgico. Nasce infatti a Teschen an der Olsa, una cittadina posta tra quella che è oggi la Repubblica Ceca e i territori dell’allora vasto e possente Reich germanico. La sua è una famiglia d’estrazione borghese e di religione ebraica. […] in questo Stato ridotto ad una Alpenrepublik (come lo definisce Joseph Roth) Heller non può più riconoscersi”; così si esprime M. LA TORRE, La crisi del Novecento, cit., 55-56.

[25] A questo riguardo, e per corroborare una definizione di questo tipo, cfr. E. LUSSU, Teoria dell’insurrezione, cit., 15-41, ove Lussu ripercorre la vicenda storica di alcune agitazioni rivoluzionarie compiutesi con alterne fortune nel continente europeo nei secoli XIX e XX.

[26] In Engels l’affermazione di un particolare determinismo economico che definisce le strutture dell’agire sociale pare addirittura più spiccata che in Marx, estendendosi alla natura, intrinseca ed esteriore, delle più frequenti relazioni affettive. Cfr. sul tema F. ENGELS, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Roma, 2006.

[27] Al contrario, dimostra progressivamente di volerla avversare. Cfr. M. LA TORRE, La crisi del Novecento, cit., 127-129.

[28] Del resto sul punto cfr. A. SCERBO, Giustizia Sovranità Virtù, Soveria Mannelli, 2004; in special modo: “la relazione tra sovranità e diritto si sviluppa, però, in modo complesso ed articolato, soprattutto in merito al ruolo che in sostanza si attribuisce al diritto. Si scopre, così, che per Heller opera innanzitutto la presunzione di legalità di tutti gli atti di derivazione statale e che questo principio si estende all’intero ordinamento giuridico, anche nell’ipotesi più radicale della sua contrarietà al diritto. Si innesta in questo momento la questione sollevata da Schmitt in merito alla decisione nello stato di eccezione. Ad avviso di Heller vi è una perfetta coincidenza tra la soggettività che dispiega la propria azione nello stato di eccezione e quella che esprime il potere decisionale nella situazione di normalità. Nel senso che la sovranità è riconosciuta al soggetto che in condizioni di regolarità assume le decisioni in base alla costituzione scritta o non scritta; e soltanto in presenza di questo stato di cose è possibile attribuire allo stesso soggetto il diritto di decidere anche in ipotesi di emergenza e, se necessario, andando al di là, e al di fuori, del diritto”, ibidem, 41.

[29] È infatti possibile che una rivoluzione: determini una nuova, effettiva e perdurante struttura di potere all’interno del gruppo sociale (operatività rispetto alla prima accezione); influisca sulla struttura di potere individuabile nel momento storico preciso e circostanziato in cui la rivoluzione stessa ha luogo (operatività rispetto alla seconda accezione); produca un ordinamento giuridico addirittura antitetico rispetto a quello spodestato (operatività rispetto alla terza accezione); implichi un’espansione o limitazione di particolari libertà, agendo su contenuti specifici di quell’ordinamento giuridico (operatività rispetto alla quarta accezione); munisca il nuovo ordine instaurato di una diversa costituzione scritta (operatività rispetto alla quinta accezione).

[30] Una preoccupazione di questo tipo può derivare tanto da un’inconscia sfiducia nei confronti delle qualità umane del Führer quanto da una visione negativa dell’accentramento personalistico dei poteri. Giova ricordare ancora Bobbio, “sin dalla celebre descrizione platonica dell’avvento del tiranno dalla dissoluzione della polis provocata dalla democrazia “licenziosa” (l’epiteto è di Machiavelli) la tirannia come forma di governo corrotta è stata collegata ben più alla democrazia che alla monarchia. Però soltanto all’inizio del secolo scorso, dopo la rivoluzione francese e il dominio napoleonico, negli scrittori politici conservatori ha trovato un posto ragguardevole, accanto alle tradizionali forme di governo, e con una connotazione generalmente negativa, il cosiddetto “cesarismo”, che diventa con Napoleone III, specie per effetto della critica di Marx, “bonapartismo”. Ebbene, da tutti gli scrittori che fanno del cesarismo una forma autonoma di governo questo viene definito come “tirannia (o dispotismo) popolare”: la reminiscenza platonica, che si è tramandata nei secoli insieme con il disprezzo per i demagoghi, è evidente. In altre parole il cesarismo (o bonapartismo) è quella forma di governo di un uomo che nasce come effetto dello scompiglio cui va ineluttabilmente incontro il governo popolare: il giacobinismo genera Napoleone il Grande, la rivoluzione del 1848 genera Napoleone il piccolo […]”, in N. BOBBIO, Il futuro della democrazia, cit., 180-181.

[31]Frutto del suo soggiorno in Italia è il libro Europa und der Faschismus, una delle prime serie analisi del regime mussoliniano. Il libro è attento, informato, accurato. La prospettiva adottata è quella, più che d’un giurista, d’uno scienziato politico, anche se le questioni giuridiche non vengono trascurate o messe in sordina. Si tratta d’un vero e proprio studio di scienza politica, non d’uno scritto polemico o di propaganda antifascista”, osserva M. LA TORRE, La crisi del Novecento, cit., 69-70.

[32] Ibidem, 70-71.

[33] Una politica ecclesiastica costantemente timida e reticente nei confronti del pluralismo religioso contraddistingue la storia politica italiana: questo limite strutturale nel Fascismo va a combinarsi con aspetti, se possibile, ancor più allarmanti, come la limitazione delle libertà (e in specie di quella al dissenso politico) e, successivamente, la promulgazione delle leggi razziali, che ricadevano (anche) su una particolare, e particolarmente radicata, minoranza religiosa. Nel periodo liberale, Destra e Sinistra non manifestarono orientamenti dissimili, giacché “in tema di politica ecclesiastica fra la Destra e la Sinistra si ebbe una sostanziale continuità: così, dopo il 1876 -anno di avvento al governo della Sinistra storica- non vi furono sostanziali innovazioni, nonostante le molte proposte presentate, nel campo della legislazione ecclesiastica; né la legge delle guarentigie, tanto aspramente criticata fu toccata dalla nuova classe al governo. In tre settori i governi della Sinistra lasciarono, comunque sia, una traccia di rilievo: con le norme cioè inserite nel codice penale Zanardelli sugli abusi dei ministri di culto; con la legge del 14 luglio 1887, n. 4727 sull’abolizione delle decime ed altre prestazioni fondiarie congeneri e con la legge del 17 luglio 1890, n. 6972, con la quale entrò in vigore la nuova disciplina sulle istituzioni pubbliche di beneficenza”, come rilevata da A. MANTINEO, Le confraternite, cit., 81.

[34] Pare significativo il limite concettuale che Bobbio ritiene necessario porre a questa opzione “carismatica”, “tanto il grande legislatore, il sapiente, quanto il fondatore di stati, l’eroe, sono personaggi eccezionali che compaiono in situazioni fuori dal comune e compiono le loro azioni in momenti o di cominciamento o di rottura. In realtà, il governo degli uomini più che un’alternativa al governo delle leggi ne è una necessaria surrogazione nelle epoche di crisi. La fenomenologia delle figure storiche attraverso cui si è fatta strada l’idea della superiorità del governo degli uomini è in gran parte una fenomenologia di personaggi eccezionali”, così N. BOBBIO, Il futuro della democrazia, cit., 187. 

[35] Si noti ancora al riguardo, M. LA TORRE, La crisi del Novecento, cit., 72-73.

[36]Nella Germania di Weimar dei tre poteri dello Stato l’unico nel quale siano presenti in maniera massiccia forze democratiche e repubblicane è proprio quello legislativo. Il potere giudiziario e quello esecutivo sono ancora saldamente in mano a un ceto di funzionari il cui ethos rimane quello del Beamtentum guglielmino” (sottolineato mio), ibidem, 120-121.

Dott. Bilotti Domenico

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