La corte di cassazione rinvia alle sezioni unite sulla identificazione dei criteri di qualificazione delle sentenze definitive e non definitive ai fini dell’individuazione del regime di impugnazione applicabile

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(nota a cass. Civ., sez. Ii, 9 marzo 2020, n. 6624 (ordinanza)

 

Sommario: 1. Il caso. ― 2. Il quadro sistematico di riferimento: il difficile coordinamento del dato normativo. ― 3. Orientamento sostanziale e orientamento formale: gli approdi giurisprudenziali e dottrinali sulla questione ― 4. Considerazioni conclusive.

 

  1. Il caso

― Di fronte al Tribunale di La Spezia, veniva proposta domanda per la risoluzione di una donazione con la quale il de cuius aveva donato al convenuto Comune di La Spezia un’area che lo stesso avrebbe dovuto trasferire a titolo gratuito ad un ente benefico, successivamente soppresso.

  • Sebbene l’atto di donazione prevedesse che in caso di mancata destinazione del bene agli scopi specifici dell’ente donatario il donante avrebbe potuto revocare la donazione, il Comune concedeva a terzi il diritto di superficie dell’area per la realizzazione di un parcheggio. Per tale ragione, veniva altresì chiesta dalla parte attorea la condanna al rilascio del bene ed al risarcimento dei danni derivanti dall’occupazione dell’area per il periodo successivo all’introduzione del giudizio.
  • Il Tribunale, con sentenza n. 656/2007, accoglieva la domanda relativa alla risoluzione della donazione, condannando il Comune al rilascio del bene ed al rimborso delle spese di lite, ordinando con separata ordinanza la prosecuzione del processo per l’istruzione e la decisione della domanda di risarcimento del danno. Avverso il suddetto provvedimento il Comune formulava riserva di gravame.
  • Il giudizio si concludeva con l’emanazione di una sentenza definitiva con cui il Comune veniva condannato al risarcimento del danno da occupazione dell’area e alla rifusione delle spese di lite per l’attività giudiziale svolta successivamente alla prima sentenza.
  • Contro entrambe le sentenze, la parte soccombente proponeva appello, che veniva dichiarato inammissibile dalla Corte d’appello di Genova, con riferimento alla prima decisione, in quanto tardivo. La Corte rigettava, inoltre, l’appello principale e, accogliendo quello incidentale, in parziale riforma della seconda sentenza, rideterminava la somma riconosciuta a titolo di risarcimento danno da occupazione.
  • La Corte d’appello giungeva a tale esito in adesione all’orientamento giurisprudenziale maggioritario c.d. “formale”, secondo cui si è di fronte ad una sentenza non definitiva ­- immediatamente impugnabile o soggetta a riserva d’appello – qualora il Giudice, decidendo solo alcune delle domande cumulate, non disponga formalmente la separazione delle cause e non statuisca sulle spese.
  • Nello specifico, dunque, il Tribunale di La Spezia, nel decidere sulla questione relativa della donazione ed al rilascio del bene, aveva disposto la prosecuzione del giudizio, provvedendo sulle spese e separando formalmente le cause.
  • Appare chiaro, quindi, l’iter logico seguito dalla Corte d’Appello che qualificava come definitiva la predetta sentenza, considerando inammissibile l’appello.
  • Il Comune, pertanto, proponeva ricorso per Cassazione chiedendo, in via preliminare, la censura della sentenza per la configurazione data alla prima decisione come definitiva giacché l’estensore nel dispositivo aveva fatto precedere le statuizioni dall’affermazione “non definitivamente pronunciando”.
  • La seconda sezione della Corte di Cassazione, preso atto della sussistenza, nel caso di specie, di due criteri formali tra loro contrastanti – da un lato, l’espressione qualificatoria “non definitivamente pronunciando”, dall’altro lato, la pronuncia sulle spese di lite – sollecitava al primo presidente la rimessione del ricorso alle sezioni unite ai sensi dell’art. 374, comma 2, c.p.c.
  • Il ragionamento svolto dai giudici di legittimità con la sentenza in commento[1] pone, dunque, la questione del discrimine tra sentenze definitive e non definitive in termini di identificazione dei criteri per la loro qualificazione, attraverso una lunga rassegna di precedenti giurisprudenziali. E ciò con l’intento di mettere in evidenza come, a seguito della riforma del codice di procedura civile del 1950[2], sul piano teorico l’applicazione del criterio formale sembra trovare adesione unanime, lo stesso non sembra potersi dire a livello pratico.

2. Il quadro sistematico di riferimento: il difficile coordinamento del dato normativo.

― Prima della riforma del 1950, il principio della unicità del processo civile riconduceva a pochissime ipotesi previste dalla legge la possibilità di scindere in più parti la decisione del giudice, in caso di domande cumulate.

Ed infatti, sotto la vigenza del codice del 1940, l’emanazione di sentenze c.d. parziali era limitata dall’art. 279 c.p.c. ai soli casi previsti dagli artt. 277, comma 2 e 278 c.p.c., e alle sole ipotesi in cui fosse risolta una questione di competenza o altre questioni pregiudiziali.

Le suddette sentenze, inoltre, erano soggette esclusivamente a riserva di impugnazione[3], le stesse, infatti, potevano essere impugnate soltanto congiuntamente con la sentenza di merito così come disponeva l’originaria formulazione del 2° comma dell’art. 339 c.p.c.

A seguito della riforma introdotta dalla legge n. 581 del 14 luglio 1950, che ha modificato gli artt. 103[4], 104[5] e 279[6] c.p.c., non si parlerà più di “sentenza parziale” ma di “sentenza non definitiva”; il legislatore, infatti, elimina dal testo dell’art. 278 c.p.c.[7] il primo termine e lo sostituisce con il secondo nella rubrica degli artt. 340[8] e 361[9] c.p.c., laddove, prevede la possibilità di optare tra un’impugnazione immediata o differita, attraverso l’istituto della riserva.

Tuttavia, il quadro normativo così delineato è parso sin da subito mal coordinarsi con il contenuto dell’art. 277 c.p.c.[10], rimasto invariato rispetto alla riforma del 1950.

Invero, il tema appare non del tutto di agevole portata, ove si versi sul piano del cumulo di domande nel medesimo processo, nell’ipotesi di sentenze che, avendo ad oggetto sia domande che questioni, consentano al giudice di pronunciarsi parzialmente sul merito della controversia[11].

Ci si è chiesti, infatti, se la sentenza emessa ai sensi dell’art. 277, comma 2, c.p.c. sia annoverabile tra quelle emanate ai sensi del 279, n. 5, c.p.c. – definitive, immediatamente impugnabili e non riservabili[12] – alle quali deve seguire un formale provvedimento di separazione delle cause oppure tra quelle di cui all’art. 279, n. 4 c.p.c., non definitive e, quindi, immediatamente impugnabili o riservabili[13] in forza degli artt. 340 e 361 c.p.c.[14].

Ed in effetti, come meglio verrà approfondito nel prosieguo della trattazione, il dibattito sulla statuizione del giudice che, in caso di cumulo di domande, debba pronunciarsi su una o taluna soltanto di esse si è da sempre innestato nell’ormai classico conflitto di posizioni che ha annoverato e continua ad annovera, da un lato, i fautori della teoria c.d. sostanzialistica, secondo cui, qualora l’accertamento contenuto nel provvedimento decisorio del giudice esaurisca l’intero rapporto processuale relativo alla singola domanda, saremmo di fronte ad una sentenza definitiva a prescindere dalla qualifica attribuitale dal giudice o dalla mancanza di qualsiasi indice esteriore che la qualifichi come definitiva[15]; e dall’altro i sostenitori della tesi c.d. formalista, secondo cui la presenza di un provvedimento di separazione delle cause emesso dal giudice, nell’esercizio del potere conferitogli dalla legge, logicamente postulerebbe che alla sentenze fosse attribuita natura di definitività[16].

Sul punto intervenivano le Sezioni Unite della Corte di Cassazione che, con la sentenza del 01.03.1990, n. 1577[17], affermavano il principio di diritto secondo cui affinché la sentenza potesse dirsi definitiva dovesse essere corredata da un pedissequo provvedimento di separazione del giudizio ai sensi dell’art. 279, 2° comma, n. 5, c.p.c., o da una statuizione dello stesso organo giudicante sulle spese relative alle domande decise.

Il suddetto indirizzo “formalista” fu ribadito dalla Cassazione con due successive pronunce a sezioni unite[18] e successivamente applicato anche alle pronunce declinatorie della giurisdizione[19].

Sicché, i suddetti approdi giurisprudenziali avvalorarono, nel tempo, la tesi di legittimità secondo cui, al fine di garantire alla parte soccombente la corretta individuazione dei mezzi di impugnazione, sarebbe necessario fondare la propria valutazione sulla sussistenza o meno degli indici di carattere formale, quali elementi “idonei ad esplicitare all’esterno il reale intento del giudice che aveva pronunciato la sentenza”[20].

Tuttavia, la seconda sezione della Corte Cassazione, con l’ordinanza in commento, torna nuovamente a prendere posizione sulla vexata quaestio, segnalando un diverso ed ulteriore profilo di criticità rappresentato dall’individuazione del criterio prevalente in caso di mancata corrispondenza tra uno degli elementi di carattere formale, idoneo di per se ad attribuire definitività alla sentenza (liquidazione delle spese di lite e separazione delle cause) e l’esplicita qualificazione della pronuncia come “non definitiva” data dal giudice.

Nel caso che ci occupa, dunque, la Suprema Corte mette in luce come la distinzione tra sentenze definitive e non definitive non possa passare attraverso prestabiliti indici qualificativi, così come individuati dalle predette statuizioni.

Ed invero, la pronuncia in oggetto vanta il merito di rilevare come la carenza riscontrata sul piano normativo e (conseguentemente) interpretativo, si riverberi, inevitabilmente, su quello pratico, andando ad incidere sul regime delle impugnazioni delle sentenze.

Infatti, se la norma di cui all’art. 340 c.p.c. consente alla parte soccombente la possibilità di scegliere tra la proposizione dell’appello immediato nei consueti termini di decadenza e la formulazione della riserva di impugnazione, differendo la proposizione del gravame avverso tale pronuncia senza decadere dalla relativa facoltà[21], è giocoforza qualificare correttamente le sentenze. E ciò in quanto, qualora ci si trovi davanti a una pronuncia che formalmente venga definita dal giudice come “non definitiva”, ancorché altri indici concorrano a qualificarla come “definitiva” (si pensi alla liquidazione delle spese del giudizio), la parte soccombente potrebbe vedere pregiudicato il proprio diritto all’impugnazione solo perché (come nel caso di specie) indotta in errore da elementi estrinseci della sentenza dei quali non si è in grado di far discendere la reale portata della stessa[22].

A tal proposito la Corte di Cassazione nella pronuncia in commento, al fine di evidenziare l’incidenza dell’errata qualificazione giuridica della sentenza sul regime impugnatorio, mutua da alcuni precedenti giurisprudenziali il c.d. principio dell’apparenza[23]. Il Collegio evidenzia, pertanto, come sia la consapevole scelta del giudice ad assumere importanza dirimente in sede di qualificazione giuridica di un determinato provvedimento, qualora la stessa sia capace di indurre la parte soccombente ad esperire riserva di impugnazione, scaturente dal convincimento che si tratti di sentenza non definitiva.

L’ordinanza, inoltre, risulta interessante poiché con la stessa la seconda sezione sottopone all’attenzione delle sezioni unite la questione relativa alla definitività della sentenza che approva il progetto di divisione nell’ambito dei procedimenti di scioglimento delle comunioni, profilando la necessità di superare i limiti imposti dall’approccio formalistico in esame.

Sul punto la Corte, richiamando quanto affermato in un precedente giurisprudenziale (Cass., 26 luglio 2016, n. 15466)[24], sostiene la natura definitiva della predetta sentenza – qualora la stessa sciolga la comunione rispetto a tutti i beni che ne facevano parte – «giacché risolve tutte le questioni ad essa relative, senza che assuma contrario rilievo l’omessa pronuncia sulle spese di giudizio».

Secondo tale impostazione, la riserva di gravame resterebbe esperibile per le sole pronunce che concludono le singole fasi del procedimento, avendo le stesse natura di sentenze non definitive.

Diversamente opinando – sempre secondo l’ordinanza in commento – «il processo stesso rischierebbe di entrare in una situazione di stallo dalla quale appare impossibile uscire»[25].

Alla luce di quanto sopra, è evidente come il tema dell’individuazione dei criteri idonei a qualificare la natura “definitiva” o “non definitiva” di una sentenza (in caso di cumulo di più domande) si mostri di centrale interesse e, dunque, meritevole di essere oggetto di pronuncia da parte delle sezioni unite.

L’assunto che precede muove dalla consapevolezza della potenziale e pregiudizievole incidenza sul piano dell’effettiva tutela dei diritti (compressione del diritto di impugnazione costituzionalmente garantito dall’art. 24 Cost.) e sul regime delle impugnazioni che possono scaturire dall’errata identificazione giuridica di una pronuncia.

3. Orientamento sostanziale e orientamento formale: gli approdi giurisprudenziali e dottrinali sulla questione

― A seguito della novella intervenuta nel 1950, il problema concernente l’effettiva individuazione dei criteri per effettuare il giusto discrimine tra sentenze “definitive” e “non definitive”, si pone oggi in termini piuttosto stringenti, in ragione della “fragilità” esegetica, di volta in volta, fornita dalla dottrina e dalla giurisprudenza di legittimità.

Sicché, proprio in considerazione di tale mancanza di univocità, il dibattito in parola ha, fino ad oggi, continuato a ruotare, così come in passato, intorno ad argomenti legati agli indici individuati dalla Suprema Corte, nella già citata sentenza del 1° marzo 1990, n. 1577, resa a sezioni unite, nell’intento di risolvere il conflitto tra la tesi c.d. sostanzialista e la tesi c.d. formalista.

Tale ultima pronuncia (come detto), aderendo al secondo degli orientamenti anzidetti, aveva affermato, infatti, il principio di diritto secondo cui la sentenza, emessa su una o più domande cumulate tra gli stessi soggetti, avesse natura non definitiva in mancanza di un esplicito provvedimento di separazione delle cause, ai sensi dell’art. 279, comma 2, n. 5 c.p.c., o di una statuizione dello stesso organo giudicante sulle spese relative alle domande decise.

D’altronde l’argomento in questione, al centro di un annoso dibattito giurisprudenziale sin dalle prime applicazioni della nuova normativa del 1950, ha fatto sì che sorgessero i due sopra emarginati orientamenti: sulla scia dell’anzidetto indirizzo sostanzialista, infatti, è stato ritenuto che la natura definitiva di una sentenza sia data dalla sua “esaustività”, in ragione dell’autonomia dell’oggetto della domanda cumulata rispetto all’oggetto dell’intero giudizio di merito. Sicché, la pronuncia che statuisca sull’intero rapporto processuale contenuto in quella singola domanda imporrebbe di attribuire alla stessa natura definitiva, a prescindere da ogni altro indice formale che “tenti” di conferirle una diversa qualificazione[26].

In ragione di ciò, saremmo di fronte ad una sentenza definitiva qualora l’accertamento contenuto nella stessa rappresenti il corollario di una cognizione (piena) del giudice rispetto ad una domanda che si pone come azione autonoma e, conseguentemente, costituisca oggetto autonomo di una decisione.

Aderendo a tale impostazione, il discrimine tra sentenze definitive e non definitive sarebbe determinato dall’idoneità della situazione giuridica contenuta nella domanda a costituire oggetto di autonomo giudizio, la cui decisione sia in grado di attribuire o negare definitivamente il bene della vita in contestazione.

La tesi dell’inammissibilità di sentenze non definitive su domande troverebbe, inoltre, avallo normativo nella lettura congiunta degli artt. 279 n. 4 e n. 5, 340 e 361 c.p.c. Ed infatti, la distinzione in oggetto sarebbe contenuta nel dispositivo di cui al n. 4 e al n. 5 della prima delle tre norme, in quanto il legislatore, avendo previsto la possibilità di emettere sentenze definitive solo su domande e non anche su questioni, avrebbe inteso ricomprendere nell’ambito delle sentenze emesse ai sensi degli artt. 103 e 104 c.p.c. anche quelle di cui all’art. 277, 2º comma, c.p.c.

Secondo i fautori di questa teoria, tale impostazione sarebbe confermata dal contenuto degli artt. 340 e 361 c.p.c. che, prevedendo la possibilità di differire l’impugnazione per le sole sentenze non definitive, fa espresso riferimento alle sentenze emesse ai sensi degli artt. 278 e 279, n. 4, c.p.c., senza alcuna menzione di quelle emanate ai sensi dell’art. 279, n. 5, c.p.c.[27]

Al suddetto orientamento si contrappone la tesi “formalista”[28], la quale pone a fondamento della definitività della sentenza indici formali quali il provvedimento di separazione delle cause emesso dal giudice ai sensi del 279, n. 5, c.p.c. e la condanna alle spese anche in assenza del provvedimento di separazione[29].

Contrariamente a quanto sostenuto dai fautori della teoria “sostanzialista”, secondo tale interpretazione sarebbe proprio il tenore letterale dell’art. 279, n. 5, c.p.c. l’elemento dirimente: la norma, infatti, non contenendo alcun riferimento alle sentenze di cui all’art. 277, comma 2° c.p.c., ma unicamente a quelle previste dagli artt. 103 e 104 c.p.c., attribuirebbe solo a queste ultime la natura di sentenze “definitive”. Conseguentemente, il provvedimento di separazione sarebbe ammissibile solo in presenza di pronunce avente natura e contenuto previsti dalle summenzionate norme; mentre le sentenze previste dall’art. 277, comma 2° sarebbero perfettamente riconducibili all’art. 279, n. 4, c.p.c., che prevede sentenze non definitive su domande.

Tuttavia, nonostante la giurisprudenza maggioritaria abbia aderito alla tesi formalista[30], secondo alcuni autori, il percorso tracciato dalla predetta impostazione non sarebbe del tutto perseguibile, sebbene la stessa sia fondata su elementi distintivi maggiormente concreti e meno evanescenti rispetto alla teoria sostanzialista. All’ampia discrezionalità del giudice si contrapporrebbe, infatti, la mancanza di un dato normativo certo sulla base del quale, lo stesso organo giudicante avrebbe la possibilità di fondare il proprio convincimento circa la definitività o meno di una statuizione[31].

Sulla scia di tali considerazioni critiche, la giurisprudenza[32], sul finire degli anni Novanta del secolo scorso, ha cercato di individuare criteri idonei a qualificare le sentenze, valorizzando alcuni elementi caratterizzanti le due teorie sopra descritte.

In particolare, pur privilegiando l’approccio c.d. formale, ha in parte accolto con favore la riformulazione della teoria sostanzialistica, la quale ha mitigato il generico concetto di “esaustività” e di “autonomia” dell’oggetto della domanda cumulata rispetto all’oggetto del giudizio di merito (su cui ruotava l’intera impostazione), reinterpretando la portata e il contenuto dell’art. 277, comma 2°, c.p.c. Tale ultima disposizione, rappresentando una deroga al principio di concentrazione della decisione ed attribuendo al giudice il potere di limitare quest’ultima a taluna delle domande proposte in giudizio, consentirebbe il frazionamento della pronuncia che avrebbe sempre natura di sentenza non definitiva. E ciò in quanto, il simultaneus processus, ossia di giudizio vertente su una pluralità di domande, riguarderebbe solo ipotesi di cumulo inscindibile, cause connesse per identità di titolo e oggetto, per pregiudizialità, accessorietà, incompatibilità, condizionalità o alternatività[33]. In questi termini, le sentenze emesse i sensi dell’art. 277, comma 2°, c.p.c., sarebbero ricomprese nell’art. 279 n. 4 c.p.c. e si spiegherebbe, altresì, il riferimento che le norme di cui agli artt. 340 e 361 c.p.c., fanno espressamente a tale ultima disposizione, laddove è prevista la possibilità per la parte soccombente di differire l’impugnazione all’esito del giudizio.

Ad ogni buon conto, la dottrina più attenta ha comunque messo in luce le fragilità delle sopra indicate interpretazioni, relegando le stesse ad un ruolo marginale, quali indici qualificativi di cui l’interprete deve avvalersi de iure condendo, in attesa di un incisivo intervento che chiarisca i termini della questione[34].

4. Considerazioni conclusive.

― In un contesto così delineato, seppur con l’ordinanza in commento la seconda sezione della Corte di Cassazione sembri non disdegnare l’idea di un approccio meno legato agli elementi intrinseci della sentenza, è evidente come la stessa privilegi l’impostazione esegetica c.d. formalista, che è non del tutto adattabile alle esigenze interpretative in esame.

Ne è infatti chiara conferma il riferimento alla giurisprudenza di legittimità che, nella materia oggetto della presente trattazione, ha da sempre invocato il c.d. principio dell’apparenza al fine di giustificare la maggiore incidenza – sull’identificazione della natura di un provvedimento – della qualificazione giuridica attribuita dal giudice, rispetto di c.d. prevalenza della sostanza sulla forma[35].

Del resto, l’ordinanza in commento, nel rimettere la questione alle sezioni unite, ribadisce come la natura definitiva o meno di una pronuncia debba sempre essere parametrata al raggio di efficacia del suddetto principio, dal momento che è sulla base dello stesso che si fonda l’affidamento delle parti, anche in presenza di uno soltanto tra i due incidi formali.

Conseguentemente, in assenza di un formale provvedimento di separazione o anche solo di condanna alle spese, ci troveremmo sempre davanti ad una sentenza non definitiva avverso la quale la parte soccombente avrà la possibilità di immediata impugnazione o di formulare riserva in attesa della definizione dell’intero giudizio.

Ciò che giustifica le perplessità esposte dalla seconda sezione è infatti la circostanza per cui il provvedimento con cui il giudice di primo grado ha pronunciato soltanto su alcune delle domande cumulate nello stesso processo, pur statuendo sulla ripartizione delle spese di lite, fosse caratterizzato dall’affermazione “non definitivamente pronunciando” datagli dallo stesso estensore nel dispositivo.

Il caso pone, quindi, una questione di massima di particolare importanza perché, nell’ipotesi di contrasto tra indici di carattere formale – idonei ad ingenerare l’affidamento del terzo ma di segno opposto tra loro – è necessario interrogarsi su quale tra gli stessi sia destinato a prevalere ovvero quale abbia carattere decisivo e quale invece recessivo.

Per tali ragioni, la teoria formalista, se, da un lato, sembri tutelare in sede di impugnazione la parte soccombente da spiacevoli inconvenienti derivanti da una errata qualificazione della sentenza di primo grado, dall’altro mostra come la stessa mostri tutte le sue criticità proprio nei casi come quello di specie, laddove la sussistenza di uno solo degli indici di qualificazione come la condanna alle spese, si scontri inevitabilmente con l’assenza di un provvedimento di separazione delle cause.

Ed infatti, aderendo alla teoria formale, se si dovesse intendere prevalente l’indice rappresentato dalla condanna alle spese, con la sentenza parziale n. 656/2007 il Tribunale di La Spezia avrebbe inteso emettere una sentenza definitiva. Conseguentemente, la locuzione “non definitivamente pronunciando”, contenuta all’interno del provvedimento di prosecuzione del giudizio, non indicherebbe implicitamente la volontà del giudice di non voler separare le cause, ma rappresenterebbe piuttosto un refuso, un errore materiale dato dal cumulo delle due domande proposte, idoneo però di per sé ad ingenerare errori circa il regime impugnatorio applicabile[36].

Sicché, se è vero che l’attività interpretativa e la ricerca di soluzioni non possano prescindere dalla considerazione di due linee guida fondamentali e complementari, quali garantire la coerenza dell’intero sistema processuale ed assicurare la tutela dei diritti, a mio sommesso avviso, il problema di fondo è rappresentato dalla mancanza di interazione tra il piano formale e il piano sostanziale. E ciò, in quanto, l’enunciazione dei criteri che si riconnettono alla prima delle due teorie dovrebbe rappresentare l’esplicitazione di una obiettiva valutazione del giudice circa l’opportunità o meno di proseguire con il simultaneo processo.

Obiettiva valutazione che, pertanto, a livello teorico rappresenterebbe la sintesi che si ricava da una precedente analisi sulla predetta opportunità, la quale sia stata sufficientemente motivata.

Alla luce di quanto detto ed in attesa di un intervento legislativo in materia, è bene che le sezioni unite, sulla scorta anche delle precedenti pronunce, enuncino il principio di diritto secondo cui in caso di cumulo oggettivo di domande non altrimenti connesse ex 104 c.p.c., la pronuncia parziale debba essere sempre qualificata come definitiva; mentre, ove il cumulo si presenti inscindibile o le domande siano tra loro connesse per identità di titolo e oggetto, per pregiudizialità, accessorietà, incompatibilità, condizionalità o alternatività, la pronuncia parziale si connoterà come non definitiva e la scelta se impugnare immediatamente o attendere l’esito del processo sarà rimessa alla discrezionalità delle parti[37]

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Note

[1] Cass. Civ., 6 marzo 2020, n. 6624, in www.dejureguffre.it

[2] Legge n. n. 581 del 14 luglio 1950, ratifica del decreto legislativo 5 maggio 1948, n. 483, contenente modificazioni e aggiunte al Codice di procedura civile, in G.U. Serie Generale n.186 del 16 agosto 1950, Suppl. Ordinario.

[3] Conforti, I provvedimenti del collegio giudicante secondo il nuovo codice di procedura civile, in Foro it., 1941, IV, c. 19.

[4] L’art. 103 c.p.c. recita: “più parti possono agire o essere convenute nello stesso processo, quando tra le cause che si propongono esiste connessione per l’oggetto o per il titolo dal quale dipendono, oppure quando la decisione dipende, totalmente o parzialmente, dalla risoluzione di identiche questioni. Il giudice può disporre, nel corso della istruzione o nella decisione, la separazione delle cause, se vi è istanza di tutte le parti, ovvero quando la continuazione della loro riunione ritarderebbe o renderebbe più gravoso il processo, e può rimettere al giudice inferiore le cause di sua competenza”

[5] Art. 104 c.p.c.: “contro la stessa parte possono proporsi nel medesimo processo più domande anche non altrimenti connesse, purché sia osservata la norma dell’art. 10 secondo comma. È applicabile la disposizione del secondo comma dell’articolo precedente.

[6] Il collegio pronuncia ordinanza quando provvede soltanto su questioni relative all’istruzione della causa, senza definire il giudizio, nonché quando decide soltanto questioni di competenza. In tal caso, se non definisce il giudizio, impartisce con la stessa ordinanza i provvedimenti per l’ulteriore istruzione della causa. Il collegio pronuncia sentenza:

1) quando definisce il giudizio, decidendo questioni di giurisdizione;

2) quando definisce il giudizio, decidendo questioni pregiudiziali attinenti al processo o questioni preliminari di merito;

3) quando definisce il giudizio, decidendo totalmente il merito;

4) quando, decidendo alcune delle questioni di cui ai numeri 1, 2 e 3, non definisce il giudizio e impartisce distinti provvedimenti per l’ulteriore istruzione della causa;

5) quando, valendosi della facoltà di cui agli articoli 103, secondo comma, e 104, secondo comma, decide solo alcune delle cause fino a quel momento riunite, e con distinti provvedimenti dispone la separazione delle altre cause e l’ulteriore istruzione riguardo alle medesime, ovvero la rimessione al giudice inferiore delle cause di sua competenza.

I provvedimenti per l’ulteriore istruzione, previsti dai numeri 4 e 5, sono dati con separata ordinanza.

I provvedimenti del collegio, che hanno forma di ordinanza, comunque motivati, non possono mai pregiudicare la decisione della causa; salvo che la legge disponga altrimenti, essi sono modificabili e revocabili dallo stesso collegio, e non sono soggetti ai mezzi di impugnazione previsti per le sentenze. Le ordinanze del collegio sono sempre immediatamente esecutive. Tuttavia, quando sia stato proposto appello immediato contro una delle sentenze previste dal n. 4 del secondo comma, il giudice istruttore, su istanza concorde delle parti, qualora ritenga che i provvedimenti dell’ordinanza collegiale siano dipendenti da quelli contenuti nella sentenza impugnata, può disporre con ordinanza non impugnabile che l’esecuzione o la prosecuzione dell’ulteriore istruttoria sia sospesa sino alla definizione del giudizio di appello. L’ordinanza è depositata in cancelleria insieme con la sentenza.

[7] Quando è già accertata la sussistenza di un diritto, ma è ancora controversa la quantità della prestazione dovuta, il collegio, su istanza di parte, può limitarsi a pronunciare con sentenza la condanna generica alla prestazione, disponendo con ordinanza che il processo prosegua per la liquidazione.

In tal caso il collegio, con la stessa sentenza e sempre su istanza di parte, può altresì condannare il debitore al pagamento di una provvisionale, nei limiti della quantità per cui ritiene già raggiunta la prova.

[8] Art. 340 c.p.c. Riserva facoltativa d’appello contro sentenze non definitive.

Contro le sentenze previste dall’articolo 278 e dal n. 4 del secondo comma dell’art. 279, l’appello può essere differito, qualora la parte soccombente ne faccia riserva, a pena di decadenza, entro il termine per appellare e, in ogni caso, non oltre la prima udienza dinanzi al giudice istruttore successiva alla comunicazione della sentenza stessa.
Quando sia stata fatta la riserva di cui al precedente comma, l’appello deve essere proposto unitamente a quello contro la sentenza che definisce il giudizio o con quello che venga proposto, dalla stessa o da altra parte, contro altra sentenza successiva che non definisca il giudizio.
La riserva non può più farsi, e se già fatta rimane priva di effetto, quando contro la stessa sentenza da alcuna delle altre parti sia proposto immediatamente appello.

[9] Contro le sentenze previste dall’articolo 278 e contro quelle che decidono una o alcune delle domande senza definire l’intero giudizio, il ricorso per cassazione può essere differito, qualora la parte soccombente ne faccia riserva, a pena di decadenza, entro il termine per la proposizione del ricorso, e in ogni caso non oltre la prima udienza successiva alla comunicazione della sentenza stessa.
Qualora sia stata fatta la riserva di cui al precedente comma, il ricorso deve essere proposto unitamente a quello contro la sentenza che definisce il giudizio, o con quello che venga proposto, dalla stessa o da altra parte, contro altra sentenza successiva che non definisca il giudizio.
La riserva non può farsi, e se già fatta rimane priva di effetto, quando contro la stessa sentenza da alcuna delle altre parti sia proposto immediatamente ricorso.

[10] Ai sensi dell’art. 277 c.p.c. “il collegio nel deliberare sul merito deve decidere tutte le domande proposte e le relative eccezioni, definendo il giudizio.
Tuttavia il collegio anche quando il giudice istruttore gli ha rimesso la causa a norma dell’art. 187 primo comma, può limitare la decisione ad alcune domande, se riconosce che per esse soltanto non sia necessaria un’ulteriore istruzione, e se la loro sollecita definizione è di interesse apprezzabile per la parte che ne ha fatto istanza”.

[11] Costantino, Ancora sulla distinzione tra sentenze definitive e non definitive riservabili, in Foro it., 1993, I, c. 2470; Fabiani, Sulla distinzione tra sentenze definitive e non definitive, in Foro it., 1997, I, c. 2148; Poggeschi, Rassegna di giurisprudenza: sentenza parziale, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1947, pp. 162 – 177 e pp. 481 – 492; Andrioli, Sentenza parziale e pluralità di parti, in Giur. Compl. Cass. civ., 1944, p. 333; Montesano, Questioni preliminari e sentenze parziali di merito, in Riv. dir. proc., 1969, p. 598; Id., Sentenza parziale su questione di merito non «preliminare» di domanda indivisibile, in Riv. dir. proc., 1970, p. 330; Id., Sentenze endoprocessuali nei giudizi civili di merito, Riv. dir. proc. 1971, p. 17 ss.; Id., Cumulo di domande e sentenze non definitive, in Giust. civ., 1985, I, p. 3132; Id., Ancora su cumulo di domande e sentenze non definitive, in Giust. civ., 1986, I, p. 2371; Denti, Sentenze non definitive su questioni preliminari di merito e cosa giudicata, in Riv. dir. proc., p. 969, p. 213; Id., Ancora l’efficacia della decisione di questioni preliminari di merito, in Riv. dir. proc. 1970, p. 60 ss.; Cerino Canova, Sul contenuto delle sentenze non definitive di merito, in Riv. dir. proc., 1971, p. 249 ss. e p. 396 ss.; Proto Pisani, Litisconsorzio facoltativo e separazione di cause, in Riv. dir. proc., p. 1968, p. 136 ss.; Pugliese, Giudicato civile, voce dell’Enciclopedia del diritto, Milano, 1969, XVIII, p. 836 ss.; Garbagnati, Riserva di appello e appello incidentale tardivo contro una sentenza pronunciata a norma dell’art. 277 cod. Proc. Civ., in Foro Pad., 1960, I, c. 1083; Id., Questioni preliminari di merito e questioni pregiudiziali, in Riv. dir. proc., 1976, p. 257 ss.; Scarselli, nota a Cass. 11 luglio 1985, n. 4113, in Foro it., 1986, I, c. 2 e c. 2574 ss.

[12] Le vigenti disposizioni del codice di rito, prevedono, quindi, che il giudice pronuncia sentenza definitiva:

1) nell’ipotesi in cui, come prevede l’art. 279, comma 2°, n. 1 c.p.c., ‹‹definisce il giudizio, decidendo questioni di giurisdizione o di competenza››;

2) nell’ ipotesi in cui, come stabilisce l’art. 279, comma 2°, n. 2 c.p.c., ‹‹definisce il giudizio, decidendo questioni pregiudiziali attinenti al processo o questioni preliminari di merito››;

3) nell’ipotesi in cui, come recita l’art. 279, comma 2°, n. 3 c.p.c., ‹‹definisce il giudizio, decidendo totalmente il merito››;

4) nell’ipotesi in cui, infine, secondo quanto previsto nell’art. 279, comma 2° n. 5 c.p.c., ‹‹valendosi della facoltà di cui agli articoli 103, secondo comma, e 104, secondo comma, decide solo alcune delle cause fino a quel momento riunite, e con distinti provvedimenti dispone la separazione delle altre cause e l’ulteriore istruzione riguardo alle medesime, ovvero la rimessione al giudice inferiore delle cause di sua competenza››.

[13] Il giudice, viceversa, emette sentenza non definitiva (29):

  1. a) qualora, secondo quanto stabilito dall’art. 279, comma 2°, n. 4 c.p.c., ‹‹decidendo alcune delle questioni di cui ai numeri 1, 2 e 3, non definisce il giudizio e impartisce distinti provvedimenti per l’ulteriore istruzione della causa››;
  2. b) qualora, secondo quanto previsto dal 1° comma dell’art. 278 c.p.c. pronuncia ‹‹con sentenza la condanna generica alla prestazione, disponendo con ordinanza che il processo prosegua per la liquidazione››.

 Attraverso le ordinanze, invece, possono essere decise solo ed esclusivamente questioni concernenti l’istruzione della causa.

[14] Califano, Il sistema di impugnazione delle sentenze non definitive o parziali come premessa per l’indagine sul possibile contenuto di siffatti provvedimenti, in www.judicium.it, 2020.

[15] Cass. 21 dicembre 1984 n. 6659, in Foro it., 1985, I, c. 1742; Cass. 10 novembre 1989 n. 4777, in Nuova giur. civ. comm., 1990, I, p. 488, con nota di Giussani; in dottrina, Andrioli, Commento, p. 247; Proto Pisani, Litisconsorzio, p. 145 ss.; Ferri, in Comoglio –Ferri- Taruffo, Lezioni sul processo civile, Bologna, 1995, p. 650; Monteleone, Diritto processuale civile, II, Padova, 1995, p. 232.

[16] Cass. 28 giugno 1986, n. 4331, in Foro it., 1987, I, c. 144, con nota di Cea; Mandrioli, Corso di diritto processuale civile, XII ed., II, Torino, 1998, p. 278; Liebman, Manuale di diritto processuale civile, IV ed., II, Milano, 1981; Cerino Canova, Sul contenuto delle sentenze, cit., p. 421 ss.; Verde, Profili del processo civile. 2. Processo di cognizione, Napoli, 1996, p. 171; Fabiani, Sulla distinzione, cit., c. 2152; Cass. 4 giugno 1985 n. 3325, in Foro it., 1987, I, c. 144; Chizzini, voce Sentenza nel diritto processuale civile, in Dig. disc. priv., sez.civ., XVIII, Torino, 1998, p. 262; Cea, Pluralità di domande e sentenze non definitive, in Foro it., 1987, I, c. 152.

[17] Sassani, Osservazione (s. t.) a Cass. 1.3.1990, n. 1577, in Giur. it., 1991, I, p. 1;

[18] Cass., sez. un., 8 ottobre 1999, n. 711 e n. 712, in Foro it., 2000, I, c. 123, con osservazioni di Fortini, Decisione parziale su domande cumulate, loro separazione e pronuncia sulle spese; in Giust. civ., 2000, I,  p. 63, con nota di Califano, Le s.u. ripropongono l’indirizzo formale in tema di sentenze non definitive su una fra più domande cumulate nello stesso processo; in Corr. giur., 2000, V, p. 642, con note di Montanari, Cumulo di domande e sentenza non definitiva e postilla di Consolo, Postilla su un dibattito seducente, ma ormai maturo, se non estenuante quanto alle non definitive su domande; in Guida al diritto, n. 44, 13 novembre 1999, con nota di Piselli, L’indirizzo formale scelto dalla Cassazione evita il rischio di interpretazioni incerte.

[19] Cass., sez. un., 28 aprile 2011, n. 9441, in www.dejureguffre.it; Cass. civ., sez. un., 16 aprile 2007, n. 8949, in Giust. civ., 2008, I, p. 197.

[20] V. p.12  dell’ordinanza in commento.

[21] Tedoldi, sub art. 340, in Codice di procedura civile. Commentario, diretto da Consolo, II, Milano, 2018, p. 1279 ss.; Bove, Sentenze non definitive e riserva d’impugnazione, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1998; Califano, L’impugnazione della sentenza non definitiva, Napoli, 1996; Cerino Canova, Dell’appello avverso le sentenze non definitive, in Riv. dir. proc., 1985.

[22] Sulla riserva di impugnazione v. Cass., 22 gennaio 2019, n. 1574, in Giur. it, 2019, XI, p. 2431, con nota di Cordero, Validità della riserva d’impugnazione contenuta in una memoria autorizzata.

[23] Cass., sez. un. 16 aprile 2007, n. 8949, in Giust. civ., 2008, I, p. 197; Cass., sez. un., 11 gennaio 2011, n. 390, in Corr. mer., 2011, p. 623.

[24] Nello stesso senso v. Cass., 29 dicembre 2011, n. 29829, in Mass. Giust. civ., 2011, p. 1896.

[25] Cfr. Cass., 7 marzo 2007, n. 5203; Cass., 16 novembre 1996, n. 10066; Cass., 10 dicembre 1989, n. 4777, in Nuova giur. civ. comm., 1990, I, p. 488; Cass., 18 giugno 1986, n. 4080.

[26] Sul punto, Cass., 21 dicembre 1984, n. 6659, in Foro it., 1985, I, c. 1742; Cass., 10 novembre 1989, n. 4777, cit., p. 488; Cass., 12 giugno 1992, n. 7225, in Foro it., 1993, I, c. 480; Cass., 20 maggio 1993, n. 5703, in Foro it., 1994, I, c. 829.

[27] Andrioli, Commento al Codice di procedura civile, II, 1956, Napoli, p. 243 ss.; Proto Pisani, Litisconsorzio facoltativo, cit., p. 136 ss.; Monteleone, Diritto processuale civile, cit., p. 230 ss.; in senso contrario Costantino, Ancora sulla distinzione, cit., c. 2471, il quale mette in evidenza come la tesi sostanzialista non tenga conto di quanto previsto dall’art. 279 n. 4, poiché secondo l’Autore la norma sembrerebbe contemplare la possibilità per il giudice di emettere sentenze non definitive su domande; ancora in senso contrario Giussani, nota a Cass., 10 novembre 1989, n. 4777, cit., p. 494; Fabiani, Sulla distinzione, cit., c. 2150.

[28] La dottrina maggioritaria si è schierata in favore di questo orientamento: Satta, Comm. cod. proc. civ., II, 1960, Milano, p. 320 ss.; Liebman, Manuale di diritto processuale, cit.; Cerino Canova, Sul contenuto delle sentenze, cit., p. 421 ss.; Mandrioli, Diritto proc. civ., II, XVIII, 2006, Milano, p. 294 ss.; Verde, Profili del proc. civ., II, 1999, Napoli, p. 165 ss.; Montesano, Ancora sul cumulo di domande, cit., p. 2371 ss.; Cea, Pluralità di domande, cit., c. 145;

[29] Cass., 28 giugno 1986, n. 4331, in Foro it., 1987, I, c. 144.

[30] Cass., sez. un., 1 marzo 1990, n. 1577, in Giur. it., 1991, I, p. 841; Cass., 24 febbraio 1999, n. 1584, in Dir. maritt., 2000, p. 239; Cass., 13 gennaio 1998 n. 209, in Mass. Giur. it., 1998; Cass 15 gennaio 1997, n. 1417, in Foro it., 1997, I, c. 2147; Cass., 13 gennaio 1995, n. 372, in Foro it., 1996, I, c. 239.

[31] Chizzini, voce Sentenza, cit. p. 262; Fabiani, Sulla distinzione, cit., p. 2147.

[32] Cass. Sez. un., 8 ottobre 1999, n. 711, in Corr. giur., 2000, V, p. 642; di recente ribadita da Cass., 25 marzo 2011, n. 6993, in Mass. Giur. it., 2011.

[33] Bove, Sentenze non definitive, cit., p. 415 ss.; v. anche Montesano, Sentenze endoprocessuali, cit., p. 36 ss.; Menchini, Il processo litisconsortile. Struttura e poteri delle parti, I, Milano, 1993, p. 349 ss.

[34] Consolo, Cumulo di domande e sentenza non definitiva, in Corr. giur., 2000, V, p. 653.

[35] Cass., 29 dicembre 2011, n. 29829; Cass., 22 marzo 2017, n. 7243; antecedentemente alla pronuncia delle Sezioni Unite del 1990, si veda Cass., 27 marzo 1987, n. 2992.

Sul c.d. principio dell’apparenza: Cass., sez. un., 16 aprile 2007, n. 8949, in Foro it., 2008, I, 197; Cass., sez. un., 11 gennaio 2011, n. 390, in Giust. civ., 2011, I, p. 623; Cass., 26 maggio 2017, n. 13381, in www.dejuregiuffre.it.

[36] Lombardi, Sentenze definitive e non definitive: si preannuncia un ulteriore intervento delle sezioni unite, in www.judicium.it., secondo cui: «l’individuazione del criterio prevalente – evidenzia il Collegio rimettente – assume specifica rilevanza per “individuare i rimedi per elidere la contraddittorietà”, giacché, se si reputa prevalente la qualificazione del provvedimento impressa dal giudice, l’erroneità della pronuncia sulle spese, per carenza di un provvedimento definitivo, va denunciata con gli ordinari mezzi di gravame mentre, se si reputa prevalente la definizione delle spese, la “diversa” qualificazione del provvedimento data dal giudice si risolve “in un vero e proprio errore materiale, eventualmente suscettibile di correzione”»; sul punto si veda, inoltre Acone, Procedimento di correzione degli errori materiali e condanna alle spese, in Foro it., 2007, I, c. 3211; Id., Correzione e integrazione dei provvedimenti del giudice, in Enc. giur. Treccani, XI, Roma, 1988, p. 5; Id., Riflessioni sul rapporto tra correzione degli errori materiali ed i mezzi di impugnazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1980, 1297, p. 304 ss.

[37] Sul punto Menchini, Il processo litisconsortile, cit., p. 349; Bove, Sentenze non definitive, cit., p. 426 ss.

 

Teresa Cinzia Comberiati

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