La contraffazione quale fattispecie di concorrenza sleale

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1. La illiceità della contraffazione anche sotto il profilo concorrenziale
La contraffazione costituisce esempio tipico di illecito plurioffensivo. Nell’ambito di tale fattispecie, infatti, ciascun contegno o atto contraffattorio risulta in grado di violare più discipline nello stesso tempo. Viene in rilievo, in primo luogo, la disciplina in materia di concorrenza sleale, ex artt. 2598 e ss. c.c.[1]. A tenore di tale norma, in particolare, “Ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi e dei diritti di brevetto, compie atti di concorrenza sleale chiunque: 1) usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente… Omissis… 3) si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda”.
 
2. Inquadramento della fattispecie e presupposti applicativi
2.a. Natura “oggettiva” della responsabilità ex artt. 2598 e ss.
Per giungere ad un corretto inquadramento della fattispecie, sembra opportuno analizzare gli elementi dell’illecito concorrenziale, evidenziando, in particolare, se e quando esso può configurarsi, e con quali presupposti. In primo luogo, valga osservare che l’illecito concorrenziale non è un illecito “doloso” o “colposo”. Al contrario, l’illecito concorrenziale si configura come forma di responsabilità oggettiva, del tutto scissa dalla “colpa”, e perfino dalla consapevolezza di commetterlo[2]. In tale contesto, pertanto, “poichè il dolo e la colpa non sono elementi costitutivi della fattispecie legale di cui all’art. 2598 c.c., anche in relazione al n. 3 di tale norma la qualificazione degli atti di concorrenza sleale deve essere compiuta in base ad un criterio obiettivo[3]. Già solo per il mero compimento dell’atto di concorrenza sleale, pertanto, ai sensi dell’art. 2599 c.c., “la sentenza che accerta atti di concorrenza sleale ne inibisce la dontinuazione e dà gli opportuni provvedimenti perché ne siano eliminati gli effetti”. Ove, poi, l’atto concorrenzialmente sleale sia stato compiuto anche con dolo o colpa, ai sensi dell’art. 2600 c.c. “l’autore è tenuto anche al risarcimento dei danni. In tale ipotesi può essere ordinata la pubblicazione della sentenza. Accertati gli atti di concorrenza, la colpa si presume”. Il combinato disposto degli artt. 2598, 2599 e 2600 c.c., pertanto, in relazione alle privative industriali può schematizzarsi come segue:
-nonostante la vigenza della disciplina in materia di brevetti per invenzione, e, più in generale, di privative industriali, la normativa in materia di concorrenza sleale resta “ferma” e, conseguentemente, applicabile in via cumulativa e concorrente[4]. In tal modo, essa può venire invocata anche a tutela del c.d. segreto industriale, concernente i prodotti o i metodi produttivi in relazione ai quali l’azienda non abbia interesse a conseguire il brevetto (ad esempio, in ragione della temporaneità della tutela brevettuale). Con particolare riferimento al c.d. segreto aziendale, inoltre, va rilevato che è lo stesso Codice della Proprietà Industriale, agli artt. 99 e 100, a ricondurre la violazione di esso alla tutela della concorrenza sleale ex art. 2598, n. 3[5]
-la contraffazione di brevetto industriale (in quanto atto slealmente concorrenziale), sia essa atto singolo e/o parte di una più complessivamente intesa “attività”, è sanzionabile ex se, non rilevando in alcun modo la sussistenza o meno di elemento soggettivo, sub specie di dolo e/o colpa (peraltro presunta, come abbiamo visto, ex art. 2600 c.c.). Accertata la sussistenza dell’atto, lo stesso è suscettibile di apposita pronuncia inibitoria alla continuazione (anche, come vedremo, in via d’urgenza);
-sul responsabile dell’illecito concorrenziale incomberà l’onere di dimostrare (quantomeno) il proprio difetto di colpa. In caso contrario, oltre all’inibitoria, il Giudice civile, su richiesta del concorrente leso potrà condannarlo anche al risarcimento del danno, e potrà disporre altresì la pubblicazione della sentenza, ex art. 2600.
 
2.b. L’imitazione servile nei brevetti per invenzione industriale – La “confusione” e la “confondibilità”
L’art. 2598 c.c., n. 1, come evidenziato in precedenza, tutela l’impresa, tra l’altro, dalla imitazione servile dei propri prodotti da parte di un concorrente, anche se tutelati dalla privativa brevettuale. Una delle differenze maggiormente significative tra la tutela concorrenziale e quella brevettuale, peraltro, risiede nella natura potenzialmente perpetua della prima ed in quella, invece, limitata nel tempo della seconda. E’ evidente, pertanto, la possibilità che in tale contesto possano generarsi delle sovrapposizioni e la conseguente sempre maggiormente restrittiva interpretazione dell’art. 2598, n. 1, c.c., da parte della giurisprudenza. In altri termini, posto che la sostanziale sovrapponibilità delle due discipline avrebbe presumibilmente generato la possibile disapplicazione della tutela brevettuale, proprio per il suo carattere limitato nel tempo. A tal fine, la giurisprudenza ha introdotto via via una serie di elementi distintivi (e di presupposti applicativi) tra la disciplina brevettuale e quella concorrenziale, stabilendo, ad esempio:
-la non applicabilità dell’art. 2598 c.c. agli elementi c.d. “intrinseci” del prodotto (quelli, in altri termini, necessitati proprio dalla tipologia del prodotto: ad es., la forma rotonda di un cerchione per automobile)[6];
-la non applicabilità della medesima norma anche ai casi di privative industriali scadute, salva l’ipotesi di vera e propria servile imitazione[7];
-in caso di forme meramente ornamentali non brevettate o non brevettabili (perché ad esempio non “nuove”), la applicabilità dell’art. 2598, n. 1, c.c. unicamente alle forme che posseggano un vero e proprio carattere distintivo[8].
Tanto premesso, va comunque rilevato che ciò che viene richiesto dalla norma non è la effettiva confusione tra prodotti, bensì la mera, potenziale, confondibilità. Anche l’accertamento del requisito della confondibilità potenziale viene comunque inteso in maniera restrittiva. Per un recente orientamento, ad esempio[9], “affinchè si realizzi il presupposto di un illecito concorrenziale, non è sufficiente la semplice imitazione di un attrezzo prodotto, dal momento che la imitazione rilevante ai fini della concorrenza sleale per confondibilità non si identifica con la riproduzione di qualsiasi forma del prodotto altrui, ma solo con quella che cade sulle caratteristiche esteriori dotate di efficacia individualizzante e cioè idonee, proprio in virtù della loro capacità distintiva, a ricollegare il prodotto ad una determinata impresa, restando esclusa, pertanto, nel caso di prodotti standardizzati ed usuali, privi di connotati di originalità[10].
In altri termini, la giurisprudenza (che ormai sembra peraltro consolidata sul punto) compie una rigida distinzione tra azioneesercitata secondo la disciplina in materia di brevetto, ed azione esercitata sulla base delle norme in materia di concorrenza sleale, ex artt. 2598 e ss. c.c.. Nel primo caso, è alla luce di quella disciplina che occorrerà valutare se vi sia stata effettivamente contraffazione. Nel secondo caso, ed al fine di non generare delle mere duplicazioni di tutela, occorre un quid pluris. Occorre, in altri termini:
a) che l’imitatore non abbia comunque imitato unicamente parti “interne”;
b) che l’imitatore abbia imitato, anche nell’ambito dei componenti esterni, anche forme non “necessitate”, e dunque atte a generare una effettiva situazione di confondibilità.
 
2.c. La sottrazione di segreti aziendali non oggetto di brevettazione
Ulteriore profilo di illiceità concorrenziale della condotta del contraffattore, indirettamente connesso con la tutela brevettuale, può poi rinvenirsi nella sottrazione di segreti aziendali[11]. Può accadere, infatti, che a causa della limitata tutela temporale conseguente all’ottenimento del brevetto, l’imprenditore ritenga preferibile omettere la brevettazione ed orientarsi per il mantenimento del segreto in ordine alla composizione del prodotto (talora ciò è effettivamente possibile, come nel caso di formule chimiche con componenti in parte “riservati”). Si è rinvenuto, in giurisprudenza, un orientamento restrittivo, il quale limiterebbe unicamente a determinate categorie di soggetti l’operatività del dovere di segretezza[12]. . In tale contesto, peraltro, giurisprudenza assai recente[13] ha ritenuto che ha confermato che costituisce illecito persino la comunicazione di una password da parte del dipendente ad un proprio collega che, a propria volta, era stato licenziato. Va rilevato, peraltro, che in casi analoghi il dipendente – infedele che comunichi dati riservati ad un concorrente dell’imprenditore, in tal modo “fiancheggiandolo” risponderebbe plausibilmente, oltre che (contrattualmente) in proprio, anche (in via extracontrattuale) per concorso ex artt. 2598 e ss..
 
2.d. Violazione di norme pubblicistiche
Ulteriore profilo di illiceità concorrenziale della contraffazione deve ravvisarsi, inoltre, nella c.d. slealtà per violazione di norme pubblicistiche. La fattispecie viene comunemente inquadrata nell’ambito del n. 3 dell’art. 2598 c.c., quale mezzo “non conforme ai principi della correttezza professionale[14]. La responsabilità da illecito concorrenziale, in tale contesto, si fonda sostanzialmente sulla seguente consecutio: a) vi sono norme[15] la cui violazione da parte di un’impresa genera una assai rilevante diminuzione dei costi di gestione; b) a tale diminuzione di costi consegue un impiego sistematico dei maggiori capitali nell’attività di impresa; c) ciò costituisce un danno per il concorrente, ed un danno connotato, tra l’altro, dei requisiti di “ingiustizia” di cui all’art. 2043 c.c.. Per la dottrina, “nella fattispecie in esame il contenuto del diritto alla lealtà della concorrenza si specifica quindi in funzione dell’osservanza del principio di uguaglianza nella disciplina della lotta concorrenziale, e questa connotazione – la cui importanza è superfluo sottolineare – rende la fattispecie lesiva particolarmente ‘vitale’ soprattutto perché tale fattispecie assume un ruolo strategico nell’ambito sistematico dei rapporti economici[16].
3.
Alla luce di quanto sopra, appare di tutta evidenza la natura plurioffensiva della condotta contraffattoria. Essa, in particolare, è in grado di generare danno ingiusto risarcibile idoneo, in assenza di immediata inibizione del contegno lesivo, a pregiudicare grandemente, anche irreparabilmente, l’altrui azienda. Nei confronti di tali violazioni, la azione del concorrente danneggiato può pertanto svolgersi, in uno svariato numero di sedi, alle quali assai spesso è opportuno rivolgersi anche contemporaneamente:
-in primo luogo, avanti il Giudice ordinario azionando la disciplina a tutela dei segni distintivi. Il concorrente leso dall’altrui attività sleale potrà pertanto domandare i provvedimenti previsti dal Codice della Proprietà Industriale[17];
-ancora, e sempre avanti il Giudice ordinario, è assai opportuno esercitare anche, in via cumulativa e concorrente, l’azione “ordinaria” da concorrenza sleale, ex artt. 2598 e ss. c.c.;
-ancora, ove l’attività di contraffazione si estrinsechi anche nella pubblicizzazione dei prodotti contraffatti, vi è la possibilità di ricorrere sia alla Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato[18] e, se il contraffattore aderisce anche al sistema autodisciplinare, anche al Giurì di Autodisciplina Pubblicitaria;
-infine, mediante segnalazione anche all’Alto Commissario per la lotta alla contraffazione[19], per i provvedimenti di competenza.
 
 
Giovanni Adamo
Avvocato in Bologna (www.studiolegaleadamo.it) – Cultore della Materia di Diritto Civile nell’Università di Bologna


[1]     In materia, cfr., tra gli altri, Ghidini, Della concorrenza sleale, in Commentario Scialja – Branca, 1991; Mantovani, Le scriminanti nella qualificazione dei comportamenti concorrenziali, in Riv. Dir. Proc.Civ., 1988; Nivarra, Contributo all’esegesi dell’art. 2597 c.c., in Riv. Dir. Proc. Civ., 1988; Cottino, Diritto commerciale, Padova, 1987; Ravà, Diritto industriale, Torino, 1986; Auteri, La concorrenza sleale, in Rescigno (a cura di), trattato di diritto privato, 1984; Ghidini, La concorrenza sleale, Torino, 1982; Ghidini – Libertini – Potzolu, La concorrenza ed i consorzi, in Galgano (a cura di), Trattato di diritto civile e commerciale, 1981; Rotondi, Diritto industriale, Padova, 1965; Mangini, La vendita sotto costo come atto di concorrenza sleale, in Riv. Dir. Civ., 1962, I, 470 e ss.; Guglielmetti, Limiti negoziali alla concorrenza, Padova, 1961; Ascarelli, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, Milano, 1960; Di Cataldo, La tutela giurisdizionale, in Il Dir. Ind., 2005, 51 e ss.; Sordelli, Provvedimenti cautelari nel diritto industriale e nel diritto d’autore e nella concorrenza, Padova, 1988; Tavassi, La tutela giudiziale, in AA. VV., Brevetti, marchio, ditta, insegna. Giurisprudenza sistematica di diritto civile e commerciale, II, 1213, Utet, Torino, 2003; Ubertazzi, Commentario breve al diritto della concorrenza, Padova, 2004; Vanzetti – Di Cataldo, Manuale di diritto industriale, Milano, 2003; Bonasi Benucci, Atto illecito e concorrenza sleale, in Riv. Trim. dir. e prat. civ., 1957, 598 e ss.; Ferrari, Osservazioni sui soggetti della concorrenza sleale, in Riv. Dir. Ind., 1956, II. 425 e ss.; AA. VV., Proprietà industriale e concorrenza, Torino, 2005; Del Giudice, Compendio di diritto industriale, Napoli, 2005.
[2]     A titolo esemplificativo, costituirebbe atto di concorrenza sleale la messa in commercio di un prodotto “servilmente imitato” anche in assenza di consapevolezza della esistenza sul mercato del prodotto “originale”.
[3]     Così Cass., 20 giugno 1996, n. 5718, in Dir. Ind., 1996, 932, con nota di Pollettini; in senso conforme, cfr. Cass., SS. UU., 23 novembre 1995, n. 12103, in Giust. Civ. Mass., 1995, Fasc. 11.
[4]     In questo contesto, pertanto, la disciplina in materia di slealtà concorrenziale, pur mantenendo la propria autonomia concettuale ed applicativa, potrebbe venire invocata in via residuale per sanzionare imitazioni anche di prodotti non brevettati. Cfr., in tal senso, Trib. Napoli, 27 febbraio 2001, in Giur. merito, 2001, 671 e ss., per il quale “la concorrenza sleale per imitazione servile sussiste anche se il prodotto tutelato non abbia conseguito un brevetto per modello o disegno ornamentale, in ragione del principio del divieto di imitazione servile confusoria”.
[5]     A tenore dell’art. 99 Cod. Propr. Ind., infatti, “Costituiscono oggetto di protezione le informazioni aziendali e le esperienze tecnico – industriali, comprese quelle commerciali, soggette al legittimo controllo del detentore, ove tali informazioni: a) siano segrete, nel senso che non siano, nel loro insieme o nella precisa configurazione dei loro elementi, note o facilmente accessibili agli esperti ed agli operatori del settore; b) abbiano valore economico in quanto segrete; c) siano sottoposte, da parte delle persone al cui legittimo controllo sono soggette, a misure ragionevolmente adeguate a tenerle segrete. Costituiscono altresì oggetto di protezione i dati relativi a prove o altri dati segreti la cui elaborazione comporti un considerevole impegno ed alla cui presentazione sia subordinata l’autorizzazione della immissione in commercio di prodotti chimici, farmaceutici o agricoli implicanti l’uso di nuove sostanze chimiche”. Per l’art. 100, poi, ancora più specificamente, “Costituisce atto illecito fonte di responsabilità extracontrattuale ed atto non conforme ai principi della correttezza professionale ex art. 2598, n. 3, c.c., rivelare a terzi, oppure acquisire o utilizzare le informazioni e le esperienze aziendali di cui all’art. 99”.
[6]     Per Trib. Milano, 5 marzo 1992, in Giur. Ann. Dir. Ind., 481 e ss., ad es., “Gli elementi c.d. funzionali del prodotto, al pari dei loro pregi estetici, sono tutelabili solo attraverso le privative industriali. In mancanza di brevetto, le forme c.d. necessitate alla realizzazione e/o destinazione del prodotto, ed anche quelle c.d. utili, che forniscono ad esso un qualche vantaggio e/o miglioramento sul piano tecnico (benché non strettamente indispensabili al risultato) sono liberamente imitabili, la tutela concorrenziale ex art. 2598, n. 1, c.c. coinvolgendo quelle sole forme c.d. arbitrarie, capricciose, superflue, insignificanti, cioè quelle caratteristiche nuove e distinte del prodotto dotate di originalità propria, estranea agli elementi intrinseci – sostanziali del prodotto stesso”.
[7]     Per Cass., 28 aprile 1983, n. 2905, “Il diritto di sfruttare il pregio estetico del prodotto altrui, che sia rivestito di speciale ornamento per forma o per combinazione particolare di linee e colori, anche mediante una imitazione servile, ove non esista o sia cessata una situazione di privativa derivante da brevetto, deve essere riconosciuto solo quando le indicate caratteristiche esteriori non tollerino aggiunte o varianti, nel senso che queste implicherebbero una riduzione del valore del prodotto o della sua possibilità di utilizzazione, atteso che, ove sia consentita l’introduzione di dette aggiunte o varianti senza il verificarsi di quelle conseguenze, una imitazione puramente servile, in quanto non necessaria ed idonea a danneggiare l’altrui azienda creando confondibilità di prodotti, configura concorrenza sleale ai sensi e per gli effetti dell’art. 2598, n. 1, c.c.”.
[8]     Per Pret. Verona, 19 dicembre 1989, “Le forme ornamentali non sono ammesse senza alcun limite alla tutela ex art. 2598 c.c., n. 1. Esse trovano di regola un regime di protezione nel brevetto per modello ornamentale. Il divieto di imitazione servile presidia altresì le forme distintive non brevettate, purché munite di capacità distintiva e che, sebbene derogabili, siano state pedissequamente riprodotte dall’imitatore, sì da determinare quella confondibilità tra prodotti che è il sintomo oggettivo dell’imitazione servile. Per cui, quando le caratteristiche formali in un prodotto sono state variate per non causare confusione nei clienti, non sussiste imitazione servile”.
[9]     Trattasi di App. Milano, 22 febbraio 2006, in Red. Giuffrè, 2006.
[10]    Ancora più rigorosa è Trib. Bologna, 20 maggio 2004, per la quale “Per potere accogliere la domanda di concorrenza sleale per imitazione servile occorre dimostrare che la condotta del convenuto non si sia concretizzata solo nella riproduzione degli elementi rivendicati nel brevetto, ma si è spinta alla imitazione delle stesse caratteristiche formali del prodotto, quali le dimensioni, le proporzioni delle parti e altro, ingenerando una situazione di confondibilità dei prodotti
[11]    Sotto tale specifico profilo si è già avuto modo di rilevare che l’art. 99 Cod. Propr. Ind. tutela il segreto aziendale in quanto tale. Ogni illecita sottrazione di informazioni segrete, pertanto, costituisce illecito concorrenziale.
[12]    Per Trib. Monza, 25 gennaio 2005, Giur. Merito, 2005, 11, 2241, “A differenza della tutela generale accordata all’invenzione per mezzo del brevetto, il quale conferisce il monopolio temporaneo di sfruttamento della stessa al suo autore a fronte di un obbligo di pubblicità, l’ordinamento riconosce una tutela giuridica solo parziale al c.d. know-how, e cioè al patrimonio conoscitivo aziendale, consistente in una protezione limitata ad una serie di fattispecie in cui è posto a carico non già della generalità, bensì di determinate categorie di persone un obbligo di segretezza. Così gli artt. 2105 c.c., e 6-bis L. Brev., nonché l’art. 623 c.p., che sanziona penalmente il comportamento lesivo del segreto industriale
[13]    Trattasi di Cass., Sez. Lav., 13 settembre 2006, n. 19554, in ICLEX, sub www.ictlex.net.
[14]    Cfr., in materia, Floridia, Violazione di norme pubblicistiche e concorrenza sleale, in Il Dir. Ind., 1995, 257; Ghidini, Slealtà della concorrenza e costituzione economica, Padova, 1978; Guglielmetti, La concorrenza ed i consorzi, in Trattato di Diritto civile, diretto da Vassalli, Torino, 1970; Marchetti, Il paradigma della correttezza professionale nella giurisprudenza di un ventennio, in Riv. Dir. Ind., 1966, II, 181; Tavolaro, Concorrenza sleale e violazione di norme pubblicistiche, in Archivio DOGI, 2007. Cass., 27 aprile 2004, n. 8012; Alvisi, Concorrenza sleale, violazione di norme pubblicistiche e responsabilità, Milano, 1997.
[15]    Si pensi, a titolo esemplificativo, alle norme fiscali.
[16]    Così Floridia, in AA. VV., Diritto industriale, proprietà intellettuale e concorrenza, op. cit., 309. L’opinione è più che condivisibile. Essa, inoltre, costituisce spunto interpretativo per giungere poi ad una tesi suggestiva concernente la plausibile illiceità della c.d. delocalizzazione dell’impresa con effetti slealmente concorrenziali. Riportiamo, peraltro con piacere, l’opinione dell’A., per il quale “il recente fenomeno della globalizzazione dell’economia comporta l’invocazione della fattispecie in esame per una sua applicazione in un senso molto più ampio, in modo cioè da considerare scorretto il comportamento dell’imprenditore che persegua l’obiettivo della riduzione dei costi localizzando in tutto o in parte la sua attività in territori nei quali sia consentito organizzare l’attività di impresa, oppure segmenti di tale attività, senza l’osservanza di quelle regole che nei paesi più sviluppati garantiscono condizioni di civiltà e di superiore qualità della vita per la collettività oppure per i lavoratori, ancorché tali norme si traducano in costi superiori di non lieve entità. Superfluo aggiungere che se la tutela del diritto alla lealtà della concorrenza nella direzione testè segnalata dovesse accreditarsi presso la ns. giurisprudenza, un ruolo particolarmente significativo dovrebbe essere attribuito al rilievo dei principi costituzionali, e non solo di quello di uguaglianza, ma anche di quelli in funzione dei quali non deve essere consentito uno svolgimento dell’attività di impresa che sia in contrasto con l’utilità sociale o che possa mettere in pericolo libertà, dignità, e sicurezza degli individui”.
[17]    Tra i quali anche provvedimenti assai “invasivi”, quali il sequestro delle merci contraffatte, la eventuale distruzione, la “descrizione” se il provvedimento va eseguito presso una fiera o una esposizione, ecc..
[18]    La quale, accertata la ingannevolezza dei messaggi pubblicitari veicolati, può comminare sanzioni comprese tra € 1.000,00 ed € 100.000,00, oltre a poter disporre la sospensione provvisoria urgente della eventuale reclame censurata.
[19]    Istituito dall’art. 1-quater D.L. 14 marzo 2005, n. 35, poi convertito in Legge dalla L. 14 maggio 2005, n. 80.

Avv. Adamo Giovanni

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