La Consulta interviene sull’art. 41-bis legge n. 354/1975 dichiarandolo costituzionalmente illegittimo: vediamo in che modo

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Corte cost., 5 maggio 2020 (ud. 5 maggio 2020, dep. 22 maggio 2020), n. 97 (Presidente Cartabia, Relatore Zanon)

(Dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui prevede l’adozione delle necessarie misure di sicurezza volte a garantire che sia assicurata «la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti» anziché «la assoluta impossibilità di comunicare e scambiare oggetti tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità»)

(Riferimento normativo: L., 26 luglio 1975, n. 354, art. 41-bis, c. 2-quarter)

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Il fatto e i motivi addotti nel ricorso per Cassazione

 

La vicenda, da cui è scaturita la sentenza in commento, nasceva dal reclamo al Magistrato di sorveglianza di Spoleto proposto da G. G., detenuto sottoposto al regime differenziato ex art. 41-bis ordin. penit., avverso l’ordine di servizio con il quale la direzione dell’istituto penitenziario aveva comunicato il divieto di scambiare oggetti di qualunque genere, quand’anche realizzato tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità, a seguito delle innovazioni apportate al citato regime differenziato dalla legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica).

Secondo il reclamante, lo scambio di oggetti e, in particolare, di generi alimentari «provenienti dai consueti canali (pacco famiglia, acquisti effettuati attraverso il circuito interno dell’istituto penitenziario in base al cd. mod. 72)», non poteva mettere a rischio il perseguimento delle finalità cui è preordinato il regime carcerario previsto dall’art. 41-bis ordin. penit. considerato che i detenuti interessati allo scambio erano già stati ammessi «a fruire in comune la cd. socialità».

Esponeva ancora il rimettente come il Magistrato di sorveglianza di Spoleto avesse dichiarato inammissibile il reclamo presentato ai sensi dell’art. 35-bis ordin. penit. conformemente a quanto previsto dall’art. 4, comma l, della circolare del 2 ottobre 2017, n. 3676/6126, del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (d’ora innanzi: DAP), non potendosi riconoscere la sussistenza di alcun diritto soggettivo avente ad oggetto «il passaggio di generi alimentari ad altri ristretti».

Tale provvedimento di inammissibilità, a sua volta, era stato oggetto di reclamo, accolto, dinnanzi al Tribunale di sorveglianza di Perugia.

Secondo il collegio, difatti, lo scambio di oggetti (e di generi alimentari in particolare, provenienti dai pacchi famiglia, dal sopravvitto, dal cibo somministrato dalla stessa amministrazione penitenziaria) riceverebbe tutela in base al combinato disposto degli artt. 35-bis e 69, comma 6, lettera b), della legge n. 354 del 1975 dovendosi, in particolare, riconoscere un diritto soggettivo «a fruire di momenti di socialità tra persone ristrette» anche al detenuto sottoposto a regime differenziato il quale può condividere la cosiddetta socialità all’interno del relativo “gruppo” secondo quanto previsto dallo stesso art. 41-bis ordin. penit. e dall’art. 3.1 della citata circolare del DAP.

Del resto, sempre secondo il Tribunale di sorveglianza, essendo lo scambio di oggetti comunque limitato a quelli di «modico valore» – in base alla previsione generale dell’art. 15 del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230 (Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà) – non sarebbe stato possibile configurare alcuna «posizione di supremazia» tra i detenuti.

In definitiva, il divieto di scambio tra soggetti del medesimo gruppo di socialità non sarebbe stato giustificabile in forza di «ragioni di sicurezza» non potendosi rilevare «alcuna congruità tra lo stesso e il fine perseguito dal regime differenziato, costituito dalla necessità di recidere i collegamenti tra il detenuto e l’associazione criminale di appartenenza».

Infine, sempre secondo il collegio, poiché i detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità potevano incontrarsi liberamente, si sarebbe dovuto escludere che, attraverso il divieto di scambio di oggetti di modico valore (e di generi alimentari), potesse essere «neutralizzato il pericolo per l’ordine e la sicurezza costituito dal passaggio di comunicazioni non consentite, potendo le stesse essere trasmesse oralmente».

Ciò posto, riferiva inoltre, la Corte di cassazione, giudice rimettente, che, sulla base di tali premesse, il Tribunale di sorveglianza di Perugia, con ordinanza, aveva disposto la disapplicazione dell’art. 4, comma l, della circolare del DAP del 2 ottobre 2017 e dell’ordine di servizio della direzione della casa di reclusione, oggetto dell’originaria impugnazione.

Ricordava inoltre la Suprema Corte come fosse stato ordinato alla stessa direzione di emettere un diverso ordine di servizio volto a consentire il passaggio di oggetti e di generi alimentari tra i detenuti facenti parte del medesimo gruppo di socialità cui il reclamante è assegnato.

Orbene, contro questa ordinanza proponeva ricorso per cassazione il Ministero della giustizia sostenendo che l’interpretazione fornita dal Tribunale di sorveglianza di Perugia sarebbe stata «contraria all’inequivoco tenore letterale» della disposizione censurata.

In particolare, si faceva presente come quest’ultima, «secondo quanto confermato dalla giurisprudenza di legittimità», non avrebbe consentito di superare il divieto di scambio di oggetti anche tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità atteso che, secondo il ricorrente, la formulazione letterale della disposizione, «chiarissima nello statuire che solo il divieto di comunicazione ammette deroga all’interno del medesimo gruppo di socialità», si sarebbe giustificatacon la considerazione che lo scambio di oggetti non sarebbe «così essenziale alla socializzazione come il comunicare», risultando quindi ragionevole il divieto di procedervi nell’ambito del «bilanciamento tra l’interesse alla socializzazione del detenuto e l’interesse (fondante il regime del 41-bis) ad arginare flussi informativi tra detenuti in regime speciale».

Ciò premesso in punto di fatto, il collegio rimettente evidenziava come la disposizione censurata preveda, testualmente, la adozione di «tutte le necessarie misure di sicurezza, anche attraverso accorgimenti di natura logistica sui locali di detenzione, volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti e cuocere cibi».

Veniva poi ricostruita l’interpretazione di tale disposizione offerta dalla giurisprudenza di legittimità riproducendosi, in particolare, brani della motivazione della sentenza della Corte di cassazione, sezione prima penale, 8 febbraio 2017, n. 5977, secondo cui «tenendo conto del significato e della connessione delle parole e dei segni grafici utilizzati, nonché del senso logico del testo», deve ritenersi, «soprattutto in considerazione dell’inserimento del segno di interpunzione della virgola fra le parole “socialità” e “scambiare”, (…) che, nel periodo sintattico in esame, le varie proposizioni riferite a comportamenti dei detenuti, in ordine ai quali va perseguita la “assoluta impossibilità” di realizzazione, siano costituiti, per un verso, dalla comunicazione fra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità e, per altro verso, dallo scambio di oggetti e dalla cottura di cibi» posto che, diversamente, «la disposizione avrebbe contemplato “la assoluta impossibilità di comunicare e scambiare oggetti tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, e di cuocere cibi”» e, pertanto, il perseguimento della “assoluta impossibilità” deve ritenersi «riferito alle comunicazioni fra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, con l’ovvia conseguenza che non è richiesto di impedire in modo così radicale le comunicazioni fra i detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità» mentre «la necessità di assicurare la “assoluta impossibilità” dello scambio di oggetti riguarda tutti gli scambi fra detenuti, e non è limitata ai soli scambi fra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità».

Il collegio rimettente affermava inoltre di condividere tale interpretazione, ribadita in diverse successive pronunce della Corte di legittimità (venivano richiamate le sentenze della Corte di cassazione, sezione prima penale, 4 luglio 2019, n. 29301 e n. 29300, e 1° febbraio 2018, n. 4993), sicché si escludeva di poter pervenire «a un epilogo esegetico di significato opposto a quello fatto palese dal significato delle parole che quell’enunciato compongono».

Ciò posto, in un altro giudizio, un detenuto, sottoposto al regime differenziato previsto dall’art. 41-bis, ordin. penit, aveva proposto reclamo, ai sensi dell’art. 35-bis ordin. penit., al Magistrato di sorveglianza di Spoleto, contro un ordine di sulla cui base la direzione dell’istituto penitenziario aveva disposto che, in conformità dell’art. 4 della circolare del DAP n. 3676/6126 del 2017, a decorrere dal 15 gennaio 2018, deve ritenersi vietato lo scambio di oggetti di qualunque genere, quand’anche realizzato tra detenuti appartenenti al medesimo “gruppo di socialità”.

Orbene, a fronte di ciò, il reclamante si sarebbe trovato improvvisamente impossibilitato a scambiare, con i detenuti inclusi nel gruppo di socialità di appartenenza, generi alimentari e oggetti destinati all’igiene personale o alla pulizia della stanza detentiva.

Detto questo, a sua volta il Magistrato di sorveglianza di Spoleto aveva accolto il reclamo, ordinando alla direzione dell’istituto penitenziario di adottare un ordine di servizio tale da circoscrivere il divieto in questione ai soli detenuti non facenti parte del medesimo gruppo di socialità.

Ebbene, contro il provvedimento di accoglimento, proponeva proposto reclamo il Ministero della giustizia chiedendo al Tribunale di sorveglianza di Perugia l’annullamento dell’ordinanza impugnata sulla base della considerazione che il divieto di scambio di generi alimentari “infragruppo” sarebbe stato funzionale, non solo ad impedire posizioni di predominio tra i detenuti, ma anche ad evitare che vengano occultati beni, oggetti o messaggi diretti a mantenere i contatti con il sodalizio criminoso.

Il Tribunale di sorveglianza di Perugia aveva rigettato il reclamo e, in aggiunta, aveva osservato che gli scambi in esame, quando ancora autorizzati, non avevano mai previsto la traditio diretta del bene tra un detenuto e l’altro essendo inibito ai reclusi di portare con sé degli oggetti all’uscita della stanza detentiva con le modeste deroghe (bottiglietta d’acqua, pacchetto di fazzoletti di carta, eccetera) previste dall’art.11.2 della più volte citata circolare DAP del 2 ottobre 2017 e sussistendo, in ogni caso, «il filtro del controllo visivo quale ulteriore meccanismo a presidio di eventuali comunicazioni fraudolente».

Avverso l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Perugia proponeva ricorso per cassazione il Ministero della giustizia articolando le medesime considerazioni già illustrate in riferimento all’altro giudizio.

 

La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione

 

Ciò premesso, riteneva la Corte di legittimità come la disposizione censurata, nella parte in cui impone il divieto di scambio di oggetti tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità, proprio perché non suscettibile di assumere un differente significato, sia incompatibile con il dettato costituzionale.

Il giudice a quo muoveva dal presupposto che, secondo la giurisprudenza costituzionale, la funzione della sospensione del regime penitenziario ordinario prevista dall’art. 41-bis ordin. penit. sarebbe quella di «rescindere i collegamenti ancora attuali sia tra i detenuti che appartengano a determinate organizzazioni criminali, sia tra gli stessi e gli altri componenti del sodalizio che si trovano in libertà» ossia un obiettivo perseguito mediante la previsione di una serie di significative restrizioni a quegli istituti dell’ordinamento penitenziario che, ordinariamente rivolti a favorire il reinserimento sociale dei detenuti, sono tuttavia suscettibili di favorire il mantenimento dei contatti con l’ambiente esterno e, in particolare, con la consorteria criminale di appartenenza, consentendo ai reclusi di continuare a impartire direttive all’esterno o di mantenere, anche dall’interno del carcere, il controllo sulle attività criminose dell’associazione (venivano citate a tal proposito le pronunce n. 122 del 2017, n. 143 del 2013, n. 417 del 2004, n. 192 del 1998 e n. 376 del 1997).

A fronte di ciò, si ricordava, tuttavia, che quella medesima giurisprudenza costituzionale avrebbe imposto due limiti al regime differenziato.

In particolare, il primo vincolo, direttamente discendente dall’art. 3 Cost., atterrebbe «alla congruità della misura applicata rispetto allo scopo che essa persegue», sicché non potrebbero essere imposte misure non riconducibili alla concreta esigenza di tutelare l’ordine e la sicurezza e, come tali, aventi una «portata puramente afflittiva», ingiustificabile anche laddove mirassero a uno «scopo “dimostrativo”, volto cioè a privare una categoria di detenuti di quelle che vengono considerate manifestazioni di “potere reale” e occasioni per aggregare intorno ad essi un “consenso” traducibile in termini di potenzialità offensive criminali» mentre tale finalità andrebbe, piuttosto, perseguita attraverso la definizione e l’applicazione rigorosa e imparziale delle regole del trattamento carcerario (viene richiamata la sentenza n. 351 del 1996).

Il secondo limite, viceversa, discenderebbe dai principi fissati nell’art. 27 Cost. in forza dei quali le restrizioni disposte ai sensi dell’art. 41-bis, comma 2, ordin. penit. non potrebbero mai essere tali da «vanificare completamente la necessaria finalità rieducativa della pena e da violare il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità» (sono richiamate le sentenze n. 149 del 2018, n. 351 del 1996 e n. 349 del 1993).

Orbene, a parere del collegio rimettente, mentre il divieto di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità «appare effettivamente funzionale a garantire gli obiettivi di prevenzione della misura», l’ulteriore disposizione, concernente il divieto di scambio di oggetti, in quanto riferito, indifferentemente, a tutti i detenuti in regime differenziato, ancorché appartenenti al medesimo gruppo di socialità, non potrebbe, invece, ritenersi «funzionale a fronteggiare alcun pericolo per la sicurezza pubblica, assumendo “una portata meramente afflittiva”».

Secondo il giudice a quo, infatti, solo lo scambio di oggetti tra soggetti assegnati a differenti gruppi di socialità avrebbe potuto consentire di veicolare informazioni tra detenuti che l’amministrazione penitenziaria ha ritenuto di non ammettere ad alcun tipo di comunicazione tra loro «proprio per interrompere ogni forma di relazione e per ovviare al pericolo della circolazione di determinate conoscenze» mentre, tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità, viceversa, tale «essenziale esigenza» sarebbe stata, «per definizione, inesistente, dal momento che proprio la comune appartenenza al medesimo gruppo consentirebbe, a monte, lo scambio di qualunque contenuto informativo; e ciò senza dover ricorrere, appunto, allo scambio di oggetti».

Nella visione del collegio rimettente, inoltre, neppure si sarebbe potuto ritenere che il divieto di scambio di oggetti potesse giustificarsi in rapporto alla necessità di impedire che taluno degli appartenenti al medesimo gruppo di socialità possa acquisire, attraverso tale scambio, una posizione di supremazia nel contesto penitenziario tenuto conto altresì del fatto che tale convincimento era rafforzato nel rimettente dalla sentenza n. 186 del 2018 della Corte costituzionale secondo cui il manifestarsi, all’interno del carcere, di forme di “potere” dei detenuti più forti o più facoltosi, suscettibili anche di rafforzare le organizzazioni criminali, deve essere impedito «attraverso la definizione e l’applicazione rigorosa e imparziale delle regole del trattamento carcerario» e «non potrebbe, per converso, considerarsi legittimo, a questo scopo, l’impiego di misure più restrittive nei confronti di singoli detenuti in funzione di semplice discriminazione negativa, non altrimenti giustificata, rispetto alle regole e ai diritti valevoli per tutti».

A tale proposito, ricordava ancora il rimettente, già la regola generale, posta dall’art. 15 del d.P.R. n. 230 del 2000, consente solo la cessione o lo scambio di beni «di “modico valore”»: nel caso di specie, verrebbero in questione generi alimentari (zucchero, caffè et similia) o, comunque, di prima necessità (per l’igiene personale o la pulizia della cella) inviati dall’esterno – e quindi ulteriormente limitati ai sensi dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera c), ordin. penit. – o acquistati al cosiddetto sopravvitto sicché la possibilità di un utilizzo di beni di rilevante valore quale mezzo di accrescimento del potere in ambito carcerario dovrebbe «ritenersi esclusa in radice».

Già in relazione al solo art. 3 Cost., dunque, secondo il giudice a quo, il divieto in esame avrebbe configurato «una ingiustificata disparità di trattamento rispetto ai ristretti in regime ordinario e una irragionevole limitazione dal significato inutilmente vessatorio».

La stessa preclusione, per altro, sempre ad avviso del giudice rimettente, contrasterebbe anche con il principio del finalismo rieducativo della pena di cui all’art. 27 Cost. oltre ad integrare una limitazione al regime penitenziario ordinario contraria al senso di umanità posto che, una volta stabilito che il diritto alla socialità deve essere esercitato nell’ambito di un limitato gruppo di detenuti selezionato dalla stessa amministrazione penitenziaria in ragione della necessità di impedire il mantenimento dei legami con il contesto criminale di provenienza, la ulteriore limitazione, conseguente all’applicazione del divieto imposto dalla disposizione censurata, nell’impedire «anche quelle forme “minime” di socialità che si estrinsecano nello scambio di oggetti di scarso valore e di immediata utilità o di generi alimentari tra persone che si frequentano “senza filtri” ogni giorno e in una prospettiva di normalità di rapporti interpersonali», finirebbe per realizzare una non consentita limitazione dei principi presidiati dall’art. 27 Cost..

Quanto al profilo della rilevanza, il collegio rimettente evidenziava che solo la declaratoria di illegittimità costituzionale, sia pure in parte qua, dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), ordin. penit., «farebbe venire meno la base legale degli atti dell’Amministrazione penitenziaria in relazione ai quali è stato proposto il reclamo» e, segnatamente, dell’ordine di servizio 15 marzo 2015 e della circolare n. 3676/6126 del 2017 successivamente emanata dal DAP.

Una tale pronuncia, invero, determinerebbe «il riespandersi, anche per tale categoria di reclusi, delle previsioni generali legate al diritto alla socialità quale momento essenziale del trattamento penitenziario» e, dunque, anche della facoltà di cedere «oggetti di modico valore» accordata a detenuti e internati dall’art. 15, comma 2, del d.P.R. n. 230 del 2000, sicché anche per i reclusi sottoposti al regime differenziato diventerebbe esperibile il reclamo previsto, per il caso della lesione di diritti soggettivi, dal combinato disposto degli artt. 35-bis, comma 3, e 69, comma 6, lettera b), ordin. penit., in virtù dei quali il magistrato di sorveglianza, se accerta la sussistenza e l’attualità del pregiudizio, ordina all’amministrazione penitenziaria di porvi rimedio entro un determinato termine posto che, sebbene il comma 2-sexies dell’art. 41-bis ordin. penit. abbia limitato il sindacato giurisdizionale sul regime detentivo speciale alla verifica della sussistenza dei presupposti applicativi, deve comunque ritenersi esperibile un controllo giudiziale sul contenuto dell’atto (viene richiamata la sentenza n. 190 del 2010 della Corte costituzionale), oggi esercitabile, appunto, attraverso lo strumento del reclamo di cui all’art. 35-bis ordin. penit..

Detto questo, nell’altro giudizio (menzionato in precedenza), in punto di rilevanza e di non manifesta infondatezza, il giudice a quo adduceva argomentazioni coincidenti con quelle dell’altra ordinanza iscritta già esaminata in precedenza.

 

Le argomentazioni sostenute dalle parti

 

Nel primo giudizio, si costituiva il detenuto condividendo le argomentazioni dell’ordinanza di rimessione e chiedendo l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale in essa sollevate.

La parte sottolineava, in particolare, quanto affermato nella sentenza n. 186 del 2018 della Corte costituzionale che a sua volta aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), ordin. penit., limitatamente alle parole «e cuocere cibi».

Nell’altro giudizio, si costituiva il detenuto il quale aderiva all’impostazione dell’ordinanza di rimessione e chiedeva l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale.

Ciò posto, in ambedue i giudizi, si costituiva il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, depositando atti di analogo tenore e concludendo per la non fondatezza delle questioni.

In particolare, secondo l’Avvocatura generale dello Stato, se la funzione del regime speciale è quella di impedire determinate comunicazioni, risulta «evidente» che anche la socialità, nei particolari termini in cui è consentita, «non è altro che un momento di dialogo che, necessario perché il detenuto conservi la possibilità di mantenere i rapporti sociali, può comunque trasformarsi in uno strumento per la trasmissione di messaggi all’esterno, che possono transitare ai familiari di taluno degli interlocutori».

Al fine di ridurre tale concreto rischio, dunque, secondo l’Avvocatura generale dello Stato, il legislatore, non solo avrebbe circoscritto gli incontri intramurari del detenuto sottoposto al regime differenziato al solo gruppo di socialità di appartenenza, ma avrebbe anche disposto che all’interno di tale gruppo le comunicazioni non assumano modalità diverse da quelle forme, gestuali o verbali, con le quali si intrecciano, primariamente, le relazioni umane.

La scelta del legislatore di vietare lo scambio o la cessione di oggetti anche con altri detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità avrebbe dunque avuto lo scopo di neutralizzare (o quantomeno ridurre) «il concreto e serio rischio che si vanifichino le peculiari finalità che quel regime mira a tutelare»: in assenza del divieto censurato, infatti, si consentirebbe «di veicolare all’interno del gruppo informazioni il cui contenuto sarebbe difficilmente intellegibile da parte del personale dell’Amministrazione, nonostante gli eventuali controlli auditivi o visivi apprestati, […] anche qualora ne fosse autorizzata l’intercettazione da parte dell’A.G.».

Secondo l’Avvocatura, inoltre, a qualunque oggetto sarebbe possibile attribuire convenzionalmente un determinato «significato comunicativo» anche quando la res sia priva di una valenza simbolica intrinseca sicché, tramite lo scambio di oggetti fra detenuti appartenenti allo stesso gruppo di socialità, si finirebbe per consentire anche l’eventuale «passaggio di informazioni criptate fra detenuti sottoposti al regime speciale all’interno dell’ambiente carcerario e poi, per il tramite dei colloqui di costoro con i familiari, anche all’esterno».

In definitiva, il legislatore, con una scelta «non irragionevole», avrebbe voluto evitare che lo scambio di oggetti, sia pure all’interno dello stesso gruppo di socialità, possa essere utilizzato come forma di comunicazione non verbale e, come tale, «di assai più difficile leggibilità nello svolgimento dei necessari controlli a cui i detenuti sono sottoposti».

Inoltre, sempre secondo l’Avvocatura generale, per il tramite dello scambio o della cessione di oggetti, si sarebbe potuto affermare, all’interno dello stesso gruppo di socialità, logiche di sopraffazione che avrebbe condotto «il detenuto più debole, per carisma personale o per carica rivestita all’interno dell’organizzazione criminale di appartenenza, a soggiacere alle prevaricazioni di uno di quei pochi soggetti con i quali egli può avere contatti con immaginabili conseguenze in termini di sicurezza all’interno dell’istituto penitenziario».

Per gli stessi motivi, l’Avvocatura considerava «non pertinente» il richiamo operato dalle ordinanze di rimessione alla sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 2018 con la quale era stato dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3 e 27 Cost., l’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), ordin. penit., limitatamente alle parole «e cuocere cibi» posto che l’interveniente riconosceva che il divieto di cuocere cibi, che la norma invalidata imponeva ai soli detenuti in regime differenziato, implicava una deroga ingiustificata all’ordinario regime carcerario perché dotata di valenza «meramente e ulteriormente afflittiva, incongrua e inutile» rispetto alle esigenze che giustificano il regime differenziato fermo restando però che quella medesima valutazione non si attagli al divieto di scambio di oggetti tra detenuti sottoposti al regime suddetto: diversamente dal divieto di cuocere cibi (attività quest’ultima ritenuta ontologicamente estranea al concetto di comunicazione), il divieto qui censurato «sottende la necessità di evitare […] che lo scambio di oggetti possa essere utilizzato come forma di comunicazione non verbale tra detenuti, di complessa decifrabilità in fase di controllo».

Oltre a ciò, va rilevato che entrambe le parti, in prossimità dell’udienza, avevano depositato delle memorie con cui ribadivano le conclusioni già avanzate negli atti di costituzione.

Esse, in particolare, replicavano all’argomento addotto dall’Avvocatura generale dello Stato secondo cui all’oggetto scambiato si sarebbe potuto attribuire un significato comunicativo convenzionale da trasmettere all’esterno; nel dettaglio, la parte costituita in uno di questi giudizi osservava che, nel corso dei colloqui visivi con i familiari, i detenuti non potevano portare alcun oggetto, «fatta eccezione per una bottiglia di acqua (priva dell’etichetta) e un pacchetto di fazzoletti di carta» e che tali colloqui sono video registrati sicché «qualunque gesto o parola di dubbio significato viene annotata e segnalata alla competente Autorità».

Ciò posto, l’Avvocatura generale dello Stato, dal canto suo, aveva depositato, seppur tardivamente, ulteriori memorie oltre che delle brevi note finalizzate a svolgere alcune puntualizzazioni alla luce delle considerazioni sviluppate dalle parti nelle memorie depositate in vista dell’udienza ribadendo, in conclusione, la richiesta di rigetto delle questioni di legittimità costituzionale in quanto non fondate.

Con la nota relativa sempre ad uno di questi giudizi, inoltre, si osservava come fosse «necessario che il legislatore individui divieti specifici, sottratti alla discrezionalità della singola struttura, al fine di pervenire al raggiungimento delle predette esigenze di sicurezza sottese all’istituto dell’art 41 bis ord. pen.» non potendo rimettersi «ad una valutazione “caso per caso”» il divieto di cessione di oggetti o cose tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità.

 

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Corte costituzionale

 

Si osservava in via preliminare come l’iter argomentativo, percorso in entrambe le ordinanze, fosse corretto e consentisse l’accesso al merito posto che la Corte costituzionale ha affermato in modo ormai costante che, laddove il rimettente abbia considerato la possibilità di un’interpretazione idonea a eliminare il dubbio di legittimità costituzionale e l’abbia motivatamente scartata, la valutazione sulla correttezza dell’opzione ermeneutica prescelta riguarda non già l’ammissibilità della questione sollevata, bensì il merito di essa (ex multis, sentenze n. 50 e n. 11 del 2020, n. 241 e n. 189 del 2019, sentenza n. 135 del 2018).

Precisato ciò, si notava inoltre come, con la legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica) contenente un ampio ventaglio di interventi nella materia evocata dal titolo della legge stessa, appunto la sicurezza pubblica, fosse stata profondamente incisa anche la disciplina recata dall’art. 41-bis ordin. penit. attraverso una serie di modifiche volte chiaramente a irrigidire il regime carcerario speciale.

In particolare, per quello che rilevava nel caso di specie, si osservava come il comma 2-quater dell’art. 41-bis fosse stato modificato, eliminandosi ogni discrezionalità nella applicazione delle condizioni detentive speciali, come emergeva dal tenore letterale della disposizione secondo cui il provvedimento ministeriale di sospensione delle regole di trattamento carcerario «prevede» e non più «può prevedere», le misure dettagliate alle successive lettere (salvo quanto disposto dalla lettera a del medesimo comma, di cui si dirà più avanti al punto 8).

La novella, in sostanza, osservava il giudice delle leggi, elenca una serie di misure specifiche che costituiscono il contenuto tipico e necessario del regime speciale (sentenze n. 186 del 2018 e n. 122 del 2017) e quindi dette misure, frutto di una valutazione svolta in via generale, ex ante, dal legislatore, devono essere obbligatoriamente applicate a tutti i detenuti sottoposti a tale regime.

Ciò posto, veniva altresì fatto presente che, tra le misure in questione, figurano quelle disposte alla lettera f) dell’art. 41-bis, comma 2-quater, ordin. penit., oggetto del giudizio di legittimità in questione costituzionale.

Esse, in particolare, pur assicurando anche ai detenuti in questione indispensabili momenti e forme di “socialità” intramuraria, circoscrivono queste relazioni all’interno di gruppi ristretti, costituiti da non più di quattro persone, limitandone altresì la durata massima nel senso che i gruppi di socialità rappresentano la modalità prescelta dal legislatore per conciliare, da una parte, la finalità essenziale del regime differenziato (evitare che i detenuti più pericolosi possano mantenere vivi i propri collegamenti con le organizzazioni criminali di riferimento) e, dall’altra, l’esigenza di garantire le accennate forme indispensabili di socialità.

In questa chiave, ad avviso dei giudici di legittimità costituzionale, è soprattutto fatto carico all’amministrazione penitenziaria di adottare «tutte le necessarie misure di sicurezza, anche attraverso accorgimenti di natura logistica sui locali di detenzione, volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti».

Tal che se ne faceva conseguire come la disposizione de qua avesse l’obbiettivo essenziale di mantenere gli incontri intramurari all’interno di determinati “gruppi di socialità” e di evitare invece contatti tra detenuti appartenenti a gruppi diversi.

A sua volta la composizione di ciascun singolo gruppo, sempre opportunamente modificabile secondo le esigenze che via via si presentino, è governata da complessi criteri (attualmente previsti al punto 3.1 della circolare del 2 ottobre 2017, n. 3676/6126, del DAP), ispirati alla necessità di evitare ogni occasione di rafforzamento delle consorterie criminali nonché ogni possibilità che vengano scambiati con l’esterno ordini, informazioni e notizie.

Da ciò si giungeva alla conclusione secondo cui il contenuto essenziale della citata lettera f) è la «assoluta impossibilità di comunicare fra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità» sul presupposto che, invece, una inevitabile relazione comunicativa possa svilupparsi fra i detenuti che al medesimo gruppo di socialità siano assegnati fermo restando però che, nella lettura del rimettente, assume distinto rilievo anche l’ulteriore divieto, relativo cioè allo scambio di oggetti.

Ebbene, sintatticamente e morfologicamente separato dal primo, siffatto divieto, per la Consulta, assume un significato non già servente e accessorio al divieto di comunicazioni tra detenuti assegnati a gruppi diversi ma una portata normativa autonoma con efficacia per tutti i detenuti soggetti al regime speciale, pur se appartenenti al medesimo gruppo di socialità, impedendo perciò lo scambio di oggetti anche tra i detenuti già autorizzati a trascorrere insieme, all’interno del carcere, alcune ore della giornata.

A fronte di ciò, si notava tra l’altro che se era vero che tale distinta portata non fu oggetto di esame nei lavori preparatori della legge n. 94 del 2009 e la stessa prima circolare DAP successiva a tale legge (4 agosto 2009, n. 286202, recante la disciplina dell’«[o]rganizzazione delle sezioni detentive adibite al contenimento di detenuti sottoposti al regime detentivo speciale») aveva fornito una parafrasi non testuale della disposizione censurata evidenziando la necessità di assicurare «la assoluta impossibilità di comunicare e scambiare oggetti tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità», era però altrettanto vero come la giurisprudenza di legittimità (a partire da Cassazione penale, sezione prima penale, 8 febbraio 2017, n. 5977) si fosse in seguito attestata sulla lettura accolta dalle ordinanze di rimessione nel senso che «il divieto di scambio di oggetti ha portata generale e che, pertanto, non è ammessa una diversa interpretazione che ne restringa l’ambito applicativo al caso di eterogeneità dei gruppi di socialità» (così, in particolare, Cassazione penale, sezione prima penale, 16 settembre 2019, n. 38223).

Ebbene, in relazione a tale quadro normativo, la Consulta riteneva necessario, a questo punto della disamina, vagliarne la legittimità, alla luce dei parametri costituzionali evocati dal rimettente, dovendosi accertare se il divieto legislativo di scambiare oggetti, in quanto necessariamente applicato anche ai detenuti in regime differenziato appartenenti al medesimo gruppo di socialità, determini effetti congrui e proporzionati, sia rispetto alle finalità del regime stesso, sia ai limiti cui è soggetta la sua applicazione, quali delineati dalla costante giurisprudenza della Corte costituzionale.

Orbene, delineato il tema da doversi affrontare, si faceva presente che se, quanto alle finalità, il regime differenziato previsto dall’art. 41-bis, comma 2, ordin. penit. mira a contenere la pericolosità di singoli detenuti, proiettata anche all’esterno del carcere, in particolare impedendo i collegamenti dei detenuti appartenenti alle organizzazioni criminali tra loro e con i membri di queste che si trovino in libertà: collegamenti che potrebbero realizzarsi attraverso i contatti con il mondo esterno che lo stesso ordinamento penitenziario normalmente favorisce, quali strumenti di reinserimento sociale (sentenze n. 186 del 2018, n. 122 del 2017 e n. 376 del 1998; ordinanze n. 417 del 2004 e n. 192 del 1998), ciò che l’applicazione del regime differenziato intende soprattutto evitare è che gli esponenti dell’organizzazione in stato di detenzione, sfruttando l’ordinaria disciplina trattamentale, possano continuare (utilizzando particolarmente, in ipotesi, i colloqui con familiari o terze persone) a impartire direttive agli affiliati in stato di libertà e così mantenere, anche dall’interno del carcere, il controllo sulle attività delittuose dell’organizzazione stessa (ancora sentenze n. 186 del 2018, n. 122 del 2017 e n. 143 del 2013).

Invece, quanto ai limiti cui soggiace l’applicazione del regime differenziato, la giurisprudenza costituzionale aveva chiarito come, in base all’art. 41-bis, comma 2, ordin. penit., sia possibile sospendere solo l’applicazione di regole e istituti dell’ordinamento penitenziario che risultino in concreto contrasto con le richiamate esigenze di ordine e sicurezza e, correlativamente a questo, aveva affermato non potersi disporre misure che, a causa del loro contenuto, non siano riconducibili a quelle concrete esigenze poiché si tratterebbe in tal caso di misure palesemente incongrue o inidonee rispetto alle finalità del provvedimento che assegna il detenuto al regime differenziato in quanto, se ciò accade, non solo le misure in questione non risponderebbero più al fine in vista del quale la legge consente siano adottate, ma acquisterebbero altresì un significato diverso «divenendo ingiustificate deroghe all’ordinario regime carcerario, con una portata puramente afflittiva non riconducibile alla funzione attribuita dalla legge al provvedimento ministeriale» (sentenza n. 351 del 1996).

Orbene, questa verifica, operata sulla disposizione censurata, ad avviso della Consulta, forniva esito negativo sicché le sollevate questioni risultavano essere fondate per violazione degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost..

In particolare, in lesione dell’art. 3 Cost., il divieto di scambiare oggetti, nella parte in cui si applica anche ai detenuti inseriti nel medesimo gruppo di socialità, per la Corte, non risulta né funzionale né congruo rispetto alla finalità tipica ed essenziale del provvedimento di sottoposizione del singolo detenuto al regime differenziato consistente nell’impedire le sue comunicazioni con l’esterno dato che, in queste condizioni, non è giustificata la deroga – da tale divieto disposta – alla regola ordinariamente valida per i detenuti, che possono scambiare tra loro «oggetti di modico valore» (art. 15, comma 2, del d.P.R. n. 230 del 2000) e la proibizione in parola finisce per assumere un significato meramente afflittivo in violazione anche dell’art. 27, terzo comma, Cost.

Infine, in ulteriore lesione dei parametri summenzionati, il carattere non proporzionato del divieto in questione si evidenzia per la Corte di legittimità costituzionale considerando la scelta legislativa di farne contenuto necessario del regime differenziato da applicarsi – a prescindere dalle esigenze del caso concreto – ogni qualvolta sia disposto il provvedimento di assegnazione del detenuto al regime differenziato tenuto conto altresì del fatto che la Consulta aveva riconosciuto, in riferimento al diverso divieto di scambiare con l’esterno libri e riviste, quale risultante dall’applicazione delle misure di cui alle lettere a) e c) del comma 2-quater dell’art. 41-bis che «qualsiasi oggetto si presta astrattamente ad assumere – per effetto di una precedente convenzione, per la sua valenza simbolica intrinseca o semplicemente per i rapporti interpersonali tra le parti – un determinato significato comunicativo, quando non pure a fungere da sostituto “anomalo” dell’ordinario supporto cartaceo per la redazione di messaggi, o da contenitore per celarli al suo interno» (sentenza n. 122 del 2017).

Ebbene, nel caso di specie, il significato simbolico o convenzionale insito nell’oggetto scambiato, secondo i giudici di legittimità costituzionale,  potrebbe efficacemente tradursi, in ipotesi, in una comunicazione da veicolare all’esterno, magari in occasione di un colloquio con familiari o (negli eccezionali casi in cui è consentito) terze persone ma a ben vedere, tuttavia, questa prima giustificazione non convince proprio sul piano della sua congruità all’obbiettivo in quanto i detenuti, appartenenti al medesimo gruppo di socialità, hanno varie occasioni di comunicare qualsiasi messaggio tra loro in forma orale senza poter essere ascoltati, salve le casuali percezioni degli agenti comunque presenti per sorvegliare gli spazi comuni e, salve le specifiche captazioni, o intercettazioni ambientali, che tuttavia devono essere appositamente autorizzate dall’autorità giudiziaria ma, tuttavia, in quelle stesse occasioni, pur essendo sottoposti a continua videosorveglianza, i detenuti ben possono inoltre scambiare comunicazioni in forma gestuale, dal significato non facilmente intelligibile.

Difatti, quanto appena esposto accade nelle due ore giornaliere d’aria, nei cosiddetti “cortili passeggio”, ove è consentito svolgere esercizi fisici e portare solo pochissimi oggetti, per tipologie e quantità espressamente indicate, così come accade altresì nelle comunicazioni da cella a cella posto che, in base alle comuni regole del regime differenziato, le porte blindate delle camere di detenzione restano aperte dalle ore 7 alle ore 22 (d’estate) oppure fino alle ore 20 (d’inverno) e, in questi orari, ai detenuti, appartenenti al medesimo gruppo di socialità, è consentito parlare tra loro essendo le rispettive celle generalmente collocate non lontane l’una dall’altra.

È abitualmente prevista, poi, la predisposizione di “salette” – adibite a biblioteca, palestra e sala hobby – per l’attività in comune di tipo culturale, ricreativo e sportivo, possibile per un’ora al giorno (secondo le turnazioni stabilite dalla direzione d’istituto) e attraverso strumenti messi a disposizione dall’amministrazione.

I “cortili passeggio” e le “salette”, tra l’altro, a loro volta, vengono peraltro perquisiti ogni qualvolta esce e accede un gruppo e anche nella saletta e nella palestra è consentito portare solo pochi oggetti, per tipologia e quantità espressamente indicate.

In tutte queste occasioni di socialità, anche a non voler considerare i messaggi (in ipotesi inascoltati) dal contenuto inequivocabile, è ben immaginabile, per la Consulta, che il più criptico significato simbolico o convenzionale di un oggetto scambiato possa essere agevolmente sostituito da un’esternazione orale o gestuale, apparentemente casuale ma in realtà dal contenuto chiaro (solo) all’altro detenuto che ascolta od osserva.

In ultima analisi, vale per questa ipotetica giustificazione del divieto – impedire la trasmissione all’esterno del carcere di messaggi funzionali all’attività criminale dell’organizzazione malavitosa – un giudizio di incongruità rispetto allo scopo cui non può non accompagnarsi, di conseguenza, la sottolineatura del carattere inutilmente e meramente afflittivo della misura.

Ebbene, in relazione a tale ipotesi giustificativa, si notava come fosse la stessa valutazione che la Corte costituzionale (sentenza n. 143 del 2013) ebbe a dare sui limiti di cadenza e di durata previsti dalla legge n. 94 del 2009 per i colloqui dei detenuti soggetti al regime differenziato con i propri difensori non potendo, ovviamente, la disposizione cancellare del tutto quei colloqui dato che essa introduceva limiti suscettibili, bensì, di penalizzare la difesa, ma inutili a impedire, anche parzialmente, il temuto passaggio di direttive e informazioni tra il carcere e l’esterno.

In quel caso – osservava la sentenza – alla indiscutibile compressione del diritto di difesa indotta dalla disposizione censurata non corrispondeva un paragonabile incremento della tutela dell’interesse alla salvaguardia dell’ordine pubblico e della sicurezza dei cittadini; in altre parole, alla certa compressione di una forma minima di socialità – estrinsecantesi, peraltro, nell’ambito di una cerchia assai ristretta di soggetti, e consistente nello scambio di cose di scarso valore e di immediata utilità, nella prospettiva di una (assai parziale) “normalità” di rapporti interpersonali – non corrisponde un accrescimento delle garanzie di difesa sociale e sicurezza pubblica il che, se per la Consulta è comprensibile, se riferito a detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, fa si che il divieto in esame mostri la sua irragionevolezza se necessariamente applicato anche ai detenuti assegnati al medesimo gruppo.

A fronte di ciò, si osservava al contempo come tale valutazione non muti nemmeno a considerare l’altra possibile ratio dell’applicazione del divieto all’interno del medesimo gruppo di socialità laddove cioè si ritenga che la proibizione si giustifichi al fine d’impedire che taluno degli appartenenti al gruppo possa acquisire, attraverso lo scambio di oggetti, una posizione di supremazia nel contesto penitenziario, simbolicamente significativa nell’ottica delle organizzazioni criminali e da comunicare, come tale, all’esterno del carcere.

La Corte costituzionale (sentenza n. 186 del 2018), difatti, ha già affermato che il manifestarsi, all’interno del carcere, di forme di “potere” dei detenuti più forti o più facoltosi, suscettibili anche di rafforzare le organizzazioni criminali, deve essere impedito «attraverso la definizione e l’applicazione rigorosa e imparziale delle regole del trattamento carcerario» e «non potrebbe, per converso, considerarsi legittimo, a questo scopo, l’impiego di misure più restrittive nei confronti di singoli detenuti in funzione di semplice discriminazione negativa, non altrimenti giustificata, rispetto alle regole e ai diritti valevoli per tutti».

A tale proposito, evidenziava il giudice delle leggi, la già ricordata regola generale, posta dall’art. 15, comma 2, del d.P.R. n. 230 del 2000, consente la cessione o lo scambio unicamente di beni di “modico valore, sicché la possibilità di un utilizzo di beni di rilevante valore quale mezzo di accrescimento del potere in ambito carcerario è ragionevolmente da escludersi, già grazie all’applicazione della regola generale; nei giudizi a quibus, ad esempio, i beni, che si intendevano scambiare con gli altri membri del gruppo di socialità, consistevano in generi alimentari (zucchero, caffè et similia) o, comunque, di prima necessità (per l’igiene personale o la pulizia della cella) inviati dall’esterno – e quindi ulteriormente limitati ai sensi dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera c), ordin. penit. – o acquistati al cosiddetto sopravvitto.

Ciò posto, se l’Avvocatura generale dello Stato rilevava che lo scambio di oggetti potesse essere “imposto” all’interno del medesimo gruppo di socialità dal membro di maggiore caratura criminale allo scopo di dimostrare, attraverso l’esercizio della capacità di costringere gli altri componenti a privarsi di beni essenziali e comunque posseduti in quantità limitata, la sua attitudine a mantenere, o rafforzare, la propria posizione di supremazia, creando “condizioni di sudditanza” all’interno del gruppo, anch’esse tanto più simbolicamente significative, nell’ottica delle organizzazioni criminali, in quanto comunicabili in varia forma all’esterno del carcere, a questo riguardo si osservava, tuttavia, che l’applicazione delle regole penitenziarie, specificamente dettate per i gruppi di socialità, consente la costante osservazione dei gruppi e l’eventuale tempestiva modifica della loro composizione che ben può essere suggerita proprio dalla rilevazione di un’anomala frequenza e unidirezionalità degli scambi.

In conclusione, la valutazione della ratio in parola, secondo la Corte di legittimità costituzionale, non conduce a mutare le considerazioni già svolte confermandosi anche sotto questo profilo la lesione degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost..

In particolare, si faceva presente che, se non esiste un diritto fondamentale del detenuto sottoposto al regime differenziato a cuocere cibi (sentenza n. 186 del 2018), non esiste nemmeno un suo diritto fondamentale a scambiare oggetti con i detenuti assegnati al suo stesso gruppo di socialità ma, tuttavia, sia cuocere cibi, sia scambiare oggetti, sono facoltà dell’individuo anche se posto in detenzione che fanno parte di quei «piccoli gesti di normalità quotidiana» (ancora sentenza n. 186 del 2018) tanto più preziosi in quanto costituenti gli ultimi residui in cui può espandersi la libertà del detenuto stesso (analogamente, sentenza n. 349 del 1993, seguita dalle sentenze n. 20 e n. 122 del 2017 e n. 186 del 2018).

Pertanto, la compressione della possibilità di scambiare oggetti con gli altri detenuti del medesimo gruppo – espressione, questa, di una pur minimale facoltà di socializzazione – e la conseguente deroga all’applicazione delle regole ordinarie potrebbe giustificarsi non in via generale e astratta, ma solo se esista, nelle specifiche condizioni date, la necessità in concreto di garantire la sicurezza dei cittadini e la motivata esigenza di prevenire – come recita l’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera a), ordin. penit. – «contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento, contrasti con elementi di organizzazioni criminali contrapposte, interazione con altri detenuti o internati appartenenti alla medesima organizzazione ovvero ad altre ad essa alleate».

Da questo punto di vista, l’applicazione necessaria e generalizzata del divieto di scambiare oggetti anche ai detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità sconta il limite di essere frutto di un bilanciamento condotto ex ante dal legislatore, a prescindere, perciò, da una verifica in concreto dell’esistenza delle specifiche, esigenze di sicurezza e senza possibilità di adattamenti calibrati sulle peculiarità dei singoli casi.

È, in definitiva, per la Consulta, la previsione ex lege del divieto assoluto a costituire misura sproporzionata, anche sotto questo profilo, in contrasto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost..

Invece, anche dopo la presente sentenza di accoglimento, in forza della disposizione di cui alla lettera a) del comma 2-quater dell’art. 41-bis, ordin. penit. – secondo cui la sospensione delle regole di trattamento e degli istituti di cui al comma 2 può comportare «l’adozione di misure di elevata sicurezza interna ed esterna» – resterà consentito all’amministrazione penitenziaria di disciplinare le modalità di effettuazione degli scambi tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo (ad esempio, qualora concernenti oggetti di cui non sia consentita la detenzione durante i momenti di socialità, prevedendo in proposito una annotazione in appositi registri) nonché di predeterminare le condizioni per introdurre eventuali limitazioni (con riferimento a certi oggetti che, più di altri, si prestano ad essere veicolo di comunicazioni difficilmente decifrabili, come già previsto, ad esempio, per il divieto – già disciplinato dalla citata circolare DAP del 2 ottobre 2017 in via autonoma rispetto a quello, generale, qui censurato – di scambiare libri o copie parziali tra detenuti) fermo restando che, naturalmente, tali limitazioni dovrebbero risultare giustificate da precise esigenze, da motivare espressamente, e sotto questi profili ben potrebbero essere sindacate, di volta in volta, in relazione al caso concreto, dal magistrato di sorveglianza, in attuazione di quanto disposto dagli artt. 35-bis, comma 3, e 69, comma 6, lettera b), ordin. penit..

In definitiva, per i giudici di legittimità costituzionale, il divieto di scambiare oggetti prescritto dalla norma censurata, se applicato necessariamente a detenuti assegnati al medesimo gruppo di socialità, viola gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. mentre, per ricondurre la disposizione censurata entro i limiti del rispetto dei citati parametri costituzionali, è fondamentale eliminare la necessaria applicazione anche ai detenuti che a tale medesimo gruppo siano assegnati e ne circoscriva l’applicazione ai detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità.

L’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), ordin. penit. veniva pertanto dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui prevede l’adozione delle necessarie misure di sicurezza volte a garantire che sia assicurata «la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti» anziché «la assoluta impossibilità di comunicare e scambiare oggetti tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità».

 

Conclusioni

 

Nella decisione in questione, la Consulta ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), ordin. penit. nella parte in cui prevede l’adozione delle necessarie misure di sicurezza volte a garantire che sia assicurata «la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti» anziché «la assoluta impossibilità di comunicare e scambiare oggetti tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità».

Tal che, per effetto di questa pronuncia, si precisa che tale impossibilità di comunicazione e di scambio non rileva ex lege per i detenuti assegnati al medesimo gruppo di socialità fermo restando però che è comunque consentito all’amministrazione penitenziaria di disciplinare le modalità di effettuazione degli scambi tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo (ad esempio, qualora concernenti oggetti di cui non sia consentita la detenzione durante i momenti di socialità, prevedendo in proposito una annotazione in appositi registri) nonché di predeterminare le condizioni per introdurre eventuali limitazioni nella misura in cui sia necessario in concreto di garantire la sicurezza dei cittadini e la motivata esigenza di prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento, contrasti con elementi di organizzazioni criminali contrapposte, interazione con altri detenuti o internati appartenenti alla medesima organizzazione ovvero ad altre ad essa alleate.

Tale pronuncia, dunque, non determina il venir meno di siffatto divieto in questo ma demanda all’amministrazione penitenziaria l’onere di regolamentare le modalità di effettuazione degli scambi tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo nonché di predeterminare le condizioni per introdurre eventuali limitazioni ove ricorrano le esigenze previste dalla lettera a) del comma 2-quater dell’art. 41-bis, ordin. penit. (vale a dire: l’adozione di misure di elevata sicurezza interna ed esterna, con riguardo principalmente alla necessità di prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento, contrasti con elementi di organizzazioni contrapposte, interazione con altri detenuti o internati appartenenti alla medesima organizzazione ovvero ad altre ad essa alleate)

Non resta dunque che attendere come e in che termini questo ramo della pubblica amministrazione interverrà a seguito di questo pronunciamento da parte della Corte costituzionale.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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