La Consulta dichiara costituzionalmente illegittimo l’art. 30-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354: vediamo in che modo

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Corte cost., 27 maggio 2020 (ud. 27 maggio 2020, dep. 12 giugno 2020), n. 113 (Presidente Cartabia, Relatore Viganò)

(Dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 30-ter, comma 7, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui prevede, mediante rinvio al precedente art. 30-bis, che il provvedimento relativo ai permessi premio è soggetto a reclamo al tribunale di sorveglianza entro ventiquattro ore dalla sua comunicazione, anziché prevedere a tal fine il termine di quindici giorni)

(Riferimento normativo: L., 26 luglio 1975, n. 354, art. 30-ter, c. 7)

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Il fatto

La Sezione rimettente era investita di un ricorso avverso l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Bologna che aveva dichiarato inammissibile, in quanto tardivo, il reclamo presentato da un detenuto contro il provvedimento con cui il magistrato di sorveglianza aveva rigettato una sua richiesta di permesso premio.

Il giudice a quo rilevava che, effettivamente, il reclamo era stato proposto dal detenuto oltre il termine di ventiquattro ore stabilito dall’art. 30-bis, comma 3, ordin. penit., applicabile anche in materia di permessi premio in forza del richiamo di cui all’art. 30-ter, comma 7, ordin. penit. ma, in accoglimento della corrispondente eccezione del ricorrente, dubitava della legittimità costituzionale di un termine così breve (come vedremo da qui a poco).

La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione

La Corte di cassazione, sezione prima penale, sollevava, in riferimento agli artt. 3, 24, 27 e 111 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 30-bis, comma 3, in relazione al successivo art. 30-ter, comma 7, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), «nella parte in cui prevede che il termine per proporre reclamo avverso il provvedimento del Magistrato di sorveglianza in tema di permesso premio è pari a 24 ore».

Le questioni, osservava la Sezione rimettente, erano rilevanti dal momento che – ove fossero state ritenute fondate – il ricorso avrebbe dovuto essere accolto e gli atti avrebbero dovuti essere rinviati al tribunale di sorveglianza affinché procedesse a valutare nel merito l’originario reclamo.

In punto di non manifesta infondatezza delle questioni, il giudice a quo richiamava anzitutto la sentenza della Consulta n. 235 del 1996 la quale – pur dichiarando inammissibile una questione di legittimità costituzionale dell’art. 30-bis, comma 3, ordin. penit. – già aveva rilevato l’irragionevolezza della previsione di un termine identico, e particolarmente breve, per il reclamo in materia di permessi di necessità e di permessi premio anche in considerazione della funzione essenziale riconosciuta dalla giurisprudenza costituzionale a questi ultimi rispetto all’obiettivo della rieducazione perseguito dalla pena.

L’irragionevole equiparazione del termine per le due tipologie di permessi, secondo quanto già ritenuto dalla citata sentenza n. 235 del 1996, si sarebbe risolta allora in una violazione dell’art. 3 Cost. «perché la norma equipara, quanto al termine concesso per il reclamo, situazioni profondamente diverse».

L’eccessiva brevità del termine in questione avrebbe altresì determinato una violazione dell’art. 27 Cost. e, in particolare del principio rieducativo della pena «perché ostacola un effettivo e serio controllo sul provvedimento adottato dal Magistrato di sorveglianza relativo ad “uno strumento cruciale ai fini del trattamento”, momento iniziale della progressività premiale in esplicazione di una importante funzione “pedagogico-propulsiva” che dà modo di saggiare, quale primo esperimento, “la risocializzazione in ambito extramurario”» (venivano a tal proposito citate le sentenze della Corte costituzionale n. 188 del 1990 e n. 227 del 1995).

La Sezione rimettente osservava inoltre che, all’epoca dell’introduzione dell’art. 30-bis ordin. penit., l’impugnazione si proponeva con mera dichiarazione mentre i motivi dell’impugnazione, pur potendo essere contestualmente enunciati, dovevano essere presentati per iscritto entro un termine diverso e più ampio.

La disciplina generale delle impugnazioni del nuovo codice di procedura penale, considerata dalla costante giurisprudenza di legittimità applicabile anche al procedimento di reclamo avverso le decisioni del magistrato di sorveglianza sui permessi premio, impone invece ora, a pena di inammissibilità, l’articolazione di specifici motivi già nella dichiarazione di impugnazione e, a fronte di ciò, il termine di ventiquattro ore qui in esame pregiudicherebbe conseguentemente anche l’effettività del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. sub specie di «diritto delle parti di rappresentare compiutamente le proprie ragioni al giudice del controllo».

Infine, la disciplina censurata violerebbe l’art. 111 Cost. in ragione dello squilibrio da essa realizzato tra le opportunità di impugnazione riservate alla parte pubblica e al detenuto il quale necessiterebbe dell’assistenza di un difensore per poter articolare compiutamente le proprie doglianze nel reclamo onde non incorrere in una pronuncia di inammissibilità; assistenza che però, proprio in ragione della spiccata brevità del termine, sarebbe difficile da ottenere in concreto.

Ciò posto, rammentava infine la Sezione rimettente che, con la citata sentenza n. 235 del 1996, la Consulta aveva dichiarato inammissibile la questione ora proposta in ragione dell’assenza nell’ordinamento di un’unica soluzione costituzionalmente obbligata tale da consentire alla Corte stessa di porre rimedio al vulnus riscontrato e, per tale ragione, aveva auspicato un rapido intervento legislativo in grado di contemperare «la tutela del diritto di difesa con le esigenze di speditezza della procedura».

Pur tuttavia, nella perdurante assenza di intervento da parte del legislatore, ad avviso del giudice a quo, il sistema avrebbe offerto oggi «un ben preciso punto di riferimento idoneo, nella prospettiva di una pronuncia additiva, ad evitare un vuoto» di disciplina rappresentato in particolare dalla previsione, da parte dell’art 35-bis ordin. penit., di un termine di quindici giorni per la proposizione del reclamo contro la decisione del magistrato di sorveglianza.

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Corte costituzionale

La Corte costituzionale osservava prima di tutto che, dal tenore complessivo dell’ordinanza di rimessione, si evinceva come l’oggetto delle censure del giudice a quo fosse unicamente il termine di ventiquattro ore per la proposizione del reclamo avverso le decisioni in materia di permessi premio che risulta dal richiamo operato dall’art. 30-ter, comma 7, ordin. penit. alle «procedure di cui all’art. 30-bis» ordin. penit. e, in particolare, al comma 3 di tale disposizione mentre restava estraneo a tali censure, per il giudice delle leggi, il medesimo termine di ventiquattro ore, previsto dallo stesso art. 30-bis, comma 3, ordin. penit., per i reclami contro i permessi disciplinati dall’art. 30 ordin. penit. (i cosiddetti permessi “di necessità”).

Pertanto, si riteneva come le questioni sollevate dal giudice a quo dovessero essere rettamente intese come riferite al solo art. 30-ter, comma 7, ordin. penit., nella parte in cui – richiamando le procedure di cui all’art. 30-bis ordin. penit. – prevede un termine di ventiquattro ore anche per il reclamo contro le decisioni del magistrato di sorveglianza in materia di permessi premio.

Premesso ciò, i giudici di legittimità costituzionale denotavano come le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione fossero fondate in riferimento agli artt. 3, 24 e 27, terzo comma, Cost..

Si evidenziava a tal proposito prima di tutto come la sola tipologia di permessi per i detenuti contemplata dalla legge sull’ordinamento penitenziario, nella sua versione originaria, fosse quella di cui all’art. 30 che disciplina i permessi cosiddetti “di necessità” i quali possono essere concessi al detenuto nel caso di imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente nonché – in via eccezionale – per altri eventi di particolare gravità.

L’art. 30-bis ordin. penit., introdotto dalla legge 20 luglio 1977, n. 450 (Modifiche al regime dei permessi ai detenuti ed agli internati previsto dall’art. 30 della legge 26 luglio 1975, n. 354), a sua volta, disciplina il procedimento applicativo di tale beneficio disponendo in particolare al comma 3 che tanto il detenuto, quanto il pubblico ministero, possono, entro ventiquattro ore dalla comunicazione del provvedimento del magistrato di sorveglianza, proporre reclamo al tribunale di sorveglianza (ovvero alla corte d’appello, se il provvedimento è stato adottato da altro organo).

Come è noto, la legge 10 ottobre 1986, n. 663 (Modifiche alla legge sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) – la cosiddetta “legge Gozzini” – introdusse dal canto suo nella legge sull’ordinamento penitenziario il nuovo istituto dei permessi premio, disciplinato all’art. 30-ter, il cui comma 7 – in questa sede censurato – dispone che «[i]l provvedimento relativo ai permessi premio è soggetto a reclamo al tribunale di sorveglianza, secondo le procedure di cui all’art. 30-bis».

Orbene, in forza di tale richiamo, la Consulta osservava come il termine per proporre reclamo contro la decisione del magistrato di sorveglianza in materia di permessi premio sia il medesimo indicato dall’art. 30-bis, comma 3, ordin. penit. per il reclamo contro il provvedimento relativo ai permessi “di necessità” ed è dunque pari a ventiquattro ore dalla sua comunicazione.

Ciò posto, concluso questo excursus normativo, il giudice delle leggi rilevava che la sentenza n. 235 del 1996, richiamata dalla Sezione rimettente, aveva già esaminato questioni di legittimità costituzionale aventi a oggetto l’eccessiva brevità di tale termine, formulate – allora – sotto il concorrente profilo degli artt. 3, 25 e 27 Cost. rilevandosi al contempo come, in quell’occasione, venisse rimarcata la funzionalità del permesso premio alla finalità di graduale reinserimento sociale del condannato nella società definendolo anzi come uno «strumento cruciale ai fini del trattamento» nonché evidenziata la «profonda distinzione» rispetto al permesso cosiddetto di necessità previsto dall’art. 30 ordin. penit., «istituto peraltro non connaturato alla esecuzione della pena» potendo essere concesso anche prima del passaggio in giudicato della sentenza.

Orbene, sempre in tale decisione, la Corte costituzionale non aveva potuto non rilevare, allora, «che la fissazione di un identico termine per il reclamo nei confronti dei provvedimenti concernenti i permessi di necessità ed il reclamo nei confronti dei provvedimenti concernenti i permessi premio si rivel[a] non ragionevole, rispondendo ciascuno dei due provvedimenti reclamati a presupposti e finalità diverse» e che la stessa disciplina dell’art. 30-ter, comma 7, non poteva non suscitare «dubbi di ragionevolezza, potendo apparire non del tutto congruo il termine di ventiquattro ore per censurare un provvedimento che incide su un regime che è parte integrante del trattamento e da cui possono discendere conseguenze dirette anche al fine dell’applicazione delle misure alternative alla detenzione».

Tuttavia, la Corte aveva ritenuto di doversi arrestare a una pronuncia di inammissibilità delle questioni prospettate non riuscendo a rintracciare nell’ordinamento una soluzione costituzionalmente obbligata che potesse consentire di porre direttamente rimedio alla pur riscontrata eccessiva brevità del termine in esame e ciò perché un tale compito non poteva, secondo la Corte, che spettare al legislatore il quale era stato così invitato a «provvedere, quanto più rapidamente, alla fissazione di un nuovo termine che contemperi la tutela del diritto di difesa con le esigenze di speditezza della procedura».

Orbene, a ventiquattro anni di distanza da quel monito, rimasto inascoltato, la Consulta non poteva che ribadire la valutazione di contrarietà alle norme costituzionali del termine in esame già espressa in sostanza nella sentenza n. 235 del 1996.

Irragionevole al metro dell’art. 3 Cost. appare, anzitutto, per il giudice delle leggi, la previsione di un unico termine di ventiquattro ore sia per il reclamo avverso il provvedimento relativo ai permessi “di necessità” – rispetto ai quali la brevità del termine appare correlata, nell’ottica del legislatore, alla situazione di urgenza allegata dall’interessato a fondamento della propria richiesta –, sia per il reclamo contro la decisione sui permessi premio, rispetto alla quale tali ragioni di urgenza certamente non sussistono.

Ingiustificatamente pregiudizievole rispetto all’effettività del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. è, d’altra parte, sempre ad avviso della Corte, un termine così breve rispetto alla necessità, per l’interessato, di articolare compiutamente nello stesso reclamo, a pena di inammissibilità, gli specifici motivi in fatto e in diritto sui quali il tribunale di sorveglianza dovrà esercitare il proprio controllo sulla decisione del primo giudice e ciò anche in relazione alla oggettiva difficoltà, per il detenuto, di ottenere in un così breve lasso di tempo l’assistenza tecnica di un difensore che pure è – in via generale – parte integrante del diritto di difesa in ogni stato e grado del procedimento (sentenze n. 143 del 2013, n. 120 del 2002, n. 175 del 1996, e ulteriori precedenti ivi richiamati).

Tali ostacoli alla possibilità di far valere efficacemente le proprie ragioni avverso una decisione su un istituto già riconosciuto dalla sentenza n. 235 del 1996 come «cruciale ai fini del trattamento», e di cui la costante giurisprudenza costituzionale aveva riconosciuto l’essenziale «funzione “pedagogico-propulsiva” (sentenze n. 504 del 1995, poi sentenze n. 445 del 1997 e n. 257 del 2006) [che] permette l’osservazione da parte degli operatori penitenziari degli effetti sul condannato del temporaneo ritorno in libertà (sentenza n. 227 del 1995)» (sentenza n. 253 del 2019), determinavano, per la Consulta, un indebito ostacolo alla stessa funzione rieducativa della pena di cui all’art. 27, terzo comma, Cost. nell’eventualità di decisioni erronee del magistrato di sorveglianza che l’interessato non abbia la possibilità di contestare efficacemente avanti al tribunale di sorveglianza proprio per effetto dell’eccessiva brevità del termine concessogli per il reclamo.

D’altra parte, secondo il giudice delle leggi, l’introduzione, ad opera dell’art. 3, comma 1, lettera b), del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146 (Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria), convertito, con modificazioni, nella legge 21 febbraio 2014, n. 10, della disciplina di cui all’art. 35-bis ordin. penit. sul reclamo giurisdizionale avverso le decisioni delle autorità penitenziarie che riguardano il detenuto, fornisce oggi – come rilevato pure dal giudice a quo – un «precis[o] punto di riferimento, già rinvenibil[e] nel sistema legislativo» (sentenza n. 236 del 2016) idoneo a eliminare il vulnus riscontrato ancorché non costituente l’unica soluzione costituzionalmente obbligata (sentenze n. 242, n. 99 e n. 40 del 2019, nonché n. 233 e n. 222 del 2018).

Difatti, il comma 4 del menzionato art. 35-bis ordin. penit. prevede nell’ambito di quel procedimento – che disciplina in via generale il controllo giurisdizionale su tutte le decisioni che incidono sui diritti del detenuto – il termine di quindici giorni per il reclamo innanzi al tribunale di sorveglianza, decorrente dalla notificazione o comunicazione dell’avviso di deposito della decisione del magistrato di sorveglianza e tale termine – che peraltro coincide con quello previsto in via generale dall’art. 585 cod. proc. pen. per l’impugnazione dei provvedimenti emessi all’esito della camera di consiglio – costituisce dunque per la Corte una soluzione già esistente nel sistema che si presta naturalmente a essere estesa al reclamo avverso i provvedimenti del magistrato di sorveglianza concernenti i permessi premio da presentare parimenti al tribunale di sorveglianza e ciò ferma restando la possibilità per il legislatore di individuare – nel rispetto dei principi costituzionali sopra richiamati – altro termine, se ritenuto più congruo, per lo specifico reclamo in esame.

La Corte costituzionale, di conseguenza, alla stregua delle considerazioni sin qui esposte, affermava come l’art. 30-ter, comma 7, ordin. penit. dovesse essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui prevede, mediante rinvio al precedente art. 30-bis, che il provvedimento relativo ai permessi premio è soggetto a reclamo al tribunale di sorveglianza entro ventiquattro ore dalla sua comunicazione, anziché prevedere a tal fine il termine di quindici giorni, tanto per l’interessato quanto per il pubblico ministero, restando fermo il rinvio alle procedure di cui all’art. 30-bis ordin. penit. per ogni profilo diverso dal termine per il reclamo e restando assorbita la questione formulata con riferimento all’art. 111 Cost..

Conclusioni

Con questa pronuncia, come appena visto, la Consulta ha dichiarato illegittimo costituzionalmente l’art. 30-ter, comma 7, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui prevede, mediante rinvio al precedente art. 30-bis, che il provvedimento relativo ai permessi premio è soggetto a reclamo al tribunale di sorveglianza entro ventiquattro ore dalla sua comunicazione, anziché prevedere a tal fine il termine di quindici giorni.

Orbene, tale sentenza si pone in linea con una precedente decisione con cui la Consulta era intervenuta a conclusioni analoghe pur non intervenendo direttamente sulla norma in questione dichiarandola costituzionalmente illegittima, ma attendendo un intervento del legislatore che però non è mai arrivato.

Per effetto di questa decisione, dunque, il reclamo avverso il provvedimento relativo ai permessi premio non deve essere più proposto entro 24 ore della sua comunicazione ma, invece, entro quindici giorni.

Questo “nuovo” lasso temporale, di conseguenza, alla luce di quanto postulato in questo provvedimento, dovrà adesso essere preso in considerazione ogniqualvolta dovrà essere proposto questo reclamo.

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