L’art. 7, 2°c., del D.Lgs. 546/1992 dispone che le Commissioni tributarie possono richiedere apposite relazioni ad organi tecnici dell’amministrazione dello Stato o di altri enti pubblici compreso il Corpo della Guardia di Finanza. Tale potere può essere esercitato solo qualora “occorre acquisire elementi conoscitivi di particolare complessità”. Pertanto, la consulenza tecnica rappresenta una mera eventualità processuale, giacché normalmente il processo tributario si presenta come processo scritto, a prevalente prova documentale laddove il giudice tributario se ritiene che ai fini della decisione è necessaria, per risolvere fattispecie sottoposte al suo esame, una competenza estranea al proprio sapere giuridico, può acquisire gli elementi conoscitivi di particolare complessità mancanti, ricorrendo (anche) al consulente tecnico.
Per la regolamentazione dell’istituto, poi, nel silenzio dell’art. 7 citato è necessario rifarsi alle regole ed ai principi fissati in materia dal codice di rito civile.
Ebbene, compito del consulente tecnico è quello di accertare e riferire al giudice, sulla base della documentazione agli atti e di quella integrativa che sarà acquisita nel corso del suo incarico, la fondatezza dei rilievi e dei fatti contestati, attenendosi essenzialmente al quesito postogli. Peraltro, una relazione peritale incompleta, viziata da omissioni o irregolarità sarebbe inutilizzabile e costringerebbe il giudice a rinnovare la consulenza e, addirittura, a sostituire il consulente per gravi motivi.
Ora, è importante ribadire che il consulente tecnico, viene incaricato per valutare le prove prodotte dalle parti e redigere una relazione che viene utilizzata per decidere la controversia. Tale facoltà, tuttavia, incontra un preciso limite, ossia l’impossibilità per il giudice di autorizzare delle consulenze tecniche “esplorative” e cioè, non votate all’analisi tecnica delle prove del giudizio, ma a una vera e propria indagine sui fatti della causa mirata al reperimento di indizi utili alla decisione.
Soltanto in casi particolari, è consentito l’esperimento di consulenze tecniche d’ufficio esplorative laddove la consulenza tecnica d’ufficio, anche se non costituisce, in linea di massima, mezzo di prova, ma strumento per la valutazione della prova acquisita, tuttavia rappresenta una fonte oggettiva di prova quando si risolve nell’accertamento di fatti rilevabili unicamente con l’ausilio di specifiche cognizioni o strumentazioni tecniche» (Corte di Cassazione sentenza numero 2663/2013).
A tal proposito, la Corte di Cassazione, sezione tributaria, con la sentenza n. 24903 depositata il 6 novembre 2013, intervenendo in tema di accise e imposte di fabbricazione, ha statuito che se il giudice di merito fonda la propria decisione su argomentazioni di natura squisitamente tecnica non può esimersi dalla nomina di un consulente tecnico d’ufficio (in prosieguo c.t.u.). Pertanto, le motivazioni del giudice sfornite del necessario supporto tecnico si traducono in affermazioni apodittiche, del tutto inidonee a delineare un percorso argomentativo coerente ed immune da vizi logici e tecnici. Nelle motivazioni, i giudici di legittimità ribadiscono il principio secondo cui il provvedimento che disponga, o no, la consulenza tecnica, rientrando nel potere discrezionale del giudice del merito, è incensurabile in sede di legittimità, e deve essere contemperato con quello secondo il quale il giudice stesso deve sempre motivare adeguatamente la decisione adottata in merito ad una questione tecnica rilevante per la definizione della causa, in relazione alla quale la consulenza può profilarsi come lo strumento più funzionale ed efficiente di indagine. Non va, difatti, tralasciato di considerare che la consulenza tecnica d’ufficio può costituire fonte oggettiva di prova, tutte le volte in cui essa operi – non come strumento di mera valutazione di fatti già accertati, cd. consulente deducente – bensì come mezzo di accertamento di situazioni di fatto rilevabili esclusivamente attraverso il ricorso a determinate cognizioni tecniche (cd. consulente percipiente) (Cass. 3990/06, 6155/09).
Ciò vuol dire che l’ausiliario del giudice nel processo tributario possa non solo “valutare” ma anche “accertare” i fatti laddove la consulenza tecnica d’ufficio, allo stesso tempo, non può mai sostituirsi all’attività istruttoria che compete alle parti.
Ed infatti, la consulenza tecnica, non può essere disposta al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume ed è quindi legittimamente negata dal giudice qualora la parte tenda con essa a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o offerta di prove ovvero a compiere un’indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati (Cass. 16.03.96, n. 2205). Ed ancora, legittimamente non è disposta dal giudice se è richiesta per compiere un’indagine esplorativa sull’esistenza di circostanze, il cui onere di allegazione è invece a carico delle parti (Cass. 15.01.97, n. 342).
Orbene, attenzione va posta relativamente a quello che è il comportamento adottato dal giudice di fronte alla consulenza tecnica.
Ed allora, nel caso in cui il giudice decida di uniformarsi a quanto espresso e rilevato nella perizia dal C.T.U. non sarà necessaria alcuna motivazione sul punto, ben potendo il giudice limitarsi ad aderire alle elaborazioni del consulente. Giova richiamare alcune pronunce della Corte di Cassazione, che hanno affermato come il giudice, quando aderisca alle conclusioni del consulente tecnico, assolva al proprio obbligo di motivazione limitandosi a indicare le fonti del proprio convincimento, senza dover esaminare specificatamente le contrarie deduzioni di parte, che debbono così intendersi per implicito disattese. (Cass. civ. 4 maggio 2009, n. 10222; Cass. civ. 22 febbraio 2006, n. 3881; Cass. civ. 20 agosto 2004, n. 16392).
Al contrario, nell’ipotesi in cui o le parti contestino in modo specifico la C.T.U., o il giudice ritenga di non condividere la stessa, sarà necessaria un’adeguata motivazione, esente da vizi logici ed errori di diritto.
Proprio relativamente a quest’ultimo aspetto, con una recente e interessante sentenza, n. 24630 del 03 dicembre 2015 la Corte di Cassazione ha precisato: <<Il giudice del merito ha il potere discrezionale di disattendere le conclusioni della consulenza tecnica d’ufficio, senza dover disporre altra perizia, ma detta decisione può essere censurata in sede di legittimità ove la soluzione prescelta non risulti sufficientemente motivata.>>.
Altresì, con ordinanza n. 20398 del 12 ottobre 2015, la Suprema Corte ha stabilito in tal senso: <<In proposito, non può che essere ribadito che le valutazioni espresse dal consulente tecnico d’ufficio non hanno efficacia vincolante per il giudice e, tuttavia, egli può legittimamente disattenderle soltanto attraverso una valutazione critica, che sia ancorata alle risultanze processuali e risulti congruamente e logicamente motivata, dovendo il giudice indicare gli elementi di cui si è avvalso per ritenere erronei gli argomenti sui quali il consulente si è basato, ovvero gli elementi probatori, i criteri di valutazione e gli argomenti logico-giuridici per addivenire alla decisione contrastante con il parere del c.t.u.>>.
In sostanza, la relazione peritale del consulente tecnico d’ufficio non vincola il giudice, il quale resta sempre iudex peritus peritorum, con la conseguenza che allo stesso è consentito dissentire dalle conclusioni cui è giunto il consulente, purché tale dissenso sia adeguatamente motivato.
Ed allora, dato il gran numero di casi in cui i giudici tributari ricorrono al consulente tecnico d’ufficio, proprio perché non sono in realtà giudici specializzati, essendo nominati direttamente dal MEF, e non accedendo per concorso come tutti gli altri giudici civili, penali, amministrativi, si attende una riforma della giustizia tributaria che li qualifichi professionalmente e li retribuisca in maniera adeguata.
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento