La compensazione delle spese non è puro esercizio di discrezione del giudice

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Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno finalmente posto un punto fermo sull’annosa questione della discrezionalità del giudice in ordine alla compensazione, parziale o totale, delle spese processuali sotto il regime anteriore alla novella introdotta con la legge 28 dicembre 2005, n. 263.
È quanto emerge dalla recente sentenza n. 20598 del 30 luglio 2008, emessa dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione Civile, che hanno disatteso l’orientamento più volte seguito secondo cui il Giudice, nella scelta di compensare o meno le spese del giudizio, non era obbligato a specificarne i motivi.
I Giudici di legittimità, infatti, componendo un contrasto insorto nella giurisprudenza hanno affermato la necessità che il provvedimento di compensazione parziale o totale delle spese per "giusti motivi" deve trovare nella sentenza un adeguato supporto motivazionale, anche se a tal fine non è necessaria l’adozione di motivazioni specificamente riferite a detto provvedimento, purchè tuttavia le ragioni giustificatrici di esso siano chiaramente e inequivocabilmente desumibili dal complesso della motivazione adottata a sostegno della statuizione di merito.
In particolare l’obbligo del giudice di dare conto delle ragioni della compensazione totale o parziale delle spese dovrà ritenersi assolto, oltre che in presenza di argomenti specificamente riferiti a detta statuizione, anche allorchè le argomentazioni svolte per la statuizione di merito contengano in sé considerazioni giuridiche o di fatto idonee a giustificare le regolazione delle spese adottata.
Le Sezioni Unite, in detta pronuncia, hanno richiamato una nota ordinanza della Corte Costituzionale (la n. 395/2004) con la quale non è stata avallata come conforme alla Costituzione una interpretazione dell’art. 92 c.p.c. che esonerasse il giudice da ogni obbligo di motivazione, affermando al contempo che il giudice rimettente, una volta interpretata alla luce dei principi costituzionali (e in particolare dell’art. 111 Cost., comma 6) la norma che disciplina la compensazione delle spese di lite, ove avesse inteso compensare queste ultime, avrebbe dovuto in tali termini farne applicazione, dando quindi conto, con adeguata motivazione, dei “giusti motivi” che lo inducevano a non porre, in tutto o in parte, le spese di lite a carico della parte soccombente.
In sostanza, nell’ordinanza citata la Corte Costituzionale indicava al giudice rimettente la strada che egli avrebbe dovuto seguire, sollecitandolo ad una interpretazione dell’art. 92 c.p.c. conforme al dettato di cui agli artt. 111 e 24 Cost., interpretazione che, certamente, ancor più alla luce della riscrittura dei principi dell’art. 111 Cost., non potrebbe in alcun modo condurre ad individuare nel potere del giudice di compensare le spese un potere sostanzialmente arbitrario e cioè svincolato dal rispetto della regola che, in piena aderenza coi principi del giusto processo e dell’effettività del diritto di difesa, impone – in linea di principio – di addossare al soccombente il costo del giudizio.
Ed è proprio statuendo l’illegittimo esercizio della discrezionalità processuale dei giudici in materia di spese che la Suprema Corte, sezione lavoro, ha di recente accolto la tesi prospettata dalla difesa, sostenuta dall’avvocato scrivente, su un’analoga questione, cassando la sentenza impugnata (Cassazione Civile, Sezione Lavoro, sentenza del 20 ottobre 2008, n. 28130/08).
Nell’occasione lo scrivente avvocato ha contestato la statuizione di secondo grado sulle spese processuali, ritenuta palesemente in contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione e con gli artt. 91, 92 e 96 c.p.c., lamentando il fatto che il giudice di appello avesse compensato le spese del grado senza dare alcuna giustificazione di tale decisione e sostenendo inoltre che la compensazione si risolve in una implicita ed ingiusta condanna della parte vittoriosa a sopportare le spese del processo.
La sentenza impugnata, infatti, non conteneva alcuna espressa motivazione a giustificazione della totale compensazione delle spese del giudizio di appello, né le ragioni della compensazione potevano desumersi dalla motivazione adottata a sostegno della dichiarazione di inammissibilità dell’appello dell’ente ricorrente.
Un dato, in conclusione, emerge con estrema chiarezza. La sentenza succitata intende ribadire il diritto sancito dall’art. 24 della Costituzione per cui “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi”. Agire in giudizio per tutelare i propri diritti non può andare a danno della parte che ha ragione e che è costretta a ricorrere al magistrato per ottenerne il riconoscimento.
Si dà così piena applicazione all’art. 91 c.p.c., in forza del quale le spese processuali seguono, come da logica, la soccombenza.
 
 
Avv. Domenico Polimeni
Con la collaborazione dell’Avv. Samantha Farcomeni

Polimeni Domenico

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