La Commissione Europea chiede all’Italia di garantire trasparenza e parità di trattamento in merito al rilascio di autorizzazioni relative all’uso del demanio marittimo per il turismo balneare e i servizi ricreativi

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La Commissione Europea ha deciso di inviare una lettera di costituzione in mora all’Italia in merito al rilascio di autorizzazioni relative all’uso del demanio marittimo per il turismo balneare e i servizi ricreativi. Gli Stati membri sono tenuti a garantire che le autorizzazioni, il cui numero è limitato per via della scarsità delle risorse naturali, siano rilasciate per un periodo limitato e mediante una procedura di selezione aperta, pubblica e basata su criteri non discriminatori, trasparenti e oggettivi. L’obiettivo è fornire a tutti i prestatori di servizi interessati – attuali e futuri – la possibilità di competere per l’accesso a tali risorse limitate, di promuovere l’innovazione e la concorrenza leale e offrire vantaggi ai consumatori e alle imprese, proteggendo nel contempo i cittadini dal rischio di monopolizzazione di tali risorse.

Nella nota sentenza del 14 luglio 2016 emessa a seguito di un rinvio pregiudiziale del Tribunale amministrativo regionale della Lombardia (cause riunite C-458/14 e C-67/15), la Corte di giustizia dell’Unione europea ha stabilito che la normativa pertinente e la pratica esistente a quel tempo in Italia di prorogare automaticamente le autorizzazioni vigenti delle concessioni balneari erano incompatibili con il diritto dell’Unione. L’Italia non ha attuato la sentenza della Corte. Inoltre, l’Italia da allora ha prorogato ulteriormente le autorizzazioni vigenti fino alla fine del 2033 e ha vietato alle autorità locali di avviare o proseguire procedimenti pubblici di selezione per l’assegnazione di concessioni, che altrimenti sarebbero scadute, violando il diritto dell’Unione.

La Commissione ritiene che la normativa italiana, oltre a essere incompatibile con il diritto dell’UE, sia in contrasto con la sostanza della sentenza della CGUE sopra menzionata, scoraggi gli investimenti in un settore fondamentale per l’economia italiana e già duramente colpito dalla pandemia di coronavirus, causando nel contempo una perdita di reddito potenzialmente significativa per le autorità locali italiane. L’Italia dispone di 2 mesi per rispondere alle argomentazioni sollevate dalla Commissione, trascorsi i quali la Commissione potrà decidere di inviare un parere motivato.

Tale lettera di costituzione in mora si inserisce in un contesto normativo e giurisprudenziale che ha creato incertezza giuridica per il turismo balneare e i servizi ricreativi.

La norma

Come noto, la Direttiva 2006/123/CE in materia di servizi liberalizza le attività private eliminando in buona parte i previgenti regimi autorizzatori.

Tra le attività non liberalizzate la Direttiva Bolkestein, all’art. 12, ricomprende l’utilizzo del demanio marittimo per finalità turistico ricreative in quanto trattasi di una attività da esercitarsi per mezzo di un bene pubblico, il demanio marittimo certamente vasto, ma, comunque limitato nella sua estensione.

Qualora, infatti, ai sensi dell’art. 12“il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali” l’Amministrazione è tenuta ad avviare “una procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie di imparzialità e di trasparenza e preveda, in particolare, un’adeguata pubblicità dell’avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento”.

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Le materie del contrasto alla corruzione e della trasparenza nelle pubbliche amministrazioni sono state oggetto di numerosi interventi normativi negli ultimi anni: sull’anticorruzione, con la Legge 6 novembre 2012, n. 190, fondata sull’introduzione di strumenti di prevenzione attiva; sulla trasparenza, con il D.lgs. n. 33/2013, che ha previsto gli obblighi di pubblicazione di documenti, dati e informazioni e con il D.lgs. n. 97/2016, che ha introdotto l’istituto dell’accesso generalizzato.Altra significativa innovazione è stata la costituzione progressiva di un’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), autorità indipendente che ha contribuito a produrre nuove regole, anche in via di interpretazione della legislazione vigente.Considerata la forte dispersione della disciplina, per entrambe le materie, in distinti corpi normativi e il concorrere di fonti di rango diverso, questo nuovissimo Codice organizza in modo strutturato i principali atti normativi e si configura come un supporto conoscitivo indispensabile per i RPCT e operatori del diritto sui principali strumenti di contrasto alla corruzione introdotti dall’ordinamento.Il Codice è articolato in 10 parti: 1. Convenzioni internazionali 2. La disciplina in materia di prevenzione della corruzione3. La repressione penale della corruzione4. La disciplina in materia di trasparenza5. La disciplina delle inconferibilità, incompatibilità, ineleggibilità e incandidabilità nel settore pubblico6. La normativa in materia di conflitti di interesse e di codici di comportamento dei dipendenti pubblici7. La disciplina delle segnalazioni di illeciti da parte dei dipendenti pubblici (c.d. “whistleblowers”) 8. La disciplina delle società a partecipazione pubblica e degli altri enti di diritto privato in tema di trasparenza e prevenzione della corruzione9.Le misure straordinarie di gestione,sostegno e monitoraggio delle imprese10. L’organizzazione dell’Autorità Nazionale Anticorruzione), ciascuna delle quali preceduta da una brevissima presentazione e contenente norme legislative, norme regolamentari e norme di soft law (prevalentemente nella veste di Linee guida), emanate dall’A.N.A.C.Raffaele Cantone – Presidente dell’Autorità Nazionale AnticorruzioneFrancesco Merloni – Consigliere A.N.AC.Barbara Coccagna – Funzionario A.N.AC.Vittorio Scaffa – Funzionario A.N.AC. 

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La sentenza della Corte di Giustizia del 14 luglio 2016

La Corte di Giustizia UE del 14 luglio 2016 (in cause riunite C-458/14, Promoimpresa S.r.l. e C-67/15, Mario Melis e altri), ha affermato che “l’articolo 12, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno, deve essere interpretato nel senso che osta a una misura nazionale, [..] che prevede la proroga automatica delle autorizzazioni demaniali marittime e lacuali in essere per attività turistico‑ricreative, in assenza di qualsiasi procedura di selezione tra i potenziali candidati”.

In particolare “L’articolo 49 TFUE deve essere interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale […] che consente una proroga automatica delle concessioni demaniali pubbliche in essere per attività turistico‑ricreative, nei limiti in cui tali concessioni presentano un interesse transfrontaliero certo”. Peraltro, anche la precedente giurisprudenza nazionale aderiva all’interpretazione del’art. 37 cod.nav. che privilegia l’esperimento della selezione pubblica nel rilascio delle concessioni demaniali marittime, derivante proprio dall’esigenza di applicare le norme conformemente ai principi comunitari in materia di libera circolazione dei servizi, di par condicio, di imparzialità e di trasparenza.

Il Consiglio di Stato dichiara l’illegittimità delle proroghe

Il Consiglio di Stato sentenza n. 7874 del 18 novembre 2019, sul tema delle proroghe alle concessioni demaniali marittime, afferma la non conformità delle medesime al diritto europeo. Ancora una volta, richiamandosi la nota sentenza della Corte di Giustizia del 14 luglio 2016 la giurisprudenza amministrativa conferma che l’assegnazione delle concessioni demaniali marittime, in quanto rappresenta un’occasione di guadagno, deve essere preceduta di regola da una fase di evidenza pubblica.

Nella parte in diritto della sentenza emerge come, già prima della celebre pronuncia della Corte di giustizia, il Consiglio di Stato aveva sancito in precedenti pronunce, l’illegittimità di una normativa sulle proroghe ex lege della scadenza di concessioni demaniali, perché equivalenti a un rinnovo automatico di per sé ostativo a una procedura selettiva. Inoltre, risulta già affermata, sempre nella giurisprudenza precedente, l’illegittimità di leggi regionali contemplanti, a talune condizioni, la proroga automatica delle concessioni del demanio marittimo al già titolare, evidenziando che proroga e rinnovo automatico, determinando una disparità di trattamento tra operatori economici mediante preclusioni o ostacoli alla gestione dei beni demaniali oggetto di concessione, violano in generale i principi del diritto comunitario su libertà di stabilimento e tutela della concorrenza.

Pertanto, con la sentenza n. 7874 del 18 novembre 2019, VI Sezione, il Consiglio di Stato applicando la normativa e la giurisprudenza dell’Unione Europea, stabilisce che le leggi nazionali italiane che prevedono proroghe automatiche delle concessioni demaniali marittime siano in contrasto con il diritto europeo e che vadano pertanto disapplicate.

Con la concessione demaniale marittima viene fornita un’occasione di guadagno agli operatori economici, la quale impone una procedura di selezione.

La norma nazionale in contrasto con la norma europea è vincolante per la Pubblica Amministrazione?

La sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia-Lecce, n.1321 del 27/11/2020, ponendosi in mutamento rispetto alle numerose precedenti pronunce dell’Autorità giurisdizionale sul tema, afferma che la norma nazionale anche se in conflitto con quella europea è vincolante per la Pubblica Amministrazione in quanto il potere di disapplicazione è attribuito soltanto al giudice.

La vicenda trae origine dal ricorso presentato al Tar da un operatore balneare per l’annullamento del provvedimento del Comune con cui veniva disposto l’annullamento d’ufficio ex art. 21 nonies della legge 241/1990 dell’addendum all’atto concessorio avente ad oggetto la proroga ex lege della concessione demaniale marittima.

L’amministrazione aveva disposto annullamento d’ufficio del provvedimento di proroga della concessione demaniale in quanto ritenuto adottato in violazione del diritto europeo e della direttiva c.d. servizi.

In particolare, il ricorrente ritiene che l’impugnato provvedimento di annullamento d’ufficio risulterebbe supportato dall’erroneo convincimento del ritenere principio ormai consolidato in giurisprudenza quello secondo il quale la disapplicazione della norma nazionale confliggente con il diritto dell’Unione Europea a maggior ragione se tale contrasto sia stato accertato dalla Corte di Giustizia UE, costituisce un obbligo per lo Stato membro in tutte le sue articolazioni e, quindi, anche per l’apparato amministrativo e per i suoi funzionari qualora sia chiamato ad applicare una norma interna contrastante con il diritto comunitario.

La sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia-Lecce, n.1321 del 27/11/2020, ritiene che la disapplicazione vincolata ed automatica disposta dalle singole amministrazioni determinerebbe una situazione caotica ed eterogenea.

Il Tar condivide la tesi secondo cui per il caso di conflitto della norma nazionale con norma comunitaria immediatamente efficace ed esecutiva ritiene sussistere l’obbligo di disapplicazione della norma interna in favore di quella U.E., interpretata nel senso vincolativamente indicato da eventuale sentenza della C.G.U.E. Tuttavia, non riconosce natura interpretativa vincolante ad una pronuncia della Corte di Giustizia nella quale risulta affermato il principio secondo cui la prevalenza della norma unionale su quella nazionale comporterebbe l’obbligo di disapplicazione di quella interna da parte dello stato membro “in tutte le sue articolazioni” ovvero sia da parte del giudice che da parte dell’amministrazione.

L’orientamento espresso dalla Giurisprudenza del Consiglio di Stato, condivisibile e consolidato quanto alla configurazione del provvedimento amministrativo conforme alla legge nazionale in contrasto con la norma euro-unionale come provvedimento illegittimo e non già come nullo, non appare viceversa condivisibile quanto all’accennato obbligo posto a carico dell’amministrazione di disapplicare la norma nazionale, ritenendosi viceversa tale attività riservata solo ed esclusivamente al giudice […]. La disapplicazione attiene […] alla decisione del caso concreto e non è pertanto idonea a determinare un effetto erga omnes.

Secondo la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia-Lecce, n.1321 del 27/11/2020 occorre considerare che la disapplicazione della norma nazionale da parte del giudice si inserisce in un contesto coerente e tendenzialmente unitario, quale quello proprio del sistema di tutela giurisdizionale offerto dall’ordinamento, che – attraverso il ricorso ai mezzi di impugnazione ordinaria e straordinaria – garantisce uniformità di applicazione della norma sul territorio nazionale, laddove la disapplicazione vincolata ed automatica disposta dalle singole pubbliche amministrazioni determinerebbe una situazione caotica ed eterogenea, nonché caratterizzata in ipotesi da disparità di trattamento tra gli operatori a seconda del Comune di riferimento

[…] In conclusione rileva il Collegio che risulterebbe del tutto illogico ritenere che il potere di disapplicazione della legge nazionale, attribuito prudentemente al giudice dall’ordinamento interno e dall’ordinamento euro-unionale e supportato all’uopo dalla specifica attribuzione di poteri ad esso funzionali e prodromici, si ritenesse viceversa sic et simpliciter attribuito in via automatica e addirittura vincolata al dirigente comunale, che non dispone (e non a caso) della possibilità di ricorrere all’ausilio di tali facoltà.

Il Tar dunque, alla luce di tali argomentazioni giunge a dichiarare l’illegittimità dell’impugnato provvedimento del Comune con cui il Dirigente preposto al settore ha determinato l’annullamento in autotutela della proroga della concessione di titolarità della ricorrente fino all’anno 2033.

Primato del diritto europeo sul diritto nazionale

Nel corso degli anni, i rapporti tra ordinamento interno e ordinamento europeo sono stati oggetto di un lungo processo evolutivo. Oggi, è pacifico che i rapporti tra ordinamento europeo ed ordinamento nazionale si risolvano alla luce del principio del primato del diritto europeo. Tuttavia, a tale risultato si è giunti a seguito di un dialogo tra la Corte di Giustizia e la Corte costituzionale e solo all’esito di diverse tappe scandite da altrettante pronunce della Corte Costituzionale che, recependo le pronunce della Corte di Giustizia, hanno affermato il primato del diritto europeo.

In un primo tempo, la Corte costituzionale riteneva che le norme interne e le norme europee fossero fonti di pari grado gerarchico, e che pertanto nel caso di contrasto occorreva darsi applicazione al principio generale della successione di leggi nel tempo.

In una seconda fase, si è affermato il primato del diritto europeo, tuttavia tale fase segna una tappa intermedia in quanto nel caso di contrasto della norma interna con la norma sovranazionale occorreva dichiarare l’incostituzionalità della norma interna utilizzando come norma parametro l’art. 11 della Costituzione.

Nella terza fase, la Corte costituzionale, recependo le critiche sollevate dalla Corte di Giustizia, afferma che in caso di contrasto con il diritto europeo la norma interna subisce un’automatica disapplicazione. A partire dalla sentenza n.170/1984 della Corte costituzionale il criterio di risoluzione dei contrasti è la disapplicazione. La Consulta ha affermato che in caso di sopravvenienza di una norma comunitaria contrastante con una norma nazionale preesistente quest’ultima deve intendersi automaticamente caducata.

Nella quarta fase, infine, la Corte Costituzionale con la sentenza n. 384/1994, ha mostrato apertura alla tesi monistica sostenuta dalla Corte di Giustizia, che vede i due ordinamenti come legati da un rapporto di integrazione e non invece come due ordinamenti separati.

Sorti dell’atto amministrativo anti-comunitario

Qualora vi sia una norma interna in contrasto con il diritto europeo è, pertanto, principio consolidato il primato del diritto europeo e la disapplicazione della norma interna. Ed invece, è stato oggetto di dibattito in dottrina ed in giurisprudenza la questione delle sorti dell’atto amministrativo in contrasto con il diritto europeo.

Una prima tesi ritiene che l’atto amministrativo in contrasto con il diritto europeo è nullo o inesistente.

L’art.21 septies L.241/1990, che disciplina la nullità del provvedimento amministrativo, afferma che “è nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adotatto in violazione o elusione di giudicato, nonchè negli altri casi espressamente previsti dalla legge”.

Tuttavia, non si ravvisa nel testo di legge alcuna ipotesi di nullità riconducibile alla violazione del diritto europeo.

Altra interpretazione ritiene che l’atto amministrativo, al pari della legge, qualora in contrasto con il diritto europeo deve essere disapplicato.

Secondo una terza tesi, condivisa dalla prevalente giurisprudenza amministrativa, la violazione del diritto europeo produce conseguenze assimilabili alla violazione del diritto interno.

Il provvedimento amministrativo adottato in conformità alla legge nazionale ma in violazione di direttiva auto-esecutiva o di regolamento U.E., secondo l’orientamento giurisprudenziale largamente prevalente, costituisce atto illegittimo e non già atto nullo, con conseguente sua annullabilità da parte del Giudice Amministrativo (previa disapplicazione della norma nazionale), su eventuale ricorso che potrà essere proposto da un soggetto per il quale ricorrano i presupposti della legittimazione e dell’interesse a ricorrere. Pertanto, il provvedimento in contrasto con il diritto sovranazionale deve essere annullato.

L’annullabilità è disciplinata agli artt. 21 octies co 1 L.241/1990, art 29 e art 34 co 1 lettera a) c.p.a.

Si tratta di ipotesi tassative di annullabilità, le quali si identificano in: violazione della legge, eccesso di potere e incompetenza.

Pertanto, nel caso di specie si tratterebbe di annullabilità per violazione di legge.

Trattandosi di annullabilità per violazione di legge rimangono, pertanto, fermi i principi generali dell’azione di annullamento e quindi sia la necessità di un ricorso nei termini di sessanta giorni che la necessità di gravami puntuali sulla violazione di legge.

L’art. 29 c.p.a. prevede che “l’azione di annullamento per violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere si propone nel termine di decadenza di sessanta giorni”.

Inoltre, se si consentisse al giudice, nel caso in cui l’atto illegittimo sia impugnato per violazione del diritto comunitario, di disapplicare le norme processuali nazionali, ciò porterebbe ad un’ingiustificata differenziazione della tutela dei diritti dei singoli a seconda che tali diritti derivino dal diritto comunitario o dal diritto interno.

Sulla questione la Corte di Giustizia (nel c.d. caso Santex), ha affermato che spetta all’ordinamento nazionale di ogni Stato membro definire le modalità processuali affinchè sia rispettato il diritto europeo “Richiamando la giurisprudenza della Corte secondo cui, in mancanza di una disciplina comunitaria, spetterebbe all’ordinamento giuridico di ciascuno Stato membro stabilire le modalità procedurali dei ricorsi giurisdizionali intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza delle norme di diritto comunitario aventi effetto diretto”.

Occorre, tuttavia, che siano rispettati il principio di equivalenza, pertanto la tutela della posizione europea deve avere la stessa tutela di quella nazionale, ed il principio di effettività, pertanto deve essere garantita l’effettiva applicazione del diritto europeo.

Per quanto attiene al primo profilo, la Corte di Giustizia rileva che il termine di sessanta giorni previsto dal Codice del processo amministrativo rispetta il principio di equivalenza poichè trova applicazione sia nel caso violazione di legge nazionale che nel caso di violazione di legge europea.

Infine, per quanto attiene al principio di effettività, il termine di sessanta giorni non osta all’effettiva applicazione del diritto europeo.

In particolare la Corte ha constatato che “sebbene spetti all’ordinamento nazionale di ogni Stato membro definire le modalità relative al termine di ricorso destinate ad assicurare la salvaguardia dei diritti conferiti dal diritto comunitario ai candidati e agli offerenti lesi da decisioni delle amministrazioni aggiudicatrici, tali modalità non devono mettere in pericolo l’effetto utile della direttiva 89/665, la quale è intesa a garantire che le decisioni illegittime di tali amministrazioni aggiudicatrici possano essere oggetto di un ricorso efficace e quanto più rapido possibile (sentenza Universale-Bau e a., cit., punti 71, 72 e 74). 52 È in tale contesto che la Corte ha rilevato che la fissazione di termini di ricorso ragionevoli a pena di decadenza risponde, in linea di principio, all’esigenza di effettività derivante dalla direttiva 89/665, in quanto costituisce l’applicazione del principio della certezza del diritto (sentenza Universale-Bau e a., cit., punto 76)”.

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