L’ultima pagina, ma di certo non quella definitiva, in materia di danno esistenziale, è opera della terza sezione della Suprema Corte. Con la sentenza n. 2546 del 6 febbraio 2007, richiamando il proprio recente orientamento giurisprudenziale, i giudici di legittimità hanno precisato che “il danno esistenziale, da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) che alteri le abitudini e gli assetti relazionali propri del soggetto, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno, non costituisce una componente o voce né del danno biologico né del danno morale, ma un autonomo titolo di danno, il cui riconoscimento non può prescindere da una specifica allegazione nel ricorso introduttivo del giudizio sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo”.
La decisione in esame, facendo riferimento al risarcimento spettante agli stretti congiunti della persona deceduta a causa di illecita condotta, precisa, altresì, che il danno biologico può essere riconosciuto e liquidato anche in via equitativa solo qualora sia stata fornita la prova che il decesso abbia inciso negativamente sulla salute dei congiunti, determinando una qualsiasi apprezzabile permanente patologia o l’aggravamento di una patologia preesistente.
Questo intervento, che probabilmente non è definitivo, consolida l’impostazione assunta in materia dalla Suprema Corte sin dalle prime sentenze.
Nel 2005, la terza sezione civile della Suprema Corte, aveva avuto un arresto con la sentenza n.15022 reputando che, ai fini dell’art. 2059 c.c. non potesse farsi riferimento ad una generica categoria di "danno esistenziale" (“dagli incerti e non definiti confini”), poiché attraverso questa via si finiva per portare “anche il danno non patrimoniale nell’atipicità, sia pure attraverso l’individuazione dell’apparente tipica figura del "danno esistenziale", in cui tuttavia confluiscono fattispecie non necessariamente previste dalla norma ai fini specifici della risarcibilità di tale tipo di danno”. Si concludeva affermando che, doveva farsi riferimento agli interessi costituzionalmente protetti e non ad una fumosa categoria di danno esistenziale.
Erano state già evidenziate a suo tempo le aporie di un siffatto tessuto argomentativo: il danno esistenziale, infatti, coincideva esattamente con i suddetti interessi e delimitava, così, l’area della tipicità legale nell’ambito dell’art. 2059 c.c. A sciogliere ogni dubbio sono, quindi, intervenute le Sezioni Unite, nel recente intervento del 24 marzo 2006, con la sentenza n. 6572: il danno esistenziale è autonoma e legittima categoria dogmatica giuridica in seno all’art. 2059 c.c.
Con la sentenza n. 13546 del 12 giugno 2006, registrato il vade retro della terza sezione civile della Cassazione, si è iniziato ad assistere ad un definitivo consolidamento della materia, essendosi eliminato l’ultimo contrasto, infatti, si è recepito l’insegnamento dell’intervento nomofilattico e si è data così, piena ed incondizionata cittadinanza ad una delle più dibattute categorie giuridiche dell’ultimo ventennio.
L’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art.2059 c.c., va tendenzialmente riguardata non già come occasione di incremento generalizzato delle poste di danno, ma, soprattutto, come mezzo per colmare le lacune nella tutela risarcitoria della persona, tenendo presente che esiste un sistema bipolare del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale. Quest’ultimo comprende ill danno biologico in senso stretto, configurabile solo quando vi sia una lesione dell’integrità psico-fisica secondo i canoni fissati dalla scienza medica, del danno morale soggettivo, come tradizionalmente inteso, il cui ambito resta esclusivamente quello proprio della mera sofferenza psichica e del patema d’animo, nonché dei pregiudizi, diversi ed ulteriori, purché costituenti conseguenza della lesione di un interesse costituzionalmente protetto.
Il pericolo, in questo tema di grande attualità, è che i giudici, e più in generale gli operatori del diritto, abbiano dei pregiudizi ai quali piegare l’interpretazione della legge e quindi vadano alla ricerca dei motivi idonei a suffragare le proprie convinzioni, invece di studiare prima la legge, per poi prenderne atto e tenere lontane alcune istanze del dibattito dottrinale che presentano i connotati di una battaglia ideologica, spesse volte, però, caratterizzata da non troppi nobili interessi privati, anche e soprattutto economici.
L’Italia è un paese c.d. di civil law e non del common law; il giudice non è chiamato a fare le leggi, ma solo a interpretarle e applicarle, e quindi queste ultime non devono essere viste come un limite, un ostacolo al raggiungimento di certi obiettivi ritenuti buoni, utili, giusti, ma occorre un approccio che guardi alle logiche che sono proprie di uno stato di diritto fondato su una costituzione rigida.
E’ necessario, dunque, tenere fuori le battaglie ideologiche, che, peraltro, spesso celano tutt’altro, e ci si deve concentrare sui profili strettamente tecnici del problema, sull’elaborazione da parte della dottrina e gli interventi della Corte di Cassazione sul concetto di danno esistenziale, che, nell’introdurre questo nuovo strumento lessicale hanno contribuito ad una semplificazione della materia, consentita ormai dalla svolta introdotta nel risarcimento dei danni non patrimoniali dalle due decisive sentenze della III Sezione Civile della Corte Suprema n. 8827 e n. 8828 del 31 maggio 2003, avallate, poi, dalla Corte Costituzionale, con la sentenza n. 233 dell’11 luglio 2003 e seguite da tutta una serie di sentenze, tra cui proprio quella recente da cui qui si è preso spunto per aggiungere un nuovo tassello al complesso puzzle che negli ultimi anni la giurisprudenza e la dottrina hanno disegnato del danno esistenziale.
Quindi, con riferimento alla giurisprudenza, prima di commentare l’ultimo intervento della Suprema Corte in materia, è sufficiente analizzare pochissime sentenze, grazie alle quali è possibile farsi rapidamente un’idea del quadro giuridico in materia. Infatti, sono pronunce che hanno il pregio della chiarezza e della puntualità sugli aspetti centrali del problema, probabilmente non sono sentenze definitive, perché altre ne verranno ancora a chiarire e precisare, vista l’importanza e l’evolversi della materia nell’attuale società, ma comunque oggi sono dei punti fermi, imprenscindibili, da cui partire.
Pietre miliari del percorso di modernizzazione della disciplina del danno non patrimoniale, attraverso la strada della reinterpretazione dell’art. 2059 c.c.. sono, quindi, la sentenza Cass.Civ Sez. III, 31 maggio 2003, n. 8827, e Cass. Sez. III, 31 maggio 2003, n. 8828, dove si legge “Ritiene il Collegio che la tradizionale restrittiva lettura dell’art. 2059, in relazione all’art. 185 c.p., come diretto ad assicurare tutela soltanto al danno morale soggettivo, alla sofferenza contingente, al turbamento dell’animo transeunte determinati da fatto illecito integrante reato (interpretazione fondata sui lavori preparatori del codice del 1942 e largamente seguita dalla giurisprudenza), non può essere ulteriormente condivisa”. Nel porre in rilievo che la Costituzione riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, la Corte ha sottolineato come il danno non patrimoniale costituisce categoria ampia e comprensiva di ogni ipotesi in cui risulti leso un valore inerente la persona
Molteplici sono stati anche gli interventi della Corte Costituzionale che hanno dato un segno nell’evoluzione interpretativa in argomento .Anzitutto, la pronunzia che ha riconosciuto la tutela del danno non patrimoniale nella sua accezione più ampia di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non suscettibili direttamente di valutazione economica, includendovi il cd danno biologico, quale lesione del bene “salute”, figura autonoma e indipendente da qualsiasi circostanza e conseguenza di carattere patrimoniale (Corte Cost. 26 luglio 1979, n. 88). La sentenza che ha quindi collocato il danno biologico nell’ambito del danno patrimoniale ex art. 2043 c.c., ravvisandone il fondamento nell’ingiustizia insita nel fatto menomativo della integrità bio-psichica, nella sottolineata esigenza di sottrarre la risarcibilità del danno non patrimoniale derivante dalla lesione dì un diritto costituzionale tutelato (il diritto alla salute contemplato dall’art. 32 Cost.) ai limiti posti dall’art. 2059 c.c. (Corte Cost. 14 luglio 1986, n. 184). Alla decisione, ancora, che ha nuovamente ricondotto il danno biologico nell’ambito dell’art. 2059 c.c. (Corte Cost. 27 ottobre 1994, n. 372).
Le recentissime sentenze della Cassazione, Cass. Sezioni Unite, 24 marzo 2006, n. 6572, e Cass. Sez. III, 12 giugno 2006, n. 13546, si sono fatte carico di dare una definizione di danno esistenziale.
La prima, a Sezioni Unite, più che altro si preoccupa non tanto e non solo di darne una definizione, ma di delinearne il contenuto e di chiarire l’aspetto probatorio che diventa essenziale per il danneggiato, su cui grava il relativo onere.
Stabiliscono le Sezioni Unite che «per danno esistenziale si intende ogni pregiudizio che l’illecito (…) provoca sul fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Peraltro il danno esistenziale si fonda sulla natura non meramente emotiva ed interiore (propria del cosiddetto danno morale), ma oggettivamente accertabile del pregiudizio, attraverso la prova di scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l’evento dannoso». E poi, la Cass. Sez. III, 12 giugno 2006, n. 13546, parte dall’arresto delle Sezioni Unite e si fa carico di ricostruire il percorso seguito per giungervi e di catalogare in maniera esauriente le varie tipologie di danno risarcibile, collocandovi il danno esistenziale e definendone i rapporti con le altre figure di danno.
Scrive la Corte: “le plurime voci di danno nel tempo elaborate in tema di risarcimento del danno alla persona sono state riportate, nell’ambito di un “sistema bipolare”, costituito dal danno patrimoniale ex art. 2043 c.c. e dal danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c.” e, la Suprema Corte, è pervenuta, da un canto, a rimarcare il carattere interiore e privo di obiettivizzazione all’esterno del danno morale, espressamente qualificato come «soggettivo»; per altro verso, a precisare che esso non esaurisce l’ambito del danno non patrimoniale, costituendone un mero aspetto, al contempo svincolandone la risarcibilità dalla ricorrenza del reato.
In tale quadro, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che il danno non patrimoniale non può più essere inteso, come in precedenza, in termini di sostanziale coincidenza con il (solo) danno morale, e limitatamente all’ipotesi in cui il fatto illecito integri una fattispecie di reato (v. Cass. 21 ottobre 2005, n. 20355; Cass. 19 ottobre 2005, n. 20205; Cass. 15 gennaio 2005, n. 729).
A questo punto, quindi, lo schema del danno risarcibile può essere riassunto in una prima distinzione bipolare fra danno patrimoniale e danno non patrimoniale e in una ulteriore distinzione tripolare del danno non patrimoniale in c.d. danno morale soggettivo – consistente in un patema d’animo o in una sofferenza psichica di carattere interiore (c.d. pretium doloris) –, danno biologico – consistente in una lesione dell’integrità psicofisica accertabile in sede medico-legale – e c.d. danno esistenziale – consistente in ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva e interiore, ma oggettivamente accertabile anche per presunzioni) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno.
Ciò che, però, la Corte di Cassazione si è sempre preoccupata di affermare, è che il giudice deve avere due punti di riferimento costanti:
1. dare conto del fatto di avere preso in considerazione e valutato adeguatamente, nella liquidazione del danno non patrimoniale, tutti gli aspetti specifici del caso sottoposto al suo giudizio, così da evitare che vi siano profili di danno risarcibile dei quali non si sia tenuto conto;
2. evitare una duplicazione di voci risarcitorie, conseguente alla considerazione degli stessi fatti sotto diversi nomina.
Fondamentali sono le sentenze 8827 e 8828 perchè, hanno individuato un percorso che ha consentito di superare il limite imposto fino a quel momento dal combinato disposto degli artt. 2059 c.c. e 185 c.c..
Non a caso le Sezioni Unite, con la sentenza 24 marzo 2006, n. 6572, si preoccupano di più di affermare l’esigenza di una allegazione e prova specifiche dei fatti che integrano il danno esistenziale che di individuare dettagliatamente i rapporti fra questa voce di danno e le altre che compongono il danno non patrimoniale (cosa che viene fatta ancora più approfonditamente da Cass. 13546/2006).
Dunque, in definitiva, è la sostanziale modifica dell’art. 2059 c.c. introdotta per via di una sua reinterpretazione costituzionalmente orientata che offre sicura tutela risarcitoria a certi tipi di danno non patrimoniale e non, invece, la loro classificazione nominale come danni esistenziali.
Bisogna stare attenti, però, perché «il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge».
L’art. 101 della Costituzione dice che «i giudici sono soggetti alla legge». “Soltanto” alla legge, ma a quella sono soggetti.
La Corte di Cassazione non aveva e non ha il potere di abrogare e neppure quello di modificare le leggi e questo potere non lo hanno, ovviamente, neppure i giudici di merito, di pace e non.
E’ pacifico, quindi, che non è possibile risarcire il danno non patrimoniale sempre e con riferimento a qualunque posizione soggettiva lesa. Il momento della liquidazione del danno, una volta che la responsabilità e la corrispondente voce di danno sono riconosciute, è il più delicato, tanto più quando il giudizio deve far riferimento a dei valori fondamentali della persona per i quali non esiste un riscontro patrimoniale immediatamente calcolabile.
Ha sottolineato
più volte la suprema corte e, in maniera ancora più espressa nella sentenza Cass. Sez. III, 12 giugno 2006, n. 13546, che il legislatore, «diversamente che per quello patrimoniale ex art. 2043 c.c., ha improntato in termini di tipicità la risarcibilità del danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c., limitandola ai soli casi previsti dalla legge ( in senso conforme Cass. 15 luglio 2005, n. 15022). A tale stregua, la giurisprudenza di legittimità è pertanto pervenuta a considerare il danno non patrimoniale risarcibile ex art. 2059 c.c. solamente in presenza di lesione di interessi essenziali della persona, ravvisati in quelli costituzionalmente garantiti.
Ma già la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8827, aveva precisato che «la lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. va tendenzialmente riguardata non già come occasione di incremento generalizzato delle poste di danno (e mai come strumento di duplicazione di risarcimento degli stessi pregiudizi), ma soprattutto come mezzo per colmare le lacune nella tutela risarcitoria della persona, che va ricondotta al sistema bipolare del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale, quest’ultimo comprensivo del danno biologico in senso stretto, del danno morale soggettivo, nonché dei pregiudizi, diversi ed ulteriori, purché costituenti conseguenza della lesione di un interesse costituzionalmente protetto».
E’ chiaro, che non può essere consentita e accettata una interpretazione del concetto di “diritto garantito dalla costituzione” per la quale è tale qualunque posizione soggettiva si possa ricondurre a un qualche precetto costituzionale, perché ciò equivarrebbe a risarcire il danno non patrimoniale sempre, in aperto contrasto e spregio del citato art. 2059 c.c..
Si può dire, infatti, che sempre si potrà trovare un riferimento – più o meno remoto – alla costituzione. Com’è stato più volte sottolineato da autorevoli studiosi della materia, è ovvio che se ci si presta a interpretazioni eversive delle norme e delle sentenze della Corte di Cassazione, si potrà trovare sempre un alibi costituzionale per qualunque vacanza rovinata, compleanno poco divertente, ritardo nell’inizio della partita, modifica a sorpresa dei palinsesti televisivi, giornata intristita da uno sguardo torvo della moglie o di un amico, umiliazione conseguita a trattamento scortese da parte di un collega di lavoro o del capufficio, lesione della dignità, dell’onore e/o dell’autostima (con conseguente sindrome depressiva severa), eccetera.
Mi sembra pacifico, insomma, che, perché sia risarcibile ex art. 2059 c.c. un danno debba essere conseguenza della lesione diretta di un bene costituzionale primario.
E, con riferimento agli oneri di allegazione di cui si è detto sopra, occorre aggiungere che, in mancanza di allegazioni sulla natura e le caratteristiche del danno esistenziale, non è possibile al giudice neppure la liquidazione in forma equitativa, perché questa, per non trasmodare nell’arbitrio, necessità di parametri a cui ancorarsi.
Dal punto di vista processuale, quando il danneggiato chiede il risarcimento del danno non patrimoniale la domanda va cioè intesa come estesa a tutti gli aspetti di cui tale ampia categoria sì compone, ma nel formularla occorre stare attenti a porla in termini generali, in modo da non essere limitata alla considerazione meramente di alcuni con l’esclusione di altri. Una tale limitazione è invero rimessa, in ossequio al principio della domanda, alla previa scelta del danneggiato, che, dunque, valuta se far valere solamente alcune delle tre suindicate voci che tale categoria integrano, sulla base delle prove che può fornire a fondamento delle stesse.
Concludendo si può affermare che, di questi tempi, sui temi del risarcimento dei danni non patrimoniali vi è una fortissima pressione emotiva e il pericolo, per gli avvocati è quello di confondere le diverse figure e non formulare delle domande giudiziarie chiare e ben motivate in ordine alle diverse componenti del danno non patrimoniale, e per i giudici è quello di cercare il modo di motivare ciò che sembra giusto, invece che individuare, sulla base di una rigorosa selezione delle motivazioni possibili, cosa sia conforme alla legge e all’ordinamento nel suo complesso. Insomma, molto spesso nelle decisioni dei giudici si riscontra un iter che va non dalla motivazione alla decisione, ma dalla decisione alla motivazione. Si dimentica troppo spesso che il nostro è un paese con una costituzione c.d.rigida, con tutte le conseguenze che ne derivano.
Avv. Marianna Pulice
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