L’opzione tra indennità di disoccupazione e assegno di invalidità: nota a margine della sentenza n. 324 del 19 07 2011 della corte costituzionale

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1.LA FATTISPECIE

La sentenza della Corte Costituzionale n. 234 del 19.7.20111 arricchisce in modo evolutivo la materia delle prestazioni a sostegno del reddito.

La pronuncia origina dall’ordinanza del 4 maggio 2010 del Tribunale di Bologna 2 che ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di costituzionalita’ dell’art. 6 comma 7 del decreto-legge 20 maggio 1993 n. 148, convertito in legge n. 236/1993, nonche’ dell’art. 1 della legge n. 236/1993, «nella parte in cui non prevedono che i lavoratori che fruiscono di assegno o pensione di invalidita’, nel caso si trovino ad avere diritto ai trattamenti disoccupazione, possono optare tra tali trattamenti e quelli di invalidita’, limitatamente al periodo di disoccupazione indennizzato», per contrasto con gli art. n. 3 e n. 38 della Costituzione.

L’art, 6, comma 7 del D.L. 20 maggio 1993 n. 14, convertito in legge 2361993 stabilisce che “a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto, i trattamenti ordinari e speciali di disoccupazione e l’indennità di mobilità sono incompatibili con i trattamenti pensionistici diretti a carico dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti, degli ordinamenti sostitutivi, esonerativi ed esclusivi dell’assicurazione medesima, nonché delle gestioni speciali dei lavoratori autonomi”.

Dall’ordinanza di rimessione si deduce che parte ricorrente è titolare di assegno di invalidità cat. IO, con decorrenza 1.1.2008.

Non essendovi alcuna incompatibilità tra il beneficio riconosciuto e lo svolgimento di attività lavorativa, la parte ricorrente, anche dopo la concessione dell’assegno di invalidità, ha continuato a prestare attività lavorativa dipendente.

Essendo stata licenziata per riduzione di personale, ed avendo diritto all’indennità di disoccupazione, ha dichiarato di optare per il trattamento più favorevole tra l’assegno di invalidità e l’indennità di disoccupazione.

La Sede territoriale Inps ha respinto la domanda, affermando che l’assegno di invalidita’ era incompatibile con l’indennita’ di disoccupazione, in forza dell’art. 5 del decreto-legge 11 dicembre 1992, n. 478 (Interventi urgenti a salvaguardia dei livelli occupazionali), non convertito in legge, i cui effetti sono stati fatti salvi dal successivo decreto-legge n. 148 del 1993, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 236 del 1993.

Con la sentenza che si passa in rassegna, la Corte ha accolto l’eccezione di incostituzionalità e per l’effetto ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 6, comma 7, del decreto-legge 20 maggio 1993, n. 148 (Interventi urgenti a sostegno dell’occupazione), convertito, con modificazioni, dalla legge 19 luglio 1993, n. 236, nonché dell’articolo 1 della stessa legge n. 236 del 1993, che ha fatti salvi gli effetti prodotti da analoghe disposizioni di decreti-legge non convertiti (decreto-legge 10 marzo 1993, n. 57, decreto-legge 5 gennaio 1993, n. 1, decreto-legge 5 dicembre 1992, n. 472, decreto-legge 1° febbraio 1993, n. 26, decreto-legge 8 ottobre 1992, n. 398, decreto-legge 11 dicembre 1992, n. 478 e decreto-legge 12 febbraio 1993, n. 31), nella parte in cui dette norme non prevedono, per i lavoratori che fruiscono di assegno o pensione di invalidità, nel caso si trovino ad avere diritto ai trattamenti di disoccupazione, il diritto di optare tra tali trattamenti e quelli di invalidità, limitatamente al periodo di disoccupazione indennizzato.

2.LA GIURISPRUDENZA DELLA CASSAZIONE

Di recente, prima dell’intervento della Corte Costituzionale, la Cassazione si era pronunciata a favore del divieto di cumulo tra indennità di disoccupazione e assegno ordinario di invalidità.

Con la sentenza n. 5544 del 2010 3 la Corte ha affermato che con decreto-legge n. 148.1993 convertito con modificazioni nella legge n. 236.1993 è stato previsto (art. 6 comma 7) che, tra l’altro, i trattamenti ordinari e speciali di disoccupazione sono incompatibili con i trattamenti pensionistici a carico dell’invalidità, vecchiaia e superstiti. (Successivamente il decreto-legge n. 299.1994 convertito con modificazioni nella legge n. 451.1994 ha previsto espressamente l’opzione tra assegno o pensione di invalidità e indennità di mobilità).

In particolare la Corte ha ritenuto che l’assegno ordinario di invalidità (parziale) costituisca un trattamento pensionistico, trattandosi dell’erogazione a fronte dell’assicurazione obbligatoria contro l’invalidità, vecchiaia e superstiti, calcolato secondo le norme dell’assicurazione stessa e convertito ex lege in pensione di vecchiaia al compimento dell’età prevista per il normale pensionamento. Torna quindi applicabile l’art. 6 comma 7 del decreto-legge n. 148.1993 sopra citato, in virtù del quale l’indennità di disoccupazione è incompatibile con i trattamenti pensionistici dell’assicurazione invalidità, vecchiaia e superstiti.

Nella citata sentenza la Corte ha evidenziato che non è utilizzabile nella presente causa il precedente della Cass. n. 5330 del 1997, sentenza che ha deciso su una richiesta di indennità di disoccupazione per il periodo 8.7.1987 – 6.1.1988, periodo a fronte del quale il cumulo era disciplinato dalla legge n. 153 del 1969, art. 20, cui non era applicabile la normativa sopravvenuta.

La Cass. n. 5330 del 1997 4 aveva statuito che l’art. 10 legge n. 887 del 1984 (che prevede, tra l’altro, la non cumulabilità dei trattamenti ordinari e speciali di disoccupazione con i trattamenti pensionistici diretti a carico dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti) è inteso ad evitare che chi non possa per le proprie condizioni fisiche, espletare alcuna attività lavorativa, riceva un’indennità prevista per coloro che, pur essendo in grado di lavorare, non possono farlo per le difficoltà occupazionali del mercato; il divieto di cumulo dell’indennità di disoccupazione riguarda, pertanto, la pensione di inabilità (che ha carattere permanente e presuppone la perdita totale della capacità lavorativa), non anche l’assegno ordinario di invalidità (che è attribuito per un triennio rinnovabile ed è compatibile con l’attività lavorativa), atteso che il titolare dell’assegno di invalidità, al contrario del titolare della pensione di inabilità, ben può collocare le proprie residue capacità lavorative sul mercato del lavoro, e non vi è alcuna regione per escluderlo dal trattamento di disoccupazione quando la sua ricerca di lavoro sia frustrata dalla difficoltà del mercato.

Secondo questa datata pronuncia, il divieto di cumulo dell’indennità di disoccupazione con i trattamenti pensionistici riguarda la pensione di inabilità, ma non anche l’assegno ordinario di invalidità.

Difatti tra i due istituti intercorrono differenze sostanziali. La prima presuppone la perdita pressoché totale della capacità di lavoro, ha carattere permanente e prevede opportuni criteri di maggiorazione; il secondo è compatibile con l’attività lavorativa, è attribuito per tre anni rinnovabili e non fruisce della cosiddetta integrazione al minimo. Ne consegue che il titolare dell’assegno di invalidità, al contrario del titolare della pensione di inabilità, ben può collocare le proprie residue capacità lavorative nel mercato del lavoro; e non vi è alcuna ragione per escluderlo dal trattamento di disoccupazione quando le difficoltà del mercato frustrano la sua difficile ricerca di lavoro.

Parimenti non rileva, ad avviso del Collegio, il fatto che la Corte abbia già affermato che l’assegno di invalidità rientri tra i trattamenti pensionistici (Cass. 14 luglio 1993 n. 7783; Cass. 1 giugno 1994 n. 3181) e che la stessa affermazione sia stata fatta dalla Corte Costituzionale nella sentenza 1 giugno 1995 n. 218.

Ciò che rileva, infatti, per la risoluzione della controversia non è la natura di trattamento pensionistico dell’assegno di invalidità, ma i diversi suoi presupposti rispetto alla pensione di inabilità e alla sua incompatibilità con la ratio della norma dell’art. 10 della legge 22 dicembre 1984 n. 887.

La successiva giurisprudenza di merito aveva sposato la tesi della Cassazione.

Secondo il Tribunale di Ravenna 5, il regime dell’incumulabilità, già previsto dall’art. 10, legge n. 887 del 1984, tra trattamenti pensionistici diretti e trattamenti di disoccupazione , nonché il successivo regime dell’incompatibilità ex art. 6, comma 7, d.l. n. 148 del 1993, conv. in legge n. 236 del 1993, non riguarda l’ assegno ordinario d’ invalidità . Tale prestazione si differenzia dalla pensione d’inabilità in quanto è compatibile con l’attività lavorativa; di conseguenza, come ha affermato la Corte di cassazione nella sentenza 13 giugno 1997, n. 5330, il titolare dell’ assegno ordinario di invalidità ben può collocare le proprie residue capacità lavorative nel mercato del lavoro e non vi è ragione di escluderlo dal trattamento di disoccupazione quando le difficoltà del mercato frustrano la sua difficile ricerca di lavoro. Inoltre, poiché il legislatore attribuisce ai titolari di assegno ordinario di invalidità che siano altresì titolari di indennità di mobilità la possibilità di optare tra i differenti trattamenti, non si giustifica la disparità di trattamento rispetto a coloro che sono titolari di prestazioni di disoccupazione diverse dall’ indennità di mobilità, giacché questi ultimi dovrebbero se non altro vedersi riconosciuta la medesima possibilità di optare per il trattamento più favorevole a essi spettante, con sospensione dell’altro.

In altra recente pronuncia la Cassazione ha ribadito il divieto di cumulo in parola.

Con la sentenza n. 8239del 2010 6 la Corte ha statuito che il divieto di cumulo dei trattamenti ordinari e speciali di disoccupazione con i trattamenti pensionistici diretti a carico dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti, di cui all’art. 6, comma 7, decreto-legge 20 maggio 1993 n. 148, convertito in legge 19 luglio 1993 n. 236, riguarda anche l’assegno ordinario d’invalidità, in quanto l’elemento costitutivo del relativo diritto – l’« incollocazione » – presuppone uno stato di disoccupazione per difficoltà di mercato, e tutela tale evenienza al pari dell’indennità di disoccupazione, che ha l’analoga funzione di sopperire alle conseguenze derivanti dalla non collocazione dovuta a difficoltà di mercato.

Il Collegio prende posizione sul precedente orientamento di cui alla citata sentenza n. 533097. Ritiene la Corte di non ribadire, in relazione alla disposizione di cui al decreto- legge 20 maggio 1993 n. 148, art. 6, comma 7, convertito con modificazioni in legge 19 luglio 1993 n. 236, il principio enunciato, sia pure in riferimento alla precedente disciplina, secondo il quale la non cumulabilità dei trattamenti ordinari e speciali di disoccupazione con i trattamenti pensionistici diretti a carico dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti è intesa ad evitare che chi non possa per le proprie condizioni fisiche, espletare alcuna attività lavorativa, riceva un’indennità prevista per coloro che, pur essendo in grado di lavorare, non possono farlo per le difficoltà occupazionali del mercato; il divieto di cumulo dell’indennità di disoccupazione riguarda, pertanto, la pensione di inabilità (che ha carattere permanente e presuppone la perdita totale della capacità lavorativa), non anche l’assegno ordinario di invalidità (che è attribuito per un triennio rinnovabile ed è compatibile con l’attività lavorativa), atteso che il titolare dell’assegno di invalidità, al contrario del titolare della pensione di inabilità, ben può collocare le proprie residue capacità lavorative sul mercato del lavoro, e non vi è alcuna regione per escluderlo dal trattamento di disoccupazione quando la sua ricerca di lavoro sia frustrata dalla difficoltà del mercato.

Giova ricordare che entrambe le pronunce della Cassazione riportate hanno cassato due sentenze della Corte di Appello di Catania originate dalla medesima fattispecie.

La Corte d’Appello di Catania, in entrambi i casi, confermando la sentenza di primi grado, accoglieva la domanda di parte ricorrente intesa ad ottenere la condanna dell’INPS al pagamento dell’indennità di disoccupazione, negata dall’Istituto sul presupposto della incompatibilità di detta indennità con l’assegno ordinario d’invalidità di cui parte ricorrente era titolare.

Nella sentenza n. 5544 del 2010 la Cassazione riporta le argomentazioni della Corte territoriale.

La Corte di Appello di Catania aveva confermato la sentenza di primo grado, che aveva accolto la domanda intesa al riconoscimento dell’indennità di disoccupazione, così motivando:

– l’INPS sostiene che in virtù del decreto legge n. 478 del 1992, art. 5 i trattamenti ordinari e speciali di disoccupazione sono incompatibili con i trattamenti pensionistici a carico dell’assicurazione generale obbligatoria contro l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti;

– la tesi non è fondata, perchè scopo della legge n. 887 del 1984, art. 10 è quello di evitare che colui il quale non può, per le proprie condizioni fisiche, espletare alcuna attività lavorativa riceva una indennità prevista per coloro che, pur essendo in grado di lavorare, non possono farlo per le difficoltà occupazionali nel mercato del lavoro;

– la disposizione invocata dall’appellante, cioè il decreto-legge n. 478 del 1992, art. 5 ha in buona sostanza ribadito il contenuto della norma precedente e torna pertanto applicabile il principio di cui a Cass. N. 5330 del 1997;

– posta, dunque, la differenza tra assegno di invalidità e pensione di inabilità, in relazione ai diversi presupposti, non sussiste alcuna incompatibilità in ordine alla prestazione richiesta.

Nella sentenza n. 8239 del 2010 la Cassazione riporta il richiamo della Corte territoriale alla giurisprudenza di legittimità di segno contrario.

Infatti i Giudici di appello, rilevato che la legge 19 luglio 1993, n. 236, art. 6, comma 7, di conversione del decreto- legge del 20 maggio 1993, n. 149, nulla aveva innovato rispetto a quanto disposto dalla precedente regolamentazione di cui al comma quattordicesimo della legge 22 dicembre 1984, n. 887, art. 10, ritenevano, condividendo l’orientamento espresso da Cass. 13 giugno 1997 n. 5330, che i due trattamenti non erano incompatibili in quanto l’assegno d’invalidità presupponeva pur sempre una residua capacità di lavoro e ciò a differenza della pensione d’inabilità.

3.LE QUESTIONI AL VAGLIO DELLA CORTE COSTITUZIONALE

L’art. 6, comma 7, del predetto decreto-legge n. 148 del 1993, inizialmente prevedeva solo che i trattamenti ordinari e speciali di disoccupazione e l’indennità di mobilità fossero incompatibili con i trattamenti pensionistici diretti a carico dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti, nonché dei lavoratori autonomi.

In seguito tale norma è stata modificata per effetto della sentenza n. 218 del 1995, con cui la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dello stesso articolo, nonché dell’art. 1 della legge n. 236 del 1993, solo per lavoratori aventi diritto alla mobilità, nella parte in cui non prevedono che, all’atto di iscrizione nelle liste di mobilità, i lavoratori che fruiscono dell’assegno o della pensione di invalidità, possono optare tra tali trattamenti e quello di mobilità, nei modi e con gli effetti di cui agli artt. 2, comma 5, e 12, comma 2, del decreto-legge 16 maggio 1994, n. 299 (Disposizioni urgenti in materia di occupazione e di fiscalizzazione degli oneri sociali), convertito, con modificazioni, dalla legge 19 luglio 1994, n. 451 7.

Successivamente il decreto-legge n. 299.1994 convertito con modificazioni nella legge n. 451.1994 ha previsto espressamente l’opzione tra assegno o pensione di invalidità e indennità di mobilità

Tuttavia nel caso in esame parte ricorrente non ha avuto la facoltà’ di optare tra il trattamento di disoccupazione, in concreto più’ favorevole, e l’assegno di invalidità’ di cui e’ titolare, poiché la normativa in vigore prevede tale facoltà’ solo nel caso di concorso tra il trattamento di mobilità’ e l’assegno o la pensione di invalidità’.

La questione di costituzionalità’ della norma citata, e’ dunque rilevante nel presente giudizio, posto che l’art. 6 comma 7 del decreto-legge maggio 1993 n. 148 e l’art. 1 della legge n. 236 del 1993, vietano la suddetta opzione, e non sono superabili in via meramente interpretativa, stante il letterale e chiaro disposto delle norme in questione.

A conclusione dell’iter logico come sopra seguito, viene chiesto alla Corte un intervento additivo che consenta la facoltà’ di opzione anche nel caso di concorso tra indennità’ di disoccupazione e trattamento di invalidità.

La mancata previsione delle facoltà’ di opzione anche nel caso di concorso tra indennità’ di disoccupazione e trattamento di invalidità, ad opinione del Giudice remittente, si pone in contrasto con gli art. n. 3 e n. 38 della Costituzione, per le stesse ragioni poste a fondamento della già citata sentenza n. 218del 1995 della Corte Costituzionale, e sembra violare ulteriormente l’art. 3 della Carta Costituzionale, sotto l’aspetto della disparità’ di trattamento tra chi, fruendo di un trattamento di invalidità’, si trova in stato di disoccupazione con o senza collocazione in mobilità, posto che nel primo caso può’ esercitare la facoltà’ di opzione del trattamento più favorevole, mentre nel secondo tale facoltà’ e’ vietata.

Secondo l’INPS, l’ordinanza di rimessione non sarebbe motivata in modo esauriente ed autosufficiente, facendo rinvio alle «ragioni poste a fondamento della già citata sentenza n. 218 del 1995 della Corte costituzionale», senza motivare in ordine alla configurabilità di una coincidenza – quanto a natura, presupposti ed effetti – tra il trattamento di disoccupazione ed il trattamento di mobilità, così riproducendo il profilo di inammissibilità stigmatizzato dalla Corte nell’ordinanza n. 297 del 2000 8, in relazione ad altra questione sollevata con riferimento alla medesima norma 9.

Quanto al merito, l’INPS ha chiesto che la questione di costituzionalità sia dichiarata infondata, attesa la non comparabilità tra l’istituto dell’indennità di disoccupazione, rispetto al quale è intervenuta la sentenza citata dal rimettente, e quello dell’indennità di disoccupazione. Secondo l’INPS, infatti, nei due istituti sarebbero diversi la natura giuridica, i presupposti di applicabilità e la struttura, per cui, come rimarcato dalla Corte nella citata ordinanza n. 297 del 2000, la pronuncia additiva richiesta non sarebbe “a rime obbligate”, essendo stata richiesta alla Corte un’addizione entro le medesime coordinate della citata sentenza n. 218 del 1995, trascurando il dato essenziale che, in riferimento all’indennità di disoccupazione, non è possibile estendere l’eccezione dettata per l’indennità di mobilità.

L’Avvocatura dello Stato, dal canto suo, ha chiesto che la questione di legittimità sollevata sia dichiarata inammissibile e comunque infondata.

Quanto al primo aspetto, l’Avvocatura dello Stato ha sottolineato il carattere eccezionale dell’art. 2, comma 5, del decreto-legge n. 299 del 1994 – norma della cui efficacia il rimettente ha chiesto l’estensione anche alla fattispecie sottoposta al suo esame – atteso che, come già la Corte costituzionale avrebbe evidenziato nell’ordinanza n. 218 del 1995, tale norma, introducendo l’opzione soltanto tra l’indennità di mobilità e le prestazioni di invalidità, costituirebbe eccezione al principio generale, dettato dall’art. 6, comma 7, del decreto-legge n. 148 del 1993, di incompatibilità tra trattamenti ordinari e speciali di disoccupazione, indennità di mobilità e trattamenti pensionistici diretti.

Nel merito, secondo l’Avvocatura dello Stato non vi sarebbe coincidenza tra l’indennità di mobilità e l’indennità di disoccupazione: mentre la prima, connessa strettamente al trattamento di integrazione salariale, sarebbe svincolata dall’accertamento dello stato di bisogno individuale e sarebbe legata a obiettivi di politica economico-sociale di tutela dell’occupazione (tanto da essere strettamente connessa alla dimensione occupazionale dell’azienda presso la quale il lavoratore presta la sua opera), la seconda avrebbe natura prettamente assicurativa e sarebbe legata funzionalmente alla situazione di bisogno del lavoratore. Inoltre, quanto ai presupposti, l’indennità di mobilità, a differenza di quella di disoccupazione (riconosciuta a tutti i lavoratori, in conseguenza di un licenziamento anche individuale), è attribuita ai soli lavoratori dipendenti di imprese del settore industriale con almeno quindici dipendenti e a condizione che possano far valere un minimo di anzianità lavorativa presso l’azienda datrice di lavoro, e solo a seguito di licenziamento collettivo e dopo l’inizio di una procedura sindacale di messa in mobilità.

Diverse, poi, sarebbero anche la struttura e l’articolazione dei due istituti indennitari, sia con riferimento all’entità che alla durata dei benefici concessi.

4.LE ARGOMENTAZIONI DELLA CORTE

La questione è stata sollevata con riferimento sia all’art. 6, comma 7, del decreto-legge n. 148 del 1993, sia all’art. 1 della legge n. 236 del 1993, che, nel convertire in legge il predetto decreto, ha fatto salvi gli effetti prodotti da analoghe disposizioni di decreti-legge non convertiti (decreto-legge 10 marzo 1993, n. 57, decreto-legge 5 gennaio 1993, n. 1, decreto-legge 5 dicembre 1992, n. 472, decreto-legge 1° febbraio 1993, n. 26, decreto-legge 8 ottobre 1992, n. 398, decreto-legge 11 dicembre 1992, n. 478 e decreto-legge 12 febbraio 1993, n. 31), tra i quali v’è quella posta a fondamento dell’impugnato provvedimento di reiezione dell’istanza di opzione.

La Corte Costituzionale preliminarmente ricostruisce l’istituto normativo.

La norma censurata, nella sua originaria formulazione, si limitava ad introdurre il divieto di cumulo dei trattamenti ordinari e speciali di disoccupazione e dell’indennità di mobilità con i trattamenti pensionistici diretti a carico dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità e la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti, degli ordinamenti sostitutivi, esonerativi ed esclusivi dell’assicurazione medesima, nonché delle gestioni speciali dei lavoratori autonomi; escludendo, dunque, che i soggetti che si trovavano nelle condizioni di poter astrattamente fruire, contemporaneamente, di entrambi tali tipologie di prestazioni previdenziali potessero in concreto godere di entrambe, cumulandole.

Successivamente alla sua emanazione, la norma è stata integrata per effetto dell’art. 2 del decreto-legge 16 maggio 1994, n. 299 (Disposizioni urgenti in materia di occupazione e di fiscalizzazione degli oneri sociali), convertito, con modificazioni, dalla legge 19 luglio 1994, n. 451, che ha introdotto un temperamento al divieto di cumulo, consentendo, ai soli lavoratori aventi diritto alla mobilità, di scegliere, all’atto di iscrizione nelle liste di mobilità, tra tali trattamenti e quello di mobilità e stabilendo che, in caso di opzione a favore del trattamento di mobilità, l’erogazione dell’assegno o della pensione di invalidità resti sospesa per tutto il periodo di fruizione del predetto trattamento.

Tale facoltà di opzione, invece, non risulta estensibile ai lavoratori titolari dell’assegno di invalidità che abbiano diritto al solo trattamento ordinario di disoccupazione. Questi ultimi, al momento del licenziamento, durante il periodo di disoccupazione potranno percepire il solo assegno parziale di invalidità.

In seguito, la Corte, con la sentenza n. 218 del 1995, ha esteso l’operatività del diritto di opzione anche al periodo precedente alla riforma del 1994, rendendo, dunque, retroattiva la norma introdotta dal legislatore appena l’anno precedente.

Ciò premesso, la Corte passa a scrutinare le eccezioni di inammissibilità della questione sollevate dall’Inps e dall’Avvocatura dello Stato, in ragione del fatto che la questione sollevata dal Tribunale di Bologna, in punto di non manifesta infondatezza, risulterebbe motivata solo per relationem, mediante rinvio integrale alle argomentazioni contenute in altra sentenza della Corte.

La Corte Costituzionale reputa fondata tale eccezione solo con riferimento all’art. 38 Cost.

La Corte richiama i propri precedenti (ex plurimis, sentenze n. 64 del 2009, n. 328 del 2008 e ordinanze n. 354, n. 75 e n. 42 del 2007, n. 312 del 2005) nei quali ha ribadito che, nell’ordinanza di rimessione, il giudice deve rendere esplicite le ragioni che lo portano a dubitare della costituzionalità della norma con una motivazione autosufficiente, non potendosi limitare ad un generico richiamo alla giurisprudenza, o ad altri atti estranei all’ordinanza stessa.

Con riferimento al parametro di cui all’art. 38 Cost., la Corte rileva che l’ordinanza di rimessione del Tribunale di Bologna, risulta motivata unicamente attraverso il rinvio recettizio alle motivazioni contenute nella già citata sentenza n. 218 del 1995. Al di fuori di tale inammissibile rinvio, non è rinvenibile alcuna motivazione specificamente riferibile all’art. 38 Cost. Pertanto, la Corte dichiara che la predetta questione va dichiarata, in parte qua, inammissibile.

Diversamente, con riferimento al principio di cui all’art. 3 Cost., la Corte respinge l’eccezione di inammissibilità. Infatti il rimettente, nel prosieguo dell’ordinanza, individua in modo autonomo il vulnus costituzionale denunciato con riferimento al principio di uguaglianza, identificandolo nella disparità di trattamento tra lavoratori aventi diritto alla mobilità e lavoratori che, pur disoccupati, ne sono esclusi. Tale motivazione, ancorché sintetica, a giudizio della Corte deve ritenersi idonea a circoscrivere in modo adeguato ed autosufficiente l’oggetto dello scrutinio di costituzionalità.

Nel merito, la Corte ritiene la questione fondata.

Innanzitutto la Corte evidenzia che la disposizione censurata, come integrata dall’art. 2 del decreto-legge n. 299 del 1994 e dalla sentenza n. 218 del 1995, determina una disparità di trattamento tra il lavoratore invalido e titolare di assegno di invalidità, che al momento del licenziamento ha diritto al trattamento di mobilità e il lavoratore invalido e titolare di assegno di invalidità, che al momento del licenziamento ha diritto al solo trattamento ordinario di disoccupazione.

La Corte osserva che mentre nel primo caso, il lavoratore che, a causa del regime di incompatibilità, non può percepire entrambi gli assegni (di invalidità e di mobilità), ha però la facoltà di scegliere tra le due prestazioni, a seconda di quale dei due trattamenti sia, in concreto, più conveniente, nel secondo caso, non ha tale possibilità di scelta e si trova, di fatto, obbligato a beneficiare di quello connesso al suo stato di invalidità. L’impossibilità di optare per il trattamento di disoccupazione in occasione del licenziamento, determina, dunque, per i soli lavoratori inabili non aventi diritto alla mobilità, la concreta inutilizzabilità di tale tutela assicurativa.

La Corte invoca il principio di uguaglianza e ragionevolezza.

Evidenzia che il legislatore, nel regolamentare il concorso tra più assicurazioni sociali e, in particolare, tra quelle connesse allo stato di invalidità e vecchiaia e quelle connesse allo stato di disoccupazione, gode certamente della più ampia discrezionalità (e può ben valutare, quindi, come sufficiente l’attribuzione di un unico trattamento previdenziale al fine di garantire al lavoratore assicurato mezzi adeguati alle esigenze di vita sue e della sua famiglia), ma, nel fare tale scelta, deve soddisfare il principio di eguaglianza e di ragionevolezza (sentenza n. 218 del 1995).

La Corte esclude che sussistano rilevanti differenze strutturali tra l’indennità di disoccupazione e l’indennità di mobilità.

Evidenzia che la diversità di disciplina tra i due istituti non giustifica, per i lavoratori non aventi diritto alla mobilità, la mancata previsione del diritto di opzione.

Infatti, l’indennità ordinaria di disoccupazione e l’indennità di mobilità − valutate non in astratto ma con specifico riferimento alla ratio della disposizione di cui si chiede l’estensione – presentano, nella finalità e nella struttura, assorbenti analogie, perché tali sussidi rientrano nel più ampio genus delle assicurazioni sociali contro la disoccupazione.

La Corte richiama la sentenza n. 184 del 2000 10, laddove si è affermato che, nell’ambito dei cosiddetti “ammortizzatori sociali”, l’indennità di mobilità − a differenza della Cassa integrazione guadagni, connessa ad un mero stato transitorio di crisi dell’impresa – è finalizzata a favorire il ricollocamento del lavoratore in altre imprese ed è, dunque, collegata ad una crisi irreversibile dell’impresa. Essa, cioè, deve considerarsi un vero e proprio trattamento di disoccupazione.

La Corte rinviene nella norma censurata un ulteriore disparità di trattamento tra i lavoratori disoccupati invalidi, non aventi diritto alla mobilità e i lavoratori disoccupati pienamente validi.

Tale circostanza è stata evidenziata dalla Corte nella citata sentenza n. 218 del 1995. Infatti i primi, secondo la normativa attualmente vigente, percepiscono la sola indennità di invalidità (che potrebbe, peraltro, essere solo parziale), mentre i secondi, a partire dal momento del licenziamento, godono del più vantaggioso trattamento, ordinario o speciale, di disoccupazione.

Anche sotto tale profilo, pertanto, la norma censurata determina una lesione del principio di uguaglianza, dal momento che, come chiarito nella citata sentenza n. 218 del 1995, «il lavoratore parzialmente invalido, ove collocato in mobilità, viene a trovarsi in una situazione di più urgente bisogno del lavoratore valido, anch’egli collocato in mobilità, essendo prevedibile che egli, rispetto a quest’ultimo, abbia maggiori esigenze di mantenimento», e considerato che «chi subisce plurimi eventi pregiudizievoli si trova esposto ad una situazione di bisogno maggiore di chi ne subisce uno solo e quindi il primo non potrà, rispetto a quest’ultimo, avere un trattamento deteriore».

5.LE PRECEDENTI PRONUNCE DELLA CORTE COSTITUZIONALE IN MERITO ALL’ ART. 6 COMMA 7 DEL DECRETO-LEGGE 20 MAGGIO 1993 N. 148, CONVERTITO IN LEGGE N. 236/1993.

  • Sentenza n. 218 del 1995

Con la sentenza n. 218 del 199511 la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 7, del decreto-legge 20 maggio 1993, n. 148 (Interventi urgenti a sostegno dell’occupazione), convertito in legge 19 luglio 1993, n. 236, nonché dell’art. 1 della medesima legge n. 236 del 1993 che fa salvi gli effetti prodotti da precedenti analoghe disposizioni di decreti-legge non convertiti (art. 5 del decreto-legge 11 dicembre 1992, n. 478, art. 5 del decreto-legge 12 febbraio 1993, n. 31, art. 6, comma 7, del decreto-legge del 10 marzo 1993, n. 57), nella parte in cui non prevedono che all’atto di iscrizione nelle liste di mobilità i lavoratori che fruiscono dell’assegno o della pensione di invalidità possono optare tra tali trattamenti e quello di mobilità nei modi e con gli effetti previsti dagli artt. 2, comma 5, e 12, comma 2, del decreto-legge del 16 maggio 1994, n. 299, convertito in legge 19 luglio 1994, n. 451

In questa sentenza, la Corte Costituzionale affronta il profilo delle incompatibilità.

Il Pretore di Bergamo aveva sollevato questione di legittimità costituzionale sia dell’art. 6, comma 7, del decreto-legge 20 maggio 1993, n. 148, conv. con modificazioni dalla legge 19 luglio 1993, n. 236, sia degli artt. 2, comma 5, e 12, comma 2, del decreto-legge 18 marzo 1994, n. 185 in relazione agli artt. 3 e 38 della Costituzione.

Il giudice a quo rilevava che l’assegno e la pensione di invalidità hanno natura molto diversa: mentre le pensioni INPS ordinarie hanno natura previdenziale, l’assegno di cui all’art. 1 della legge n. 222 del 1984 è una prestazione atipica ed ha natura eminentemente assistenziale; è temporaneo, rinnovabile solo a domanda (almeno le prime tre volte), non reversibile ai superstiti e può essere anche inferiore ai minimi vigenti per ogni altro trattamento pensionistico; lo stesso poi non esaurisce la possibilità di reddito del lavoratore, a cui residua una parte della sua capacità lavorativa; infine il primo a differenza della seconda può cumularsi con la retribuzione. Pertanto, secondo il remittente, viola il principio di eguaglianza il fatto che il legislatore tratti allo stesso modo due situazioni così diverse, sancendo che l’indennità di mobilità (tipico trattamento sostitutivo della retribuzione) sia incompatibile non solo con la pensione, ma anche con l’assegno di invalidità.

Il remittente evidenziava un ulteriore vizio di incostituzionalità sotto il profilo che la facoltà di opzione tra i due trattamenti, per i quali sussiste il divieto di cumulo, è stata – nel 1994 – introdotta soltanto per il futuro, nonché – quanto ai collocamenti in mobilità già disposti – soltanto per la parte residua della prestazione, sicché i lavoratori sono discriminati a seconda del momento della collocazione in mobilità o dell’ottenimento dell’assegno, senza che in ciò sia ravvisabile alcuna giustificazione.

Inoltre, in entrambe le ipotesi (quella principale e quella subordinata) vi è poi violazione dell’art. 38 della Costituzione perché per effetto della suddetta incompatibilità il lavoratore pensionato soffre ingiustificatamente una riduzione di reddito.

Con la citata sentenza n. 218 del 1995 la Corte giudica infondata la questione principale sollevata dal Pretore di Bergamo.

Assegno di invalidità e pensione di invalidità sono prestazioni distinte, previste da diverse normative succedutesi nel tempo; ma da una parte esse sono pur sempre riconducibili ad una matrice comune, rappresentata dal verificarsi dell’evento protetto (l’invalidità del lavoratore, ancorché diversamente definita dalla legge n. 222 del 1984 e dalla normativa precedente); d’altra parte rientra nella discrezionalità del legislatore, nel prevedere un regime di incompatibilità o di divieto di cumulo, catalogare le plurime prestazioni che in tale regime ricadono.

Secondo la Corte, la radicale prospettazione del giudice rimettente porterebbe alla paradossale conclusione che, una volta individuate (dal legislatore) due prestazioni incompatibili, tutti i possibili altri trattamenti previdenziali o assistenziali sarebbero necessariamente fuori da tale regime per il solo fatto di essere in qualche misura diversi dalle prime; è invece ben possibile che la medesima ratio dell’incompatibilità (o divieto di cumulo) sussista per una pluralità di prestazioni e le accomuni in una medesima categoria connotata dal fatto che il lavoratore assicurato abbia già beneficiato di una prestazione assicurativa e quindi gli sia già stata apprestata una provvista che astrattamente lo rende meno vulnerabile di fronte al secondo possibile evento pregiudizievole. Tanto è sufficiente nella fattispecie per escludere che la evocata comparazione orizzontale delle prestazioni che fanno scattare il regime di incompatibilità (o di divieto di cumulo) possa radicare una violazione dei parametri indicati.

La Corte passa poi ad esaminare la verifica della costituzionalità dei singoli rapporti di incompatibilità tra distinte prestazioni.

Passando a considerare questa seconda prospettazione (e quindi ad esaminare le questioni di costituzionalità sollevate dai Pretori di Parma, Bologna e Busto Arsizio), la Corte individua tre distinti regimi adottai dal legislatore nel corso del tempo.

  • Quello della non cumulabilità dei trattamenti ordinari e speciali di disoccupazione con i trattamenti pensionistici diretti a carico dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti, con salvezza in ogni caso del trattamento di disoccupazione eventualmente eccedente l’importo del trattamento pensionistico (art. 10 della legge 22 dicembre 1984, n. 887).

  • Quello (meno favorevole) dell’incompatibilità dei medesimi trattamenti ordinari e speciali di disoccupazione e dell’indennità di mobilità (prestazione introdotta nell’ordinamento previdenziale dall’art. 7 della legge 23 luglio 1991, n. 223) ancora con i trattamenti pensionistici diretti a carico dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti, ma senza alcuna salvezza del trattamento più favorevole (art. 6, comma 7, del decreto-legge 20 maggio 1993, n. 148, convertito in legge 19 luglio 1993, n. 236, nonché in precedenza analoghe disposizioni di decreti legge non convertiti: art. 5 del decreto-legge n. 478 del 1992, art. 5 del decreto-legge n. 31 del 1993, art. 6, comma 7, del decreto-legge n. 57 del 1993).

  • Quello dell’incompatibilità, corretta dalla facoltà per coloro che fruiscono dell’assegno o della pensione di mobilità di optare a favore del trattamento di mobilità con conseguente temporanea sospensione del trattamento di invalidità per tutto il periodo di fruizione del primo (art. 2 del decreto-legge 16 maggio 1994, n. 299, convertito in legge 9 luglio 1994, n. 451, nonché in precedenza analoghe disposizioni di decreti legge non convertiti: art. 2, comma 5, del decreto-legge n. 40 del 1994, art. 2, comma 5, del decreto-legge n. 185 del 1994).

La Corte riconosce la discrezionalità del legislatore. Rientra infatti nella discrezionalità del legislatore stabilire eventuali rapporti di non cumulabilità ovvero di incompatibilità tra diverse prestazioni previdenziali o assistenziali. E’ possibile quindi che in un bilanciamento complessivo degli interessi e dei valori in gioco che vede fronteggiarsi le esigenze della solidarietà e della liberazione dal bisogno (art. 38 della Costituzione) con i limiti conseguenti alla necessità di preservare l’equilibrio della finanza pubblica (art. 81 della Costituzione) il legislatore – in una situazione in cui si verifichino plurimi eventi oggetto di assicurazioni sociali – valuti come sufficiente l’attribuzione di un unico trattamento previdenziale al fine di garantire al lavoratore assicurato mezzi adeguati alle esigenze di vita sue e della sua famiglia.

La Corte evidenzia che la discrezionalità del legislatore deve però rispettare i principi d eguaglianza e ragionevolezza.

La concentrazione dell’intervento del sistema di sicurezza sociale in un’unica prestazione deve infatti soddisfare il principio di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 della Costituzione) non potendo pretermettersi che in generale chi subisce plurimi eventi pregiudizievoli si trova esposto ad una situazione di bisogno maggiore di chi ne subisce uno solo e quindi il primo non potrà, rispetto a quest’ultimo, avere un trattamento deteriore, pur dovendo farsi a tal fine una ponderazione globale e complessiva (e non già limitata a specifici aspetti o periodi) della pluralità di trattamenti astrattamente spettanti in ragione della pluralità di eventi verificatisi.

Mettendo a confronto il concorso della fattispecie della mobilità con quella dell’invalidità, la Corte giudica irragionevole il rigido criterio dell’incompatibilità.

Infatti va considerata la particolare ipotesi in cui i plurimi eventi verificatisi sono quelli del collocamento in mobilità e quello dell’invalidità ed i trattamenti astrattamente concorrenti sono quelli dell’indennità di mobilità e dell’assegno (o pensione) di invalidità. La ponderazione comparata di tali due trattamenti svela l’intrinseca irragionevolezza, che ridonda in disparità di trattamento, del rigido criterio dell’incompatibilità.

Pur essendo sia l’assegno che la pensione di invalidità idonei a realizzare singulatim la finalità previdenziale dell’assicurazione sociale (art. 38 della Costituzione), si ha però che il lavoratore parzialmente invalido, ove collocato in mobilità, viene a trovarsi in una situazione di più urgente bisogno del lavoratore valido, anch’egli collocato in mobilità, essendo prevedibile che egli, rispetto a quest’ultimo, abbia maggiori esigenze di mantenimento. Invece – essendo l’importo dell’indennità di mobilità maggiore sia della pensione che dell’assegno di invalidità – si ha che, nella medesima comunità di lavoratori collocati in mobilità, i lavoratori invalidi percepiscono una prestazione quantitativamente inferiore a quella dei lavoratori validi.

Di tale palese incongruenza – nella fattispecie non giustificata neppure se si considera globalmente la possibile più estesa durata del trattamento di invalidità rispetto a quello di mobilità perché lo stato di invalidità aggrava il rischio della disoccupazione involontaria insito nel collocamento in mobilità – si è reso conto il legislatore stesso che ha corretto il regime dell’incompatibilità introducendo la indicata facoltà di opzione; ma anche nel periodo precedente, per emendare l’evidenziato vulnus, la prevista incompatibilità, con riferimento ai suddetti trattamenti concorrenti, avrebbe dovuto comunque far salva la facoltà di opzione.

La reductio ad legitimitatem è possibile con una pronuncia additiva perché desumibile “a rime obbligate” dalla disciplina dell’opzione successivamente introdotta dagli artt. 2, comma 5, e 12, del decreto-legge n. 299 comma 2 del 1994, convertito in legge n. 451 del 1994 di cui mutua modi ed effetti; opzione quindi esercitabile ora per allora. In tale parte va pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale della normativa denunciata, rimanendo assorbiti gli altri profili di censura.

  • Ordinanza n. 466 del 1995

Con l’Ordinanza n. 466 del 1995 12, la Corte ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione sollevata dal giudice rimettente in ordine alla incompatibilità tra l’indennità di mobilità ed i trattamenti pensionistici diretti, in contrasto con gli artt. 3 e 38 Cost. nella parte in cui non è previsto che il titolare di pensione (o assegno) di invalidità abbia diritto anche alla quota parte dell’indennità di mobilità eccedente l’importo del trattamento pensionistico goduto o, comunque, abbia almeno la possibilità di optare tra l’una e l’altra prestazione previdenziale;

La Corte evidenzia che con sentenza n. 218 del 1995 ha già dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 7, del decreto-legge 20 maggio 1993, n. 148 (Interventi urgenti a sostegno dell’occupazione), convertito in legge 19 luglio 1993, n. 236, nonché dell’art. 1 della medesima legge n. 236 del 1993 che fa salvi gli effetti prodotti da precedenti analoghe disposizioni di decreti-legge non convertiti (art. 5 del decreto-legge 11 dicembre 1992, n. 478, art. 5 del decreto- legge 12 febbraio 1993, n. 31, art. 6, comma 7, del decreto-legge del 10 marzo 1993, n. 57), nella parte in cui non prevedono che all’atto di iscrizione nelle liste di mobilità i lavoratori che fruiscono dell’assegno o della pensione di invalidità possono optare tra tali trattamenti e quello di mobilità nei modi e con gli effetti previsti dagli artt. 2, comma 5, e 12, comma 2, del decreto-legge del 16 maggio 1994, n. 299, convertito in legge 19 luglio 1994, n. 451.

Pertanto le questioni sollevate dal giudice rimettente sono manifestamente inammissibili perché la facoltà di opzione, introdotta con la citata pronuncia, ha già fatto venir meno l’impossibilità di accedere all’indennità di mobilità ove il lavoratore goda di trattamenti pensionistici diretti, sicché più non sussiste l’impedimento che il giudice rimettente mira a rimuovere.

  • Ordinanza n. 297del 2000.

Nel corso di un giudizio di appello – proposto dall’INPS avverso la sentenza di primo grado, con la quale il pretore di Verbania aveva riconosciuto il diritto di due pensionati di ottenere, in luogo del trattamento di vecchiaia per il relativo periodo, il trattamento di disoccupazione per i lavoratori frontalieri in Svizzera, ai sensi della legge 12 giugno 1984, n. 228 – il Tribunale di Verbania, in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza emessa il 29 gennaio 1998, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 38 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 7, del decreto-legge 20 maggio 1993, n. 148 (Interventi urgenti a sostegno dell’occupazione), convertito con modificazioni nella legge 19 luglio 1993, n. 236, nonché dell’art. 2, comma 5, del decreto-legge 16 maggio 1994, n. 299 (Disposizioni urgenti in materia di occupazione e di fiscalizzazione degli oneri sociali), convertito con modificazioni nella legge 19 luglio 1994, n. 451, “nella parte in cui non prevedono che all’atto di iscrizione nelle liste di mobilità i lavoratori che fruiscono di pensione di vecchiaia possano optare tra tale trattamento e quello di mobilità”.

A giudizio del rimettente, pur non essendo consentita dalla specificità della fattispecie la diretta estensione della sentenza n. 218 del 1995 della Corte Costituzionale, al caso di concorso tra trattamento di disoccupazione e pensione di vecchiaia, tuttavia gli stessi argomenti posti a base di quella declaratoria di illegittimità costituzionale (fondati sul corretto contemperamento della discrezionalità del legislatore nello stabilire eventuali rapporti di cumulabilità ovvero di incompatibilità tra diverse prestazioni previdenziali ed assistenziali, alla luce della necessità di preservare l’equilibrio della finanza pubblica, con gli altri valori costituzionali in gioco, rappresentati dalle esigenze della solidarietà e della liberazione dal bisogno del soggetto e dal principio di uguaglianza e ragionevolezza, che la concentrazione dell’intervento del sistema di sicurezza sociale in un’unica prestazione deve comunque soddisfare) portano a ritenere l’illegittimità dell’applicazione del rigido criterio dell’incompatibilità anche al caso in cui il soggetto astrattamente titolare di trattamento di disoccupazione goda di pensione di vecchiaia.

Secondo il Tribunale rimettente, la situazione del vecchio-disoccupato è infatti equiparabile a quella dell’invalido-disoccupato; ed il contrasto con il principio di ragionevolezza e di uguaglianza si manifesta con maggiore evidenza nel caso in cui (come nella specie) la pensione di vecchiaia non sia integrata al minimo, e venga erogata per importi di modestissima entità, rendendosi così negativo il giudizio di sufficienza dell’attribuzione di un unico trattamento previdenziale per garantire al lavoratore assicurato mezzi adeguati alle esigenze di vita sue e della famiglia;

La Corte costituzionale con l’ordinanza n. 297 del 2000 13, ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione.

La Corte evidenzia che il giudice a quo pone a base del suo ragionamento un’asserita equiparazione tra lavoratore beneficiario della pensione di invalidità, avente diritto all’indennità di mobilità (il quale, in virtù della sentenza n. 218 del 1995 della Corte Costituzionale, può scegliere tra le due provvidenze al momento dell’iscrizione nelle liste di mobilità) ed il titolare di pensione di vecchiaia (il quale, in quanto frontaliero, avrebbe diritto al trattamento speciale di disoccupazione ex lege n. 228 del 1984), senza affatto motivare in ordine alla configurabilità di una coincidenza – quanto a natura, presupposti ed effetti – fra il trattamento di disoccupazione speciale di cui alla menzionata legge n. 228 del 1984 ed il trattamento di mobilità, e per l’effetto richiede un intervento additivo che consenta al lavoratore da ultimo menzionato di optare per il trattamento più favorevole.

La Corte rileva che tale facoltà è stata specificatamente introdotta dall’art. 9, comma 2, della legge 5 giugno 1997, n. 147, ignorata nell’ordinanza di rimessione (anche con riguardo alle norme contenute nell’art. 4).

Rileva altresì che il rimettente richiede alla Corte un’addizione entro le medesime coordinate della citata sentenza n. 218 del 1995, trascurando il dato essenziale che, in favore dei lavoratori frontalieri, non è possibile estendere detta eccezione, essendo essa strutturalmente limitata alla sola indennità di mobilità e direttamente correlata – per quanto riguarda l’esercizio dell’opzione – all’iscrizione nelle relative liste: provvidenza ed iscrizione, entrambe estranee (almeno sotto la legislazione del tempo) alla disciplina dei frontalieri, beneficiari del ben diverso e peculiare trattamento di disoccupazione speciale, rispetto ai quali, dunque, l’invocata declaratoria risulterebbe inutiliter data.

 

6.- LA SENTENZA ADDITIVA DI PRESTAZIONI.

 

Con la pronuncia in rassegna la Corte ha inciso sul tessuto normativo, non per rimuovere una regola preesistente, ma per introdurne una nuova, la cui mancanza rendeva la disposizione censurata incostituzionale.

E’ questo il tipico meccanismo delle sentenze additive 14. Le sentenze additive a loro volta rientrano nella macroarea delle sentenze manipolative, con cui la Corte effettua una manipolazione o integrazione delle disposizioni oggetto del sindacato.

Con la sentenza additiva la Corte adegua l’ordinamento legislativo alla Costituzione, integrandolo in positivo, senza l’intervento del legislatore.

Il primo presupposto perché la Corte possa addivenire ad una sentenza additiva è l’impossibilità di superare la “norma negativa” sul piano dell’interpretazione estensiva o di applicazione analogica, perché il tenore letterale lo impedisce o perché il diritto vivente è ormai consolidato in senso negativo.

In secondo luogo occorre che la Corte non eserciti scelte discrezionali, le quali restano riservate al legislatore. Ne consegue che deve esistere una unica soluzione costituzionalmente obbligata.

Quando non soccorre una unica soluzione costituzionalmente obbligata, la Corte deve dichiarare la questione inammissibile, e per l’effetto declinare la propria competenza, affermando che spetta al legislatore operare la necessaria scelta discrezionale.

La giurisprudenza della Corte ha chiarito che l’intervento additivo le è consentito quando sia “a rime obbligate”, nel senso che la norma introdotta sia già presente a livello legislativo eo costituzionale e l’estensione a livello legislativo risulta logicamente necessitata, così che solo apparentemente la Corte svolge una attività legislativa.

Dal punto di vista meramente formale l’addizione espunge dall’ordinamento la “norma negativa”; sostanzialmente l’addizione introduce una norma precisa che mancava e che diviene suscettibile di immediata applicazione da parte degli organi amministrativi e giurisdizionali.

La giurisprudenza della Corte costituzionale inoltre mostra adesione alla distinzione tra disposizione e norma, identificandosi la prima con il testo scritto (il significante, la formula linguistica) e la seconda con la regola desunta in via di interpretazione (il significato) 15. Utilizzando la distinzione tra disposizione e norma per manipolare i contenuti normativi dei testi legislativi, il Giudice delle leggi sembra non volere rinunciare ad un ruolo latu sensu giurisdizionale, giacchè procedere per aggregazione o disaggregazione di significati rispetto al testo scritto senza mutarlo, appartiene alla logica (aggregativa) che è propria dell’attività dei giudici, non a quella (creativa o sostitutiva) che è propria del legislatore.

La dottrina distingue l’addizione di garanzia dall’addizione di prestazioni, a seconda che l’addizione determini l’estensione di garanzie o, invece, di prestazioni economiche facenti carico ai bilanci pubblici.

Con questo secondo tipo di pronunce, strettamente connesso ai postulati del Welfare State, la Corte introduce nel tessuto normativo una prestazione “nuova” o più frequentemente una “nuova categoria di beneficiari” della prestazione 16.

Tale tipologia di sentenze additive di prestazioni può comportare problemi di copertura finanziaria, impegnando il Parlamento e le Regioni (ratione materiae) a reperire le necessarie risorse finanziarie occorrenti per dare esecuzione alle pronunce, in base all’obbligo imposto dall’art. 81, comma 4 della Costituzione della necessaria copertura finanziaria.

La copertura finanziaria, necessaria per le leggi, non si applica a rigore alle decisioni della Corte costituzionale. Tuttavia la Corte, nell’introdurre nuove o maggiori spese, non può non operare un bilanciamento tra i diritti garantiti dalle prestazioni aggiunte e il principio della corretta gestione delle finanze pubbliche.

Analizzando la tecnica argomentativa della Corte, nella sentenza in commento, possiamo cogliere alcuni passaggi peculiari.

Innanzitutto la Corte nella motivazione dà conto del procedimento logico deduttivo che conduce all’individuazione del frammento normativo che manca nella disposizione oggetto del giudizio.

La questione è stata sollevata con riferimento sia all’art. 6, comma 7, del decreto-legge n. 148 del 1993, sia all’art. 1 della legge n. 236 del 1993, che, nel convertire in legge il predetto decreto, ha fatto salvi gli effetti prodotti da analoghe disposizioni di decreti-legge non convertiti (decreto-legge 10 marzo 1993, n. 57, decreto-legge 5 gennaio 1993, n. 1, decreto-legge 5 dicembre 1992, n. 472, decreto-legge 1° febbraio 1993, n. 26, decreto-legge 8 ottobre 1992, n. 398, decreto-legge 11 dicembre 1992, n. 478 e decreto-legge 12 febbraio 1993, n. 31), tra i quali v’è quella posta a fondamento dell’impugnato provvedimento di reiezione dell’istanza di opzione e rispetto alla quale si richiede la declaratoria dell’illegittimità costituzionale della normativa nella parte in cui non si prevede, per i lavoratori che fruiscono dell’assegno di invalidità, nel caso si trovino ad avere diritto ai trattamenti di disoccupazione, il diritto di optare tra tali trattamenti e quelli di invalidità.

La Corte pone dunque a confronto la disposizione censurata con i contenuti già presenti nella normativa, onde cogliere gli elementi di comunanza che giustifichino l’ampliamento della portata del precetto attraverso l’aggiunta testuale. Trattasi in altri termini, di un’applicazione del canone di uguaglianza, tale per cui la Corte opera un confronto tra le fattispecie previste dalla disposizione censurata e quella che da essa non risulta, che conduce ad un esito positivo in ordine alla assimilabilità delle fattispecie.

La Corte rileva infatti che la norma censurata, nella sua originaria formulazione, si limitava ad introdurre il divieto di cumulo dei trattamenti ordinari e speciali di disoccupazione e dell’indennità di mobilità con i trattamenti pensionistici diretti a carico dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità e la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti, degli ordinamenti sostitutivi, esonerativi ed esclusivi dell’assicurazione medesima, nonché delle gestioni speciali dei lavoratori autonomi; escludendo, dunque, che i soggetti che si trovavano nelle condizioni di poter astrattamente fruire, contemporaneamente, di entrambi tali tipologie di prestazioni previdenziali potessero in concreto godere di entrambe, cumulandole.

Che successivamente alla sua emanazione, la norma è stata integrata per effetto dell’art. 2 del decreto-legge 16 maggio 1994, n. 299 (Disposizioni urgenti in materia di occupazione e di fiscalizzazione degli oneri sociali), convertito, con modificazioni, dalla legge 19 luglio 1994, n. 451, che ha introdotto un temperamento al divieto di cumulo, consentendo, ai soli lavoratori aventi diritto alla mobilità, di scegliere, all’atto di iscrizione nelle liste di mobilità, tra tali trattamenti e quello di mobilità e stabilendo che, in caso di opzione a favore del trattamento di mobilità, l’erogazione dell’assegno o della pensione di invalidità resti sospesa per tutto il periodo di fruizione del predetto trattamento.

Tale facoltà di opzione, invece, non risulta estensibile ai lavoratori titolari dell’assegno di invalidità che abbiano diritto al solo trattamento ordinario di disoccupazione. Questi ultimi, al momento del licenziamento, durante il periodo di disoccupazione potranno percepire il solo assegno parziale di invalidità.

In seguito, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 218 del 1995, ha esteso l’operatività del diritto di opzione anche al periodo precedente alla riforma del 1994, rendendo, dunque, retroattiva la norma introdotta dal legislatore appena l’anno precedente.

In secondo luogo la Corte, avendo individuato il frammento normativo ipoteticamente da aggiungere, dà conto in motivazione dell’indefettibilità della addizione, nel senso che la relativa pronuncia risulta legittimata dalla impossibilità di esercitare scelte in ordine all’an e al quid da aggiungere, secondo la tecnica delle c.d. “rime obbligate”.

La Corte ha avuto cura di precisare che il legislatore, nel regolamentare il concorso tra più assicurazioni sociali e, in particolare, tra quelle connesse allo stato di invalidità e vecchiaia e quelle connesse allo stato di disoccupazione, gode certamente della più ampia discrezionalità (e può ben valutare, quindi, come sufficiente l’attribuzione di un unico trattamento previdenziale al fine di garantire al lavoratore assicurato mezzi adeguati alle esigenze di vita sue e della sua famiglia), ma, nel fare tale scelta, deve soddisfare il principio di eguaglianza e di ragionevolezza

Nella fattispecie, diversamente da quello che sostengono l’INPS e il Presidente del Consiglio dei ministri, circa la non equiparabilità dell’assegno ordinario di disoccupazione al trattamento di mobilità, la Corte ritiene che le differenze tra i due emolumenti (che si assumono essere connesse a diversità di presupposti, entità e struttura degli stessi) sono marginali e non giustificano, per i lavoratori non aventi diritto alla mobilità, la mancata previsione del diritto di opzione.

Inoltre l’indennità ordinaria di disoccupazione e l’indennità di mobilità − valutate non in astratto ma con specifico riferimento alla ratio della disposizione di cui si chiede l’estensione – presentano, nella finalità e nella struttura, assorbenti analogie, perché tali sussidi rientrano nel più ampio genus delle assicurazioni sociali contro la disoccupazione, tant’è che con la sentenza n 218 del 1995 la reductio ad legitimitatem della normativa era stata resa possibile con una pronuncia additiva, desumibile “a rime obbligate” dalla disciplina dell’opzione successivamente introdotta.

Conclusivamente, la ragione di incostituzionalità non risiede in ciò che la norma contempla, ma in ciò che essa tace, e in particolare nella parte in cui la normativa censurata non prevede, per i lavoratori che fruiscono di assegno o pensione di invalidità, nel caso si trovino ad avere diritto ai trattamenti di disoccupazione, il diritto di optare tra tali trattamenti e quelli di invalidità, limitatamente al periodo di disoccupazione indennizzato, donde una declaratoria della Corte che ha introdotto questo frammento normativo.

1 Udienza Pubblica del 05/07/2011, Presidente: QUARANTA, Redattore: MAZZELLA. Norme impugnate: Art. 6, c. 7°, del decreto legge 20/05/1993, n. 148, convertito, con modificazioni, in legge 19/07/1993, n. 236. Oggetto: Previdenza – Lavoratori che fruiscono di assegno o pensione di invalidità ed aventi diritto ai trattamenti di disoccupazione – Possibilità di optare tra tali trattamenti e quelli di invalidità – Mancata previsione. Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale. Atti decisi: ord. 375/2010.

2 Ordinanza del 4 maggio 2010 emessa dal Tribunale di Bologna nel procedimento civile promosso da M. L. contro I.N.P.S. (GU n. 50 del 15.12.2010).

3 Cassazione civile  sez. lav.   08 marzo 2010 n. 5544 in Diritto & Giustizia 2010.

4 Cassazione civile  sez. lav. 13 giugno 1997 n. 5330 in Giust. civ. Mass. 1997, 983

5 Tribunale  Ravenna, 08 ottobre 2003 in Riv. giur. lav. 2004, II, 417 .

6 Cassazione civile  sez. lav. 07 aprile 2010 n. 8239 in Giust. civ. Mass. 2010, 4, 505.

7 Corte costituzionale 01 giugno 1995 n. 218 in Giur. cost. 1995, 1621,  Giust. civ. 1995, I,2298,  Lavoro e prev. oggi 1995, 1409,  Cons. Stato 1995, II, 916,  Giur. it. 1995, I, 610,  Orient. giur. lav. 1995, 499,  Informazione previd. 1995, 756.

8 Corte costituzionale 17 luglio 2000   n. 297 in Giur. cost. 2000, 2267.

9 È manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli art. 3 e 38 cost., dell’art. 6 comma 7 d.l. 20 maggio 1993 n. 148 (Interventi urgenti a sostegno dell’occupazione), conv., con modif., in l. 19 luglio 1993 n. 236, nonché dell’art. 2 comma 5 d.l. 16 maggio 1994 n. 299 (Disposizioni urgenti in materia di occupazione e di fiscalizzazione degli oneri sociali), conv., con modif., in l. 19 luglio 1994 n. 451, “nella parte in cui non prevedono che all’atto di iscrizione nelle liste di mobilità i lavoratori che fruiscono di pensione di vecchiaia possano optare fra tale trattamento e quello di mobilità”, in quanto viene invocato un intervento additivo che risulterebbe “inutiliter dato”, perché riguardante elementi estranei alla disciplina della tutela previdenziale dei lavoratori transfrontalieri.

10 Corte costituzionale 9 giugno 2000 n. 184 in Riv. giur. lav. 2001, II, 247.

11 Corte costituzionale 01 giugno 1995 n. 218 cit.

12 Corte costituzionale 26 ottobre 1995  n. 466 in Giur. cost. 1995, 3604.

13 Corte costituzionale 17 luglio n. 297, cit.

14 Corte costituzionale- Servizio Studi- La prassi del controllo di costituzionalità nell’attualità:tipologia delle decisioni”di merito” nei giudizi sulle leggi. Marzo 2008.

15 Problemi dell’omissione legislativa nella giurisprudenza costituzionale. Quaderno predisposto in occasione della Conferenza delle Corti costituzionali europee. Vilnius 2-7- giugno 2008.

16 M. Bellocci e T. Giovannetti. Il quadro delle tipologie decisorie delle pronunce della Corte costituzionale. Quaderno predisposto in occasione dell’incontro di studi con la Corte costituzionale di Ungheria. Palazzo della Consulta, 11.6.2010.

Lagana’ Angela

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