L’istituto dell’adozione di persone maggiori di età nell’ordinamento italiano alla luce della giurisprudenza costituzionale ed ordinaria

Sgueo Gianluca 24/05/07
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1. L’istituto dell’adozione. Il quadro genrale – 2.1 La disciplina dell’adozione civile. Le peculiarità che contraddistinguono l’istituto – 2.2.1 Il processo di costituzione e le condizioni di legittimità – 2.2.2 Tesi negoziale e tesi giudiziale a confronto – 2.3 I divieti di adozione – 2.4 Ilprocesso di accertamento, l’impugnabilità ed il passaggio in giudicato della sentenza – 2.5 Gli effetti dell’adozione – 2.6 La revoca e la cessazione dello stato di figlio adottivo – 2.7 La natura giuridica dell’atto di adozione – 3.1 Le questioni dibattute dalla giurisprudenza. Le condizioni di ammissibilità dell’adozione alla presenza di altri discendenti – 3.2  La posizione della Cassazione e della giurisprudenza ordinaria – 3.3 Il dibattito giurisprudenziale sul cognome dell’adottato figlio naturale – 3.4.1 Le altre pronunce rilevanti della Cassazione. Ancora della natura negoziale dell’adozione – 3.4.2 L’incapacità naturale dell’adottante – 3.4.3 La costitutività del decreto che pronuncia l’adozione – 3.4.4 L’adozione congiunta di maggiorenne e minorenne – 4.
 
1. L’istituto dell’adozione. Il quadro generale
Questa ricerca intende approfondire i profili di merito legati all’istituto dell’adozione di persone maggiorenni. Si partirà, a tale scopo, da alcune considerazioni di ordine generale, spendendo poche parole sulla disciplina dell’adozione. Lo scopo è, infatti, quello di inquadrare concettualmente l’istituto nell’attuale ordinamento italiano.
Cominciamo col dire che l’adozione dei maggiorenni è una delle tre tipologie di adozione che vengono contemplate dal legislatore italiano. Si tratta, anzi, di una delle ipotesi minoritarie, poiché la gran parte della disciplina (ed il relativo dibattito giurisprudenziale) si concentrano sull’adozione di soggetti minori di età.
Più precisamente, possiamo provare a distinguere cinque diverse ipotesi: la principale figura di adozione è quella che riguarda il minore abbandonato, disciplinata in una legge speciale, la l. 4 maggio 1983, n. 184, successivamente modificata dalla legge 28 marzo 2001, n. 149[1].
La seconda ipotesi, invece, è quella che si definisce “particolare” e consente l’adozione del minore nelle ipotesi in cui non è possibile ricorrere alle forme dell’adozione ordinaria[2].
Accanto ad esse si pone l’adozione internazionale, nella quale, come suggerisce il nome, esiste una diversa nazionalità tra l’adottante e l’adottato[3].
Un ultimo istituto a protezione del minore è quello dell’affidamento familiare, che, però, non instaura un rapporto adottivo, piuttosto sopperisce ad una temporanea carenza dell’ambiente familiare del minore.
Infine, ma per quanto di nostro interesse: soprattutto, viene l’adozione civile, altresì conosciuta come adozione di maggiori di età. Questa è stata introdotta dalla riforma del 1983 ed ha preso il posto dell’antica adozione ordinaria, che concerneva originariamente sia i maggiorenni che i minori superiori agli anni otto, mentre per i minori degli anni otto si applicava l’adozione speciale prevista nella legge n. 431 del 5 giugno 1967. Invece, a seguito della riforma l’adozione ordinaria è stata circoscritta all’adozione di maggiorenni[4].
La prima cosa sulla quale bisogna indagare riguarda le differenze che distinguono questa tipologia rispetto alle precedenti figure. Ebbene, si può dire che l’adozione civile assuma caratteristiche peculiari rispetto alle forme ordinarie di adozione, soprattutto su due piani: sul piano sostanziale, è diversa la collocazione della disciplina. Le precedenti tipologie di adozione sono oramai interamente disciplinate dal legislatore in leggi speciali, viceversa, la disciplina dell’adozione di maggiorenni risiede ancora nel codice civile[5].
Sul piano sostanziale, poi, mentre le due precedenti figure di adozione sono caratterizzate dall’esigenza dell’ordinamento di escogitare forme adeguate per supplire, nei confronti del minore, alla famiglia d’origine, offrendogli una valida alternativa all’interno di un diverso nucleo familiare, questa esigenza non ricorre nel caso dell’adozione di persona maggiore di età. Più semplicemente, lo scopo dell’adozione civile è quello di conferire lo status di figlio adottivo all’adottato maggiorenne, che tuttavia – come vedremo meglio – si aggiunge al precedente stato familiare, senza modificarlo.
Alla luce di queste importanti differenze, ed in ragione del quadro sommario appena esposto, la trattazione intende procedere nel modo che segue. Sviluppare, in primo luogo, il tema delle diversità, approfittando di queste per approfondire adeguatamente la disciplina concreta dell’istituto dell’adozione di maggiorenni. Successivamente, l’intenzione è quella di offrire una disamina dell’istituto alla luce del dibattito giurisprudenziale, che presenta interessanti pronunce sia da parte del giudice ordinario, sia, soprattutto, da parte del giudice costituzionale.
 
2.1 La disciplina dell’adozione civile. Le peculiarità che contraddistinguono l’istituto
Quali sono, dunque, le peculiarità che susseguono all’applicazione dell’istituto? Ne possiamo isolare quattro: anzitutto, la regola generale dispone che l’adottato assume il cognome dell’adottante, anteponendolo al proprio[6]. Vedremo oltre come questa circostanza deve essere temperata da una serie di considerazioni aggiuntive.
In secondo luogo, l’adottato acquista i diritti successori di figlio nei confronti dell’adottante. Non è tuttavia vero il contrario. A differenza di quanto avviene nei rapporti di filiazione naturale, nell’adozione civile l’adottante non acquista diritti successori nei confronti dell’adottato. Lo confermano tre disposizioni: l’art. 791 del codice civile prevede, quale condicio sine qua non, l’assoluta mancanza di discendenti legittimi o legittimati per accedere a siffatto tipo di adozione.
Poi, dà ulteriore conferma del predetto scopo l’art. 536 del codice civile, che equipara i figli adottivi a quelli legittimi, al fine di succedere nelle quote d’eredità, rendendoli titolari del diritto riservato caratteristico dei soggetti legittimari.
Ancora, l’art. 298 del codice civile prevede, al quarto comma, la possibilità per gli eredi legittimi dell’adottante di opporsi alla sua richiesta di adozione – in caso di sua morte dopo la prestazione del consenso e prima dell’emanazione della sentenza adottiva – per l’evidente conflitto di interessi che si verrebbe a creare tra questi e l’eventuale adottato[7].
Infine, si crea un vincolo giuridico che obbliga entrambe le parti del rapporto (adottante ed adottato) agli alimenti legali[8].
Una quarta conseguenza che discende dal rapporto di adozione civile è, in realtà, più che una caratteristica, un vero e proprio effetto vincolante. In sostanza, ai sensi dell’articolo 300 del codice civile, dal momento in cui si perfeziona l’adozione del maggiorenne questo non vede venir meno i suoi diritti ed obblighi nei confronti della famiglia originaria. Mantiene, al contrario, sia gli uni che gli altri.
Esistono poi vincoli significativi in merito all’età dei soggetti che sono coinvolti nell’adozione, di cui è necessario parlare in modo più approfondito. La legge richiede, anzitutto, che l’adottato sia maggiore d’età. Può apparire – ed in parte lo è – un dato scontato, visto che si parla proprio di adozione di maggiorenni.
La circostanza che si ribadisca questa caratteristica ha però un suo fondamento logico, al quale s’è già fatto un breve cenno in precedenza. Mentre cioè nel caso dell’adozione ordinaria lo scopo è quello di offrire assistenza morale e materiale al minore, in questo ultimo caso lo scopo è diverso. Serve, piuttosto, ad assicurare, anzitutto, la continuità del nome e del patrimonio della famiglia. Inoltre, assume in alcune circostanze una funzione di solidarietà che rafforza il rapporto tra due persone adulte[9].
Dal lato opposto, la legge, all’art. 291 del codice civile, richiede che l’adottante abbia un’anzianità maggiore di almeno 18 anni rispetto all’adottato. Occorre, per la precisione, che l’adottante abbia raggiunto almeno i 35 anni di età[10].
Va detto che in realtà la norma deve interpretarsi nel senso che l’età minima per adottare sia di almeno 36 anni (senza eccezioni). La ragione si spiega – fanno notare i giuristi attenti al problema – con il fatto che la norma contiene un errore: dovendo sussistere un divario obbligatorio di almeno 18 anni con l’adottando, se si ammettesse un trentacinquenne all’adozione, si finirebbe ad ammettere l’adozione di un minore di diciassette anni, in contrasto con la legge n. 184 del 1993 che prevede per l’adozione di minori una procedura del tutto autonoma[11].
 
2.2.1        Il processo di costituzione e le condizioni di legittimità
L’adozione civile si costituisce mediante decreto del tribunale su ricorso dell’adottante. Non rileva, in proposito, la circostanza che il soggetto adottante sia solo, o piuttosto in coppia con un altro coniuge[12].
Tale ricorso deve essere compiuto presso il Presidente del tribunale nel cui circondario l’adottante possegga la sua residenza, come dispone il primo comma dell’art. 311 del codice civile.
Il Presidente raccoglie il consenso dell’adottante e quello dell’adottato (o, come vedremo meglio poco avanti, del suo legale rappresentante in caso di interdizione o inabilitazione), che gli deve essere manifestato personalmente, data la fondamentale importanza di tale atto per la procedura in questione e al fine di poter operare una verifica diretta circa l’assoluta autenticità e libertà di siffatta volontà.
Mentre infatti nell’adozione piena è sufficiente esprimere un generico intento di adozione, espresso dagli interessati attraverso l’istanza di adozione, nell’adozione civile si richiede il consenso espresso dell’adottante (o degli adottanti) e dell’adottando[13].
Si richiede, inoltre, l’assenso dei genitori dell’adottando e l’assenso del coniuge dell’adottante e del coniuge dell’adottando, che non siano legalmente separati. In quest’ultimo caso la spiegazione è agevole: l’assunzione di nuovi obblighi familiari gravanti sul nucleo familiare richiede che entrambi i componenti del nucleo medesimo offrano il loro consenso. Vedremo meglio in seguito come, a seguito di una pronuncia della Corte costituzionale, si renda oggi necessario anche l’assenso dei discendenti maggiorenni dell’adottante.
Va aggiunto che il consenso deve essere prestato personalmente, non essendo prevista dalla legge alcuna forma di rappresentanza, salva la possibilità, prevista dall’art. 1 della legge 6 gennaio 1941, n. 5, per i militari e le persone al seguito delle forze armate per ragioni di servizio, in tempo di guerra – cui può essere parificato quello delle missioni militari all’estero del nostro Paese ai fini pacificatori – di fare una procura nelle forme speciali di cui al R.D. 8 luglio 1938, n. 1415[14].
Nel caso in cui, ancora, il soggetto adottante sia interdetto, appare ragionevole ritenere che non sia possibile che egli possa esprimere tale consenso, attraverso il suo rappresentante legale[15]. Infatti, diversamente dall’ipotesi di interdetto adottando, la valutazione della sua convenienza, oltre che dal suo legale rappresentante nell’espressione di detto consenso, viene vagliata nel merito dallo stesso giudice prima dell’emanazione della sentenza adottiva.
Stesso dicasi nel caso in cui l’inabilitato adottante non possa essere soccorso dal suo curatore, nell’espressione del consenso. Anche in questo caso diversamente dal caso dell’inabilitato adottando, la cui convenienza all’adozione è vagliata sia dal suo curatore, che dallo stesso tribunale, al pari dell’ipotesi dell’intercetto.
È irrilevante, infine, anche la riserva mentale o la simulazione tra le parti consenzienti, perché tale divergenza tra volontà e dichiarazione può emergere solo nella forma tassativa della revoca prima della sentenza adottiva, ma non successivamente. Ciò per garantire la certezza e la stabilità del rapporto creatosi tra le parti[16].
 
2.2.2 Tesi negoziale e tesi giudiziale a confronto
Alla luce di queste caratteristiche, alcuni autori sostengono che l’adozione civile sarebbe un negozio complesso, cui parteciperebbero in diversa posizione soggetti privati ed organi pubblici.
Altri autori (invero: la maggioranza della dottrina) ritengono invece che l’adozione in sé possa considerarsi un atto giudiziale. I consensi e gli assensi dei singoli interessati assumerebbero, in questo contesto, la connotazione di presupposti dell’atto medesimo. Essi infatti rientrano tra le condizioni che il tribunale dell’adozione deve verificare prima di approvarla, e successivamente ad essa non hanno autonoma rilevanza perché ciò che rileva è esclusivamente il decreto di adozione[17].
La giurisprudenza, dal canto suo, è propensa a qualificare l’istituto negozialmente, come dimostra, ad esempio, la lettura della sentenza n. 4694 del 1992, della Corte di cassazione[18], nella quale, dopo aver premesso il carattere negoziale delle parti dell’adozione, il giudice ha reputato ammissibile l’azione di annullamento dell’adozione per incapacità naturale dell’adottante, ma ha escluso che le azioni di annullamento dell’adozione siano trasmissibili in caso di morte della parte legittimata.
Il dibattito di cui s’è detto ha ulteriore, ed importanti, ripercussioni. Valga un esempio a confermare quanto detto. Una questione di cui si dibatte, e nella quale si raggiungono conclusioni diverse a seconda che si adotti l’una o l’altra delle tesi esposte, è quella che riguarda la possibilità che l’adozione possa venir meno per l’invalidità dell’atto.
Cominciamo col dire che, a tale proposito, la normativa attualmente in vigore non prevede la presenza di cause di cessazione dell’adozione per eventi sopravvenuti. Alla luce di ciò, gli autori si dividono. I fautori della tesi tradizionale (quella negoziale) sostengono che la mancanza di uno dei presupposti comporterebbe la nullità dell’adozione da farsi valere con ordinaria azione di accertamento. Ritengono inoltre che l’adozione sia annullabile per incapacità delle parti o vizi del consenso[19]
Invece, i fautori della tesi giudiziale, spostano il problema sul piano dell’incompatibilità dell’adozione con lo stato familiare dell’adottato e prospettano la soluzione della contestazione dello stato di figlio adottivo solamente nel caso in cui l’adottato risulti figlio dell’adottante o già adottato da altra persona[20].
Appare evidente, allora, che la scelta tra l’una e l’altra soluzione non è affatto irrilevante per le parti coinvolte. Questa ragione contribuisce a spiegare la posizione della giurisprudenza che, seppure con qualche oscillazione, pare propensa a confermare la seconda tesi (sia in questa specifica circostanza sia, come si è visto, in generale). Il motivo è che questa tesi sembra offrire maggiori garanzie alle parti, perché scinde le due fasi del processo di adozione, separando, di conseguenza, le cause di invalidità dell’una e dell’altra.
 
2.3 I divieti di adozione
Prima di parlare di come si svolge il procedimento che porta all’adozione, sembra opportuno spendere due parole sui casi nei quali questo procedimento non può essere avviato, sussistendo un’ipotesi di divieto di adozione.
Ebbene, a tale proposito rileva l’art. 293 del codice civile, il quale, a seguito dell’abrogazione del comma 2 e 3 ad opera dell’art. 67 della legge n. 184 del 1863, dispone che i figli nati fuori del matrimonio non possono essere adottati dai loro genitori.
La norma ha la stessa formulazione che aveva nel codice del 1865, ma segue una logica completamente diversa. Infatti, mentre nel codice unitario, come in quello del 1942, la disposizione tendeva a sottolineare e mantenere la posizione di inferiorità dei figli nati fuori dal matrimonio e ad evitare che con l’adozione il genitore attribuisse loro diritti più ampi di quelli che la legge consente[21], oggi il figlio naturale, anche adulterino, può essere riconosciuto ed acquisire uno status tendenzialmente equivalente a quello del figlio legittimo.
Dopo l’introduzione del diritto di famiglia, che ha attuato una parificazione quasi completa tra figli legittimi e figli naturali, il fondamento della disposizione si è ritenuto che consistesse nel principio di corrispondenza tra verità naturale e certezza formale dello status filiationis. Oggi, dunque, la sua ratio va individuata nella tendenza volta a mantenere rigorosamente distinti dall’adozione e dalle sue finalità gli strumenti tendenti ad assicurare uno status più vantaggioso ai figli nati fuori dal matrimonio[22].
Restano aperte due questioni: la prima questione riguarda l’assolutezza del divieto posto dalla norma, che per alcuni è assoluto, per altri relativo. I primi in particolare sostengono che l’adozione del figlio naturale deve considerarsi nulla anche se il riconoscimento o la dichiarazione giudiziale intervengono dopo l’adozione.
La seconda questione di cui si dibatte è se il divieto si possa applicare anche ai figli non riconoscibili. Tale possibilità è riconosciuta da chi osserva che la filiazione non riconoscibile si sottrae ad un accertamento dello stato formale di figlio[23], mentre è esclusa da chi rileva che il divieto è assoluto e si estende a tutti i figli naturali, siano o non riconosciuti e siano o non riconoscibili.
Un secondo divieto, è quello che pone il secondo comma dell’art. 294. In base ad esso nessuno può essere adottato da più di una persona, a meno che i due adottanti non siano coniugati. La ragione del divieto, in questo caso, pare intuitiva: lo stesso individuo non può essere soggetto a più status familiari tra loro in conflitto.
Un terzo, ed ultimo divieto, è oggi venuto meno. Si tratta della possibilità di adozione di più persone con atti successivi. Resta il fatto che la caduta del precedente divieto, si fa notare[24], non risulta facilmente spiegabile, atteso che, in effetti, l’esigenza che tende a soddisfare l’adozione del maggiorenne, e cioè la possibilità di offrire una discendenza all’adottante, consentendo la continuità del patrimonio e del nome, sarebbe già stata soddisfatta con la prima adozione.
 
2.4 Il processo di accertamento, l’impugnabilità ed il passaggio in giudicato della sentenza
Torniamo al procedimento di costituzione. L’adozione è pronunziata dal tribunale con decreto motivato emesso a conclusione di un procedimento camerale, sentito il pubblico ministero. Tale procedimento non richiede particolari formalità. Semplicemente, come si è detto, il Tribunale deve verificare che sussistano le condizioni di legge e, soprattutto, che l’adozione sia conveniente per l’adottando. A tale proposito, stabilisce l’art. 312 del codice civile, deve disporre d’ufficio le opportune indagini.
Tali indagini vengono svolte per mezzo degli organi di polizia giudiziaria, nonché, eventualmente, i servizi sociali territoriali, e sono volti ad accertare la situazione personale, familiare e socio-ambientale dell’adottante e dell’adottato, nonché ogni altro elemento utile alla dimostrazione della convenienza all’adozione in favore dell’adottando.
L’accertamento della convenienza del nuovo rapporto giuridico, si sostituisce al giudizio sulla “buona fama” dell’adottante, che era richiesto in passato dal codice civile. Essa, inoltre, non deve limitarsi al mero accertamento di un intento illecito, ma deve valutare in concreto la migliore soddisfazione dell’interesse morale e materiale dell’adottando (che, per fare un esempio, verrebbe leso ove si pronunziasse un’adozione da parte di un adottante che sia un esponente della criminalità)[25].
La sentenza emessa dal tribunale è impugnabile. Hanno legittimazione attiva l’adottante, l’adottato ed il pubblico ministero, nel termine di 30 giorni dalla comunicazione di questa. L’impugnazione va proposta con reclamo alla Corte d’appello, che decide sempre con procedimento camerale e con l’intervento del pubblico ministero. A sua volta, la sentenza emessa dalla Corte d’appello è impugnabile in Cassazione.
La sentenza che passi in giudicato e che pronunzi l’adozione deve essere iscritta nel registro delle adozioni e annotata a margine dell’atto di nascita, come dispone il primo comma dell’art. 314 del codice civile[26].
 
2.5 Gli effetti dell’adozione
Se la regola principale è quella appena esposta, per cui la definitività della pronuncia giudiziale determina la produzione degli effetti dell’adozione, è possibile, in una sola circostanza, che si abbia un effetto retroattivo. Ciò accade nel caso in cui l’adottante scompaia prima della sopravvenuta definitività della sentenza.
In questa ipotesi il legislatore inserisce una clausola di favor adoptionis[27]e stabilisce che l’adottato possa far valere egualmente i suoi diritti sul patrimonio dell’adottante, a partire dal momento in cui s’è verificata la morte dell’adottante. Inoltre gli eredi dell’adottante sono legittimati a produrre memorie ed osservazioni per opporsi all’adozione fornendo al tribunale elementi per esercitare il controllo di legittimità e di merito sull’adozione.
Tra gli effetti più significativi c’è anche quello, già anticipato, dell’acquisizione del cognome dell’adottante da parte dell’adottato. Bisogna però fare alcune precisazioni. La prima: accanto al nuovo cognome si conserva il cognome originario (art. 299 del codice civile, primo comma)[28].
La seconda: qualora l’adozione venga realizzata da una donna che sia coniugata, l’adottato assume il cognome della famiglia di lei, salvo che non sia figlio del marito (art. 299 del codice civile, quarto comma)[29].
La terza: L’adottato maggiorenne che non sia stato riconosciuto dai propri genitori, aggiunge il cognome dell’adottante a quello originariamente già attribuitogli.
Questa circostanza, è da notare, l’ha prevista anche la Corte costituzionale nella sentenza n. 120 dell’11 maggio 2001. Viceversa, il riconoscimento successivo all’adozione non fa assumere, al maggiorenne adottato, il cognome del genitore che lo abbia riconosciuto, salvo il caso in cui l’adozione venga successivamente revocata.
La quarta, ed ultima: il cognome adottivo è trasmesso ai discendenti dell’adottato, non solo a quelli sopravvenuti dopo la sentenza di adozione, ma anche a coloro – figli legittimi – che siano già nati prima della precitata sentenza. Ciò in ragione di una logica tutela paritaria di tutti i figli legittimi dell’adottato, in nome del principio dell’unità della famiglia, che trova espressione formale nell’unicità del cognome di ogni suo membro di appartenenza.
 
2.6 La revoca e la cessazione dello stato di figlio adottivo
Cominciamo con il dire che lo stato di figlio adottivo è considerato uno stato definitivo della persona. La legge, tuttavia, ammette all’art. 305 del codice civile una limitata possibilità di revoca dello stato di figlio adottivo mediante sentenza del tribunale. La revoca può essere pronunziata su domanda dell’adottante in caso di indegnità dell’adottato, o su domanda dell’adottato in caso di indegnità dell’adottante[30].
Su di essa è competente a pronunciarsi il tribunale e la competenza per territorio si determina dal luogo di residenza dell’adottante. È peraltro necessario l’intervento del P.M. ai sensi dell’art. 70 del codice di procedura penale, poiché si verte in materia di controversie di stato.
La sentenza ha efficacia costitutiva facendo venir meno gli effetti dell’adozione dal suo passaggio in giudicato. Un’eccezione a tale efficacia ex nunc è quella prevista per il caso di revoca pronunciata dopo la morte dell’adottante per fatto imputabile all’adottato.
In tal caso l’efficacia ex tunc riguarda solo gli effetti successoti in quanto l’adottato e i suoi discendenti sono esclusi dalla successione dell’adottante. La cessazione di tutti gli altri effetti decorrerà anche in questo caso dal passaggio in giudicato della sentenza di revoca dell’adozione[31].
Da un punto di vista cronologico la revoca può essere esercitata finché non sia emessa dal Tribunale la sentenza di adozione. Così stabilisce l’art. 298, al secondo comma, del codice civile[32].
Le cause della revocabilità si rinvengono in particolare nell’indegnità dell’adottato o dell’adottante. Rendono indegni l’attentato all’adottato o dell’adottante alla vita, rispettivamente, dell’adottante o dell’adottato o del loro coniuge, discendenti o ascendenti o la commissione nei loro confronti di un reato punibile con pena non inferiore a tre anni (lo stabiliscono gli articoli 305 e seguenti del codice)[33].
Si tratta, è bene specificarlo, di cause tassativamente previste dalla legge. La tassatività infatti si deduce dalla lettura dello stesso art. 305, che dispone che l’adozione si può revocare solo nei casi previsti dagli articoli 306 e 307. 
 
2.7 La natura giuridica dell’atto di adozione
Prima di trattare gli aspetti legati alla giurisprudenza di maggiore rilievo sull’adozione, sembra interessante affrontare un ultimo argomento, inerente la natura giuridica del provvedimento di adozione. Esistono due tesi diverse: secondo alcuni si tratterebbe di un atto di concessione costitutiva, in quanto il diritto verrebbe creato a seguito di una valutazione discrezionale dell’autorità.
Secondi altri autori invece si tratterebbe di un atto di accertamento costitutivo, in quanto il tribunale verificando l’adempimento delle condizioni richieste dalla legge si limiterebbe a rendere attuale un diritto di cui il privato avrebbe già la potenziale titolarità.
Si tratta, a ben vedere, di una questione simile, ma non identica, al dibattito sulla tesi negoziale o giudiziale del processo di adozione. Un dibattito che dimostra due cose: anzitutto che l’impianto legislativo non è completo e necessiterebbe di ulteriori interventi in funzione chiarificatrice. Non solo, il dibattito è anche interessante perché apre la strada all’esame della giurisprudenza più significativa in tema di adozione. Infatti, le pronunce di cui si parlerà nelle pagine che seguono sono tutte derivanti dall’esigenza di interpretare e sciogliere i principali nodi interpretativi legati all’adozione dei maggiorenni.
 
3.1 Le questioni dibattute dalla giurisprudenza. Le condizioni di ammissibilità dell’adozione alla presenza di altri discendenti
Le questioni che la giurisprudenza costituzionale ed ordinaria hanno dibattuto nel corso degli anni sono numerose e tutte di grande interesse. Si è deciso pertanto di procedere ad una ricognizione dei temi di maggiore rilevanza, proprio attraverso l’esame sentenze più significative.
Un primo aspetto di grande rilievo è quello riguardante le condizioni per l’adozione. Come si è già detto, l’adozione ordinaria può essere effettuata anche da uno solo dei coniugi, tra loro non separati (qualora non vi sia la richiesta congiunta di entrambi), richiedendosi il necessario assenso del coniuge dell’adottante, non separato, ai sensi dell’art. 297, primo comma, del codice civile. Ciò a differenza dell’adozione in casi particolari che, ex art. 44, punto 3, della legge 184, può essere disposta solo a favore di entrambi i coniugi che non siano separati.
Inoltre, ed è questo il problema che ci interessa, occorre che vi sia l’assoluta mancanza di discendenti legittimi o legittimati per l’adottando, ai sensi dell’art. 291, al primo comma. Proprio questa condizione è stata però temperata dall’intervento della Corte costituzionale, in due sentenze. La prima sentenza è la n. 557 del 19 maggio 1988. In essa la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del predetto comma dell’art. 291, nella parte in cui non consente tale adozione a persone che abbiano discendenti legittimi o legittimati maggiorenni o consenzienti, rilevando, in contrasto con l’art. 3 della costituzione, che il coniuge dell’adottante possa prestare il proprio assenso all’adozione, ex art. 297, primo comma, codice civile, mentre tale facoltà non sia riconosciuta ai discendenti legittimi o legittimati maggiorenni[34].
La seconda sentenza è la numero 245 del 20 luglio 2004. In essa la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dello stesso comma dell’art. 291 del codice civile, nella parte in cui non prevede che l’adozione di maggiorenni non possa essere pronunciata in presenza di figli naturali, riconosciuti dall’adottante, minorenni o, se maggiorenni, non consenzienti[35].
Questa seconda sentenza merita un approfondimento. La Corte, in essa, rilevava la circostanza per cui, a seguito della sentenza 557, sia la dottrina che la giurisprudenza ordinaria, erano giunte ad interpretare l’art. 291 nel senso che il divieto di adozione di maggiorenni si applicasse a coloro che avessero figli legittimi o legittimati minori, o, se maggiorenni, non consenzienti, e non anche a coloro che avessero figli riconosciuti.
Questa interpretazione – secondo la Corte – evidenziava: “Un’illegittima disparità di trattamento fra figli legittimi e figli naturali, riconosciuti ed in pregiudizio dei secondi, in quanto le ragioni di indole morale e patrimoniale, che consentivano ai primi di opporsi all’adozione, valevano anche per i figli naturali. D’altro canto, nella situazione presa in esame non erano ipotizzabili profili di incompatibilità con i diritti dei membri della famiglia legittima che giustificassero un trattamento normativo differenziato”[36].
Attualmente, dunque, ne consegue che il divieto di adottare è limitato per chi abbia figli minorenni legittimi, legittimati e naturali e per coloro che abbiano figli maggiorenni legittimi, legittimati e naturali non consenzienti all’adozione.
 
3.2 La posizione della Cassazione e della giurisprudenza ordinaria
Con riferimento al problema sollevato (e risolto) dalla Corte costituzionale, è intervenuta anche la Corte di Cassazione.
Quest’ultima, con la recente sentenza n. 2426 del 2006, è partita dalla considerazione che la finalità dell’adozione ordinaria non è solo quella tradizionale di trasmissione del nome e del patrimonio, ma anche quella di consolidamento dell’unità familiare attraverso la formalizzazione di un rapporto di accoglienza già sperimentato e concretamente vissuto[37].
Ebbene, sostiene il giudice, al pari delle ipotesi dell’adozione in casi particolari, anche qui sarebbe possibile ampliare l’adozione a quei maggiorenni figli del coniuge che già appartenga, insieme al proprio genitore naturale, e ai fratelli, minorenni, ex uno latere, al contesto affettivo della famiglia e di accoglienza dell’adottante.
Secondo la Cassazione il consenso all’adozione di figli (legittimi, legittimati o naturali) maggiorenni dell’adottante rappresenta lo strumento per realizzare un bilanciamento di interessi: la tutela dei membri della famiglia legittima o naturale, da un lato; il favor verso l’istituto dell’adozione, dall’altro.
La Corte costituzionale, spiega il giudice, facendo cadere le limitazioni irragionevoli all’ammissibilità dell’adozione, ha affidato (alla stregua di quanto già previsto dal codice per il coniuge dell’adottante) la salvaguardia dei diritti dei membri della famiglia biologica all’autorizzazione privata di coloro che, essendo interessati, sia sotto l’aspetto patrimoniale che sotto quello morale, alla costituzione del vincolo, risentirebbe degli effetti del rapporto senza essere parti dello stesso.
Ma, continua la Cassazione, quando l’adozione di maggiorenne riguardi un soggetto, il figlio del coniuge, che già sia membro della comunità di affetti della famiglia dell’adottante, non c’è spazio per un consenso dei figli (legittimi, legittimati o naturali) dell’adottante medesimo, inteso come condizione di ammissibilità dell’adozione. Tale consenso, infatti, cessando di fungere da strumento di compatibilità tra interessi contrapposti, verrebbe a preservare l’unità e l’esclusività di un gruppo, non nei confronti di un terzo estraneo, ma nei riguardi di un soggetto già inserito nel contesto di quel nucleo familiare, al quale, con l’adozione, lo si vuole anche formalmente ascrivere[38].
Dal canto suo, in merito ad una questione analoga, la giurisprudenza ordinaria ha ritenuto che non costituisca ostacolo all’adozione la presenza di figli naturali riconosciuti dal richiedente l’adozione perché la norma che vieta di adottare a chi abbia discendenti legittimi o legittimati non può essere interpretata estensivamente[39].
La dottrina[40], a questo ultimo proposito, ha ritenuto che la possibilità evidenziata dalla giurisprudenza ordinaria riveli l’irragionevolezza della limitazione del divieto ai soli figli legittimi o legittimati in quanto, essendo il divieto inteso a non pregiudicare le ragioni successorie dei figli, dovrebbe essere esteso anche ai figli naturali a cui competono le medesime ragioni successorie.
 
3.3 Il dibattito giurisprudenziale sul cognome dell’adottato figlio naturale
Un’altra materia sulla quale si è pronunciata la Corte costituzionale è quella inerente il cognome dell’adottando. Andiamo con ordine. Il comma 2 dell’art. 299 disciplina gli effetti dell’adozione sul cognome nell’ipotesi di adozione di figlio naturale non riconosciuto dai propri genitori e di figlio naturale riconosciuto dai propri genitori che sia successivamente adottato. Nel primo caso, la norma prevedeva che l’adottato assumesse solo il cognome dell’adottante perdendo il proprio[41], destando in dottrina grandi perplessità[42].
Ed in effetti la Corte costituzionale, con la sentenza n. 120 del maggio 2001, ha dichiarato la norma incostituzionale. Il giudice ha ritenuto fondata la questione sollevata dalla corte d’appello di Palermo, rilevando che la scelta normativa di privare l’adottato del cognome di fantasia attribuitogli dall’ufficiale dello stato civile, che poteva rivelare l’origine illegittima del figlio non riconosciuto, violava l’art. 2 della Costituzione, dovendosi ritenere principio consolidato quello per cui il diritto al nome (quale primo e più immediato segno distintivo che caratterizza l’identità personale) costituisce uno dei diritti inviolabili della persona umana[43].
 
3.4.1 Le altre pronunce rilevanti della Cassazione. Ancora della natura negoziale dell’adozione
Proseguiamo la nostra ricognizione delle pronunce di maggiore interesse.
Nell’ampio numero di sentenze a disposizione, se ne sono scelte quattro, per la loro importanza e peculiarità.
La prima sentenza è la n. 4461 del 4 luglio 1983. In essa il giudice ha stabilito che, nel procedimento di adozione ordinaria, il consenso dell’adottante previsto dall’art. 296 del codice civile come necessario per far luogo all’adozione, pur non avendo natura contrattuale, costituisce pur sempre un negozio di diritto familiare, soggetto a controllo di legittimità e di merito da parte dell’autorità giudiziaria.
La sentenza è interessante per due motivi. Il primo è che sembra dare rilevanza alla tesi di natura negoziale, piuttosto che quella giudiziale, secondo l’indirizzo di cui s’è già parlato in precedenza.
Il secondo motivo è che, dalla natura negoziale, il giudice fa discendere conseguenze di rilievo. In particolare, poiché il negozio conserverebbe la sua sfera di autonomia anche dopo il decreto di adozione, non sarebbe suscettibile di passare in cosa giudicata. Circostanza questa per cui la sua impugnazione si configura come impugnazione del negozio e non come azione di nullità del procedimento[44].
 
3.4.2 L’incapacità naturale dell’adottante
Una seconda sentenza è la n. 4694 del 1992. In questa circostanza la Cassazione stabilisce che nel caso di incapacità naturale dell’adottante all’atto dell’emissione del consenso, la mancanza di una espressa previsione normativa, circa le persone legittimate a far valere la suddetta situazione invalidante, raffrontata alla dettagliata e specifica indicazione delle categorie di persone e congiunti legittimati a proporre le singole azioni dettate dal codice civile in materia di diritto di famiglia, esclude che possa trovare applicazione la disposizione di ordine generale di cui all’art. 428 del codice civile.
Infatti, chiarisce il giudice, tale norma, nel consentire l’esercizio dell’azione anche agli eredi e aventi causa, appare volta a tutelare interessi essenzialmente patrimoniali con la conseguenza che il soggetto legittimato a proporre l’impugnazione del consenso dell’adottato è soltanto lo stesso adottante, titolare della posizione soggettiva in contestazione, dovendo tale azione considerarsi esclusivamente personale e non trasmissibile se non esercitata in vita dal predetto titolare del rapporto adottivo.
 
3.4.3 La costitutività del decreto che pronuncia l’adozione
Molto interessante è la sentenza n. 13171, del 16 luglio 2004. In essa il giudice stabilisce che il decreto che pronunzia l’adozione di persone di maggiore età è costitutivo dell’adozione, produce effetti direttamente incidenti sullo status dell’adottando ed è connotato dalla stabilità. Circostanza quest’ultima comprovata dalla previsione della sua revocabilità soltanto in casi tassativi e specifici, in conseguenza di fatti sopravvenuti e con efficacia ex tunc[45].
 
3.4.4 L’adozione congiunta di maggiorenne e minorenne
In un caso molto particolare la Cassazione ha ammesso la possibilità di adottare contemporaneamente un maggiorenne ed un minorenne, pur non sussistendo per il maggiorenne il divario legale[46].
Nel caso di specie, riguardante l’adozione di prole del coniuge dell’adottante (composta, appunto, da due figli: uno di minore ed uno di maggiore età), la Corte ha ritenuto consentita l’attrazione della disciplina dell’adozione del maggiorenne nella disciplina già vigente per l’adozione del figlio minore al fine di non compromettere la realizzazione del valore etico-sociale dell’unità familiare.
Sulla questione di è pronunciata anche la Corte costituzionale, la quale ha fatto salva la legittimità dell’art. 291 del codice civile nella parte in cui stabilisce che l’adottante deve superare di almeno 18 anni l’età dell’adottato, senza prevedere che il giudice possa ridurre la differenza di età richiesta da tale disposizione, nel caso di adozione di figlio maggiorenne, anche adottivo, dell’altro coniuge[47].
 
4. Conclusioni
La rassegna delle pronunce dei giudici ordinari e costituzionali che si è riportata nelle pagine precedenti dovrebbe essere in grado di offrire un panorama adeguato della complessità delle questioni coinvolte dal tema dell’adozione.
Nella introduzione della ricerca ci si era proposti di dimostrare la complessità e l’attualità di un istituto, nonostante che – senza timore di essere smentiti – lo si fosse definito anche un istituto minoritario. Certamente meno importante rispetto alla figura dell’adozione dei soggetti minori di età.
Ebbene, lo scopo può dirsi raggiunto. La disamina del dibattito giurisprudenziale ne è la riprova. Non solo le questioni problematiche le corti hanno affrontato e risolto, ma anche l’ampio dibattito che ne è sorto, sono indici di un tasso di problematicità elevato. Quindi, di conseguenza, dimostrano la complessità dell’istituto e dei profili che esso viene ad intaccare.
 


[1] Spiega, in proposito, Bianca C.M., Diritto civile, II, Milano, 2005, pag. 413: “Tale adozione, detta semplicemente adozione o anche adozione piena o legittimante, conferisce all’adottato la posizione di figlio legittimo degli adottanti. Essa crea quindi un vincolo che si sostituisce integralmente a quello della filiazione di sangue e che inserisce l’adottato definitivamente ed esclusivamente nella nuova famiglia”.
[2] Cfr. Bianca C.M., Diritto civile, II, Milano, 2005, pag. 413: “(…) consente l’adozione del minore in alcuni casi in cui non si può ricorrere all’adozione piena. Essa crea un vincolo di filiazione giuridica che si sovrappone a quello della filiazione di sangue. Il rapporto di appartenenza alla famiglia di origine non si estingue ma la potestà spetta agli adottanti, che sono tenuti a mantenere, istruire ed educare l’adottato”.
[3] E dunque la disciplina interessa profili di diritto interno ma anche di diritto internazionale privato, dovendosi mediare tra gli interessi e gli scopi di due diversi ordinamenti. L’adozione internazionale è stata ridisciplinata dalla legge 31 dicembre 1998, n. 476.
[4] Si vedano Campanato G., Rossi V., Manuale dell’adozione nel diritto civile, penale, del lavoro, amministrativo, tributario, Padova, 2003, pag. 75: “Fino all’entrata in vigore della legge 4 maggio 1983, n. 184 le norme contenute nel titolo VIII del libro I, che si intitolava dell’adozione, disciplinavano sia l’adozione delle persone maggiori di età che quelle dei minori. Con la legge n. 184, intitolata disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori, tutta la materia riguardante i minori d’età diventò oggetto di legislazione speciale, secondo una scelta permanente destinata a costituire un sistema dell’assistenza ai minori separato dal codice civile. La distinzione delle fonti era il riflesso esterno di una diversità di aree e di schemi normativi. La disciplina del codice riguardava l’aspetto fisiologico del rapporto educativo riguardante il minore, la legislazione speciale quello patologico. La prima era di stampo privatistico, la seconda di impronta pubblicistica”.
[5] Cfr. Bessone M., Casi e questioni di diritto privato, Milano, 2001, pag. 517: “La volontà, assai discussa, di conservare una normativa sorta in origine per trasmettere il nome o il patrimonio risponde anche ad altre esigenze: formalizzare un rapporto personale ed affettivo creatosi tra un coniuge ed i figli dell’altro coniuge, attraverso uno strumento più duttile rispetto all’analogo strumento previsto per l’adozione di minorenne ed applicabile anche alle ipotesi di figli maggiorenni; fornire assistenza ad anziani senza famiglia o ad handicappati”.
[6] Si confrontino le osservazioni svolte da Galgano F., Diritto privato, Padova, 2006, pag. 851: “Come l’antica adozione ordinaria ha, fondamentalmente, la funzione di rendere possibile una discendenza elettiva, attributiva del cognome e della qualità di erede dell’adottante. Era, originariamente, consentita a chi, coniugato o no, fosse privo di discendenti legittimi o legittimati; ma la Corte costituzionale ha innovato al riguardo, permettendo l’adozione anche a chi ha già una discendenza di sangue”.
[7] Cfr. R., L’adozione, Milano, 2005, pag. 358: “NE consegue, pertanto, che dalla siffatta normativa precitata, l’adozione di maggiorenni persegue dei fini prevalentemente privatistici, inerenti alla tutela degli esclusivi interessi dell’adottante e dell’adottato, di natura principalmente successoria, anche se essa non è non scevra, certamente, del sincero affetto che, generalmente, lega i due predetti soggetti (cui consegue l’importante interesse morale all’aggiunta del cognome adottivo) e, altresì da un controllo pubblico da parte del giudice, circa la rispondenza di siffatta adozione all’interesse dell’adottando”.
[8] Nota, in merito, Vessichelli F., La nuova legge sull’adozione, Padova, 1985, pagg. 215 ss., che l’avvenuta soppressione dell’art. 301 del codice civile ad opera del legislatore non ha comportato il venir meno dell’obbligo di mantenimento dell’adottato che non sia ancora in grado di realizzare la propria autonomia economica.
[9] Si pensi all’esigenza di garantire una più duratura e stabile assistenza nei confronti delle persone anziane o delle persone con menomate capacità mentali. Lo specifica Thomas R., L’adozione, Milano, 2005, pag. 357: “L’adozione dei minori mira sostanzialmente a perseguire finalità pubbliche e socialmente rilevanti, di tutela del preminente interesse del minore a vivere in famiglia (fornendo una idonea famiglia sostitutiva per il minore in stato di abbandono, nell’ipotesi dell’adozione legittimante, ovvero aggregata, per quello che versa in casi particolari), nel caso dell’adozione di maggiorenni, lo scopo precipuo è dichiaratamente quello di creare una discendenza ai fini successori (trasmettendo il nome e il patrimonio)”.
[10] Cfr. Campanato G., Rossi V., Manuale dell’adozione nel diritto civile, penale, del lavoro, amministrativo, tributario, Padova, 2003, pag. 76: “L’art. 291 permette l’adozione delle persone maggiori d’età quando l’adottante abbia compiuto 35 anni e superi di almeno 18 anni l’età dell’adottando. Dopo l’esclusione della sua applicazione ai soggetti di età minore la disposizione presenta un’incongruenza. Poiché l’adottando non può avere meno di 18 anni l’adottante (che deve essere più vecchio di 18 anni) non potrà, evidentemente, avere meno di 36 anni, e quindi finisce per essere priva di senso la previsione che consente l’adozione a chi ha 35 anni”.
[11] Aggiunge Thomas R., L’adozione, Milano, 2005, pag. 362: “Inoltre, essendo il contesto precettivo applicabile esclusivamente all’adozione di maggiorenni con una differenza minima di età di diciotto anni nei confronti dell’adottante, si deve ritenere implicitamente abrogato il secondo comma dell’art. 291 del codice civile, che prevedeva la possibilità di adottare, per eccezionali circostanze, al compimento dei trent’anni”.
[12] V. Galgano F., Diritto privato, Padova, 2006, pag. 851: “Occorre, se l’adottante ha discendenti di sangue, il consenso di costoro. È necessario inoltre che l’adottante abbia compiuto 35 anni e abbia almeno 18 anni più della persona che vuole adottare. In ogni caso al tribunale è rimessa una valutazione di merito: se l’adozione convenga all’adottando.
[13] Rileva in proposito Carraro F., Adozione civile, in Rivista di diritto civile, 1943, pagg. 165 ss., che la coincidenza di volontà dell’adottante e dell’adottato può configurarsi come un accordo. Si tratta tuttavia, nota l’autore, di un termine che può apparire improprio perché presuppone l’unitarietà dell’atto perfezionato attraverso lo scambio di consensi, mentre nel procedimento di adozione ciascun consenso conserva la sua autonoma identità.
[14] Cfr. Thomas R., L’adozione, Milano, 2005, pagg. 362 ss.
[15] Si tratta di una possibilità che era prevista nel progetto preliminare al codice civile, e che venne poi soppressa nel progetto definitivo.
[16] V. Thomas R., L’adozione, Milano, 2005, pag. 363: “Essendo il consenso un presupposto necessario del procedimento giurisdizionale in oggetto, esso – una volta emanata la sentenza definitiva di adozione – non può più essere impugnato autonomamente per un eventuale suo vizio, in quanto la valutazione della manifestazione di colui che ha prestato il consenso resta assorbita nella decisione giurisdizionale passata in giudicato, e non può, pertanto, trovare più tutela di fuori di quel procedimento ormai concluso e che tale deve restare per garantire al massimo l’interesse preminente alla stabilità dei rapporti adozionale”.
[17] V. Bianca C.M., Diritto civile, II, Milano, 2005, pag. 474: “L’intendimento dell’adozione come atto di concessione giudiziale è coerente col principio della indisponibilità negoziale degli stati familiari, e trova conferma nella mancata previsione legislativa dell’impugnazione dell’adozione per vizi di volontà dei dichiaranti”.
[18] Un estratto della sentenza può leggersi in Foro italiano, 1993, I, pagg. 164 ss.
[19] In tal senso si pronuncia Procida Mirabelli di Lauro, Commentario del codice civile. Le adozioni di persone maggiori d’età, Torino, 1995, pag. 446: “La qualificazione del consenso quale negozio familiare autonomo e idoneo alla specificazione degli effetti dell’atto implica, necessariamente, l’ammissibilità di azioni contenziose volte a far valere i vizi di natura sostanziale afferenti alle manifestazioni di autonomia privata”.
[20] Va aggiunto che il divieto di adozione da parte del tutore è posto a salvaguardia di un interesse patrimoniale, del soggetto sotto tutela, e in mancanza di una previsione legislativa non sembra applicabile la sanzione della nullità che, oltretutto, potrebbe essere invocata dallo stesso adottante a danno dell’adottato.
[21] Si pronunciava in tal senso, ad esempio, Cicu A., La filiazione, in Trattato del diritto civile italiano, Roma, 1935, pagg. 310 ss.
[22] Si pronuncia così Campanato G., Rossi V., Manuale dell’adozione nel diritto civile, penale, del lavoro, amministrativo, tributario, Padova, 2003, pagg. 78 ss.
[23] Tale è l’opinione, ad esempio, di Vessichelli F., La nuova legge sull’adozione, Padova, 1985
[24] Cfr. Campanato G., Rossi V., Manuale dell’adozione nel diritto civile, penale, del lavoro, amministrativo, tributario, Padova, 2003, pag. 79: “La successiva adozione va ad incidere sull’aspetto patrimoniale comportando il frazionamento del patrimonio fra più figli adottivi. In sostanza, la norma viene ad accentuare le finalità assistenziali dell’adozione a scapito di quelle patrimoniali”.
[25] Quindi non si tratta di una convenienza di natura meramente economica, legata alla finalità successoria, che costituisce lo scopo tradizionale prevalente dell’istituto in oggetto, come si potrebbe desumere dal fatto che, a differenza dell’adozione legittimante e di quella in casi particolari dei minori, la legge non richiede la specificazione dei motivi per i quali s’intende adottare, ma di convenienza che involge anche la sfera morale dell’adottando, che dovrà essere il portatore futuro dell’identità di colui che l’adotta, tramite l’aggiunta del cognome di quest’ultimo.
[26] V. Napoli A., Adozione, in La nuova legge sull’adozione, Milano, 2000, pagg. 202 ss.
[27] La regola è contenuta all’interno del quinto comma dell’art. 298 del codice civile. Specifica in proposito Thomas R., L’adozione, Milano, 2005, pag. 357., L’adozione, Milano, 2005, pag. 368: “Tali effetti sono sostanzialmente simili a quelli previsti nell’ipotesi di adozione in casi particolari (…). Pertanto, anche nella fattispecie in oggetto, a differenza delle ipotesi di adozione di minori a carattere legittimante, (…), l’adozione ordinaria di soggetti maggiorenni non farà acquisire lo status di figlio legittimo da parte dell’adottato nei confronti del suo adottante, con tutte le relative conseguenze, in particolare, quella dell’assunzione esclusiva del cognome dell’adottante e la rottura definitiva di ogni rapporto giuridico con la famiglia di origine”.
[28] V. Campanato G., Rossi V., Manuale dell’adozione nel diritto civile, penale, del lavoro, amministrativo, tributario, Padova, 2003, pag. 85: “L’assunzione del cognome dell’adottante da parte dell’adottato è tra i più importanti effetti dell’adozione e rappresenta l’indice più evidente del nuovo status dell’adottato e il segno della sua appartenenza alla famiglia dell’adottato. Il doppio cognome dell’adottato documenta il suo doppio status familiare mentre l’anteposizione del cognome dell’adottante a quello dell’adottato indica la prevalenza accordata dal legislatore al rapporto adottivo”.
Si noti inoltre che la questione è stata affrontata dalla Corte costituzionale (sent. 120 del 2001), la quale ha affermato che l’anteposizione del cognome dell’adottante a quello dell’adottato non è contrastante con la costituzione. Tale precedenza, secondo il giudice costituzionale, non appare irrazionale e non costituisce la violazione di un diritto della personalità.
[29] Si noti che il fatto che il cognome adottivo venga anteposto a quello originario, anziché posposto, come era nella precedente disciplina – se è segno della rilevanza pubblicistica dell’istituto anche nei confronti dei terzi, volendo il legislatore il suo inserimento, per evidenziare l’entità della famiglia adottiva, attraverso il suo distintivo esteriore precipuo – non pare ad alcuni opportuno perché muta profondamente l’identità dell’adottato, che, essendo il soggetto maggiorenne, è anche un’identità radicata negli anni.
[30] V. Campanato G., Rossi V., Manuale dell’adozione nel diritto civile, penale, del lavoro, amministrativo, tributario, Padova, 2003, pag. 91: “La domanda di revoca dell’adozione va proposta con citazione ordinaria ad istanza dell’adottante o dell’adottato, a seconda che sia fondata sull’indegnità del secondo o del primo. Se l’adottato è un interdetto, l’azione deve essere promossa dal tutore; se è un inabilitato non è necessaria l’assistenza del curatore”.
[31] Occorre tuttavia precisare che non è necessario che il fatto imputabile all’adottato sia la morte dell’adottato; è necessario che la revoca sia disposta per il verificarsi di una delle fattispecie previste dall’art. 306.
[32] Peraltro la norma riporta un singolare refuso. Nel testo infatti manca di coordinarsi con il testo dell’art. 313 del codice civile, e cita ancora il decreto, anziché la sentenza di adozione. È tuttavia pacifica l’interpretazione per cui la parola decreto debba essere letta come “sentenza”. Nota questo aspetto Campanato G., Rossi V., Manuale dell’adozione nel diritto civile, penale, del lavoro, amministrativo, tributario, Padova, 2003, pag. 84: “Il riferimento alla forma del decreto contenuto in tale disposizione, come in ogni altra disposizione dello stesso articolo, deve ritenersi sostituito dal riferimento alla forma della sentenza. L’art. 30 della legge n. 149 del 2001 ha infatti modificato l’art.. 313 del codice civile prevedendo che il tribunale provvede con sentenza decidendo di far luogo o non far luogo all’adozione. Nessun riferimento la legge di modifica fa all’art. 298, ma la sostituzione della dicitura decreto con quella di sentenza anche all’art. 298 è consequenziale alla modifica dell’art. 313”.
[33] Cfr. Galgano F., Diritto privato, Padova, 2006, pag. 851 ss.
[34] V. Campanato G., Rossi V., Manuale dell’adozione nel diritto civile, penale, del lavoro, amministrativo, tributario, Padova, 2003, pag. 77: “La Corte costituzionale ha ritenuto che la tutela dei figli legittimi o legittimati non abbia ragione di essere quando essi esprimano il consenso all’adozione. Conseguentemente ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il comma 1 dell’art. 291 nella parte in cui non consentiva l’adozione a persone che avessero discendenti legittimi o legittimati maggiorenni e consenzienti”
[35] V. Thomas R., L’adozione, Milano, 2005, pag. 357., L’adozione, Milano, 2005, pag. 360: “Invero la Corte costituzionale rilevava che la precedente sentenza n. 557 del 1988, aveva dichiarato la illegittimità costituzionale della norma citata nella parte in cui non consentiva l’adozione a persone che avessero discendenti legittimi o legittimati maggiorenni e consenzienti”.
[36] La sentenza è integralmente riportata sul sito internet della Corte costituzionale: www.cortecostituzionale.it
[37] Aggiunge Thomas R., L’adozione, Milano, 2005, pag. 360: “(…) evenienza niente affatto esclusa né resa improbabile dal raggiungimento della soglia dei diciotto anni da parte dell’adottando, sensibilmente più lungo essendo oggi, di regola, il periodo di permanenza dei figli presso i genitori”.
[38] V. Thomas R., L’adozione, Milano, 2005, pag. 357: “In una tale situazione peculiare, l’interesse patrimoniale dei figli dell’adottante deve ritenersi subordinato rispetto alla finalità di assicurare legami più stabili all’interno della famiglia di accoglienza, nello specifico interesse anche di costoro, oltre che dell’adottando, sebbene l’adozione costituisca un rapporto personale tra adottato ed adottante”.
[39] Si veda ad esempio la sentenza del Tribunale dei Minori di Cagliati, nel 25 settembre 1982, riportata in Diritto della famiglia e delle persone, 1982, pagg. 1352 ss.
[40] Cfr. Campanato G., Rossi V., Manuale dell’adozione nel diritto civile, penale, del lavoro, amministrativo, tributario, Padova, 2003, pagg. 77 ss.
[41] V. Campanato G., Rossi V., Manuale dell’adozione nel diritto civile, penale, del lavoro, amministrativo, tributario, Padova, 2003, pag. 86: “La deroga alla regola generale, che vuole che il cognome dell’adottante si aggiunga a quello dell’adottato, veniva giustificata con la considerazione che il figlio naturale non riconosciuto non ha un proprio status familiare”.
[42] Nel secondo caso, invece, la norma dispone che il figlio naturale riconosciuto che sia successivamente adottato assume il cognome dell’adottante. La norma non precisa se il cognome dell’adottante viene assunto in sostituzione o in aggiunta a quello proprio, ma il confronto della disposizione in esame con quella relativa ai figli non riconosciuti, nella quale si precisa espressamente che essi acquistavano solo il cognome dell’adottante poteva far ritenere che i figli riconosciuti non perdevano il proprio cognome, ma aggiungevano al proprio, anteponendolo, il cognome dell’adottante, in applicazione del principio generale.
[43] Nel caso di specie poi non solo l’interessato aveva sempre usato il suo cognome e l’aveva trasmesso anche ai propri figli, ma tale segno distintivo si era radicato nel contesto sociale in cui egli viveva, sicché precludere all’adottato la possibilità di mantenerlo si risolveva in un’ingiusta privazione di un elemento della sua personalità”.
[44] Nella medesima sentenza il giudice ha chiarito che il termine massimo per far valere i vizi del consenso (nel caso di specie si discuteva della violenza morale sull’adottante) in mancanza di espressa previsione, è quello quinquennale fissato in generale dall’art. 428 del codice civile in tema di incapacità naturale, la cui disciplina è applicabile anche ai negozi di contenuto non patrimoniale e quindi anche ai negozi familiari, attesa l’affinità dei due vizi e considerato l’interesse del minore alla certezza dello stato.
[45] Secondo l’interpretazione della Corte allora siffatto decreto ha natura di provvedimento decisorio e definitivo, ed i vizi processuali e sostanziali che lo inficiano ne determinano la nullità e si convertono in motivi di impugnazione e possono essere fatti valere esclusivamente con il mezzo di impugnazione previsto dall’ordinamento. La conseguenza è che la decadenza dell’impugnazione comporta che gli stessi, in applicazione del principio posto dall’art. 161 del codice di rito, non possono essere più dedotti, neppure con la actio nullitatis, esperibile nei limitati casi in cui una pronuncia sia stata emessa in assoluta carenza di potere giurisdizionale, in riferimento ad un provvedimento che si configura come abnorme.
[46] La sentenza viene commentata approfonditamente da Campanato G., Rossi V., Manuale dell’adozione nel diritto civile, penale, del lavoro, amministrativo, tributario, Padova, 2003, pagg. 76 ss.
[47] Cfr. Campanato G., Rossi V., Manuale dell’adozione nel diritto civile, penale, del lavoro, amministrativo, tributario, Padova, 2003, pagg. 75 ss.

Sgueo Gianluca

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