L’INSOLVENZA TRANSFRONTALIERA AI SENSI DEL REGOLAMENTO CE N. 1346/2000. ASPETTI GENERALI E BREVI CENNI ALL’INSOLVENZA DEI GRUPPI DI SOCIETÀ.

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L’attività imprenditoriale, fin dagli inizi della sua diffusione, si è contraddistinta per l’assenza di limiti e barriere di carattere territoriale . In particolare, negli ultimi decenni, la globalizzazione dei mercati ha dettato l’agenda del sistema economico e commerciale internazionale.

Indubbiamente, l’apertura delle frontiere ha permesso – e permette tuttora – un aumento della mobilità d’imprese e capitali, per cui la gran parte degli affari si svolge a livello internazionale.

Ne deriva, pertanto, che la crisi che può colpire un’impresa non resta confinata all’interno dell’ordinamento statale proprio dell’impresa stessa e le sue conseguenze si estendono oltre i confini dello Stato in cui l’impresa ha la sua sede principale.

Ecco, dunque, che da più parti è stata espressa la necessità di realizzare un coordinamento tra gli ordinamenti statali in tema di disciplina e regolamentazione  dei rapporti giuridici in caso di crisi (o, meglio, di fallimenti e procedure concorsuali) aventi risvolti transfrontalieri, soprattutto alla luce del cambiamento del regime giuridico delle grandi imprese.

Infatti, l’introduzione del Mercato Unico ha spinto le imprese a stabilire sedi estere sotto forma di filiali e succursali, instaurando con queste una rete di rapporti giuridici.

Nel corso degli anni, sia i legislatori nazionali che sovranazionali hanno elaborato convenzioni bilaterali e plurilaterali ed emanato normative interne per regolamentare la materia fallimentare transfrontaliera, tuttavia con scarsi risultati.

Così, a fronte della pressante esigenza di dare una soluzione a tutti quei problemi concreti che incidono profondamente sul tessuto sociale ed economico del sistema del commercio internazionale – e specialmente del mercato interno comunitario – in presenza della crisi dell’impresa sovranazionale, l’Unione europea, seppur dopo anni di discussioni e di tentativi, è intervenuta allo scopo di creare una disciplina di raccordo.

In nome della cooperazione giudiziaria in materia civile, al fine di soddisfare l’esigenza del buon funzionamento del mercato interno  ed utilizzando come base giuridica il Trattato di Amsterdam[1], si è giunti a varare un atto normativo che riveste particolare importanza soprattutto per il rilievo socio-economico della materia regolamentata: si tratta del Regolamento 1346/2000 relativo alle procedure di insolvenza.

Questo testo normativo sostituisce non solo la Convenzione comunitaria del 1995, ma anche le convenzioni bilaterali e multilaterali eventualmente esistenti tra i diversi Stati dell’Unione europea, trovando applicazione in tutti i casi di procedure d’insolvenza aperte nei paesi dell’Unione europea (ad eccezione della Danimarca) dal 31 maggio 2002, giorno della sua entrata in vigore.

Per quanto concerne il campo di applicazione della disciplina comunitaria, questo è definito espressamente nel primo capitolo del regolamento. Ai sensi dell’art. 1, par. 1, quindi, il regolamento si applica “alle procedure concorsuali fondate sull’insolvenza del debitore che comportano lo spossessamento parziale o totale del debitore stesso e la designazione di un curatore”.

In tal modo, l’applicazione del regolamento è subordinata alla contemporanea soddisfazione di quattro caratteristiche: la concorsualità; l’insolvenza del debitore; lo spossessamento totale o parziale del debitore; la designazione di un curatore.

 Il par. 2 dello stesso articolo precisa, inoltre, che il regolamento non troverà applicazione nelle “procedure di insolvenza che riguardano le imprese assicuratrici o gli enti creditizi, le imprese d’investimento che forniscono servizi che implicano la detenzione di fondi o di valori mobiliari di terzi”, né gli organismi di investimento collettivo. Ciò perché, come si legge nel preambolo, a tali imprese “si applica un regime particolare e le autorità nazionali hanno, in alcuni casi, poteri di interventi estremamente ampi” (considerando n. 9).

Da tale definizione emerge, inoltre, che il regolamento non distingue a seconda che il debitore sia un imprenditore commerciale o meno, né a seconda che la procedura sia gestita da un’autorità amministrativa o giurisdizionale.

Il primo dato caratterizzante riguardo al campo d’applicazione è che si deve trattare di una procedura concorsuale. Ne deriva che restano al di fuori dell’ambito di operatività del regolamento le procedure esecutive singolari, che l’ordinamento disciplina e che potrebbero anche avere ad oggetto l’intero patrimonio del debitore.

Il secondo dato è che la procedura si deve fondare sull’insolvenza del debitore. È interessante evidenziare che nell’art. 2, nel quale vi sono diverse definizioni, non si contempla l’insolvenza, per cui, premesso che con tale termine si può genericamente indicare la crisi che colpisce il debitore, si deve sottolineare che l’insolvenza sarà determinata in base al diritto dello Stato che apre la procedura .

Il terzo dato consiste nel fatto che la procedura deve comportare lo spossessamento del debitore, ossia deve prevedere che l’amministrazione del patrimonio sia devoluta ad un’altra persona, o totalmente o anche parzialmente.

Il quarto, ed ultimo, dato concerne invece il procedimento, che deve portare alla nomina di un curatore, cioè di un soggetto al quale deve essere affidata l’amministrazione, la sorveglianza o la liquidazione del patrimonio del debitore.

Questi dati costituiscono le condizioni necessarie perché il regolamento possa operare, anche se non sono poi sufficienti, perché la “procedura concorsuale di insolvenza” deve essere inserita nell’allegato A del regolamento ed il curatore deve essere individuato nell’allegato C.

Di fondamentale importanza, ai fini della definizione dei criteri di competenza, risulta essere l’art. 3 del regolamento rubricato “Competenza internazionale”.

Tale articolo si apre affermando che “sono competenti ad aprire la procedura di insolvenza i giudici dello Stato nel cui territorio è situato il centro degli interessi principali del debitore. Per le società e le persone giuridiche si presume che il centro degli interessi principali sia, fino a prova contraria, il luogo in cui si trova la sede statutaria” (art. 3 comma 1).

Nel 2°comma si prosegue così: “Se il centro degli interessi principali del debitore è situato nel territorio di uno Stato membro sono competenti ad aprire una procedura d’insolvenza nei confronti del debitore solo se questi possiede una dipendenza nel territorio di tale altro Stato membro. Gli effetti di tale procedura sono limitati ai beni del debitore che si trovano in tale territorio”.

Dalla lettura di queste disposizioni si evince, quindi, che le regole in tema di competenza internazionale sono impostate sulla distinzione tra il luogo in cui è situato il centro degli interessi principali del debitore e il luogo in cui egli possiede una dipendenza.

Così, nello Stato membro del centro degli interessi principali può essere aperta la procedura che aspira ad avere carattere universale ed è pertanto definita “principale”; mentre nello Stato membro in cui è localizzata la dipendenza può essere aperta una procedura territoriale, limitata ai beni che si trovano nel territorio di tale Stato. Se è già aperta la procedura principale, la procedura territoriale è qualificata come secondaria ed ha necessariamente carattere liquidatorio .

Il regolamento affida alla giurisprudenza la concretizzazione di ciò che debba intendersi per centro degli interessi principali (il cosiddetto COMI, secondo l’acronimo inglese “centre of main interests”) del debitore, limitandosi ad introdurre una presunzione fino a prova contraria che, per le società e le persone giuridiche, esso coincida con la sede statutaria. Ciò non esonera il giudice dal verificare d’ufficio se il COMI della società coincida effettivamente con la sede statutaria.

La giurisprudenza italiana ed internazionale dall’entrata in vigore del regolamento comunitario, ha chiarito che per COMI deve intendersi il luogo in cui il debitore esercita in modo abituale e riconoscibile dai terzi la gestione dei suoi interessi.

Si tratta di una definizione che, valorizzando gli elementi oggettivi della stabilità e della continuità nel tempo della gestione, nonché della sua effettività e della sua trasparenza nei confronti dei terzi, i quali devono essere messi in grado di conoscere tale luogo, appare funzionale a garantire la certezza del diritto e la prevedibilità nell’individuazione del giudice competente.

La giurisprudenza ha, inoltre, chiarito che la verifica necessaria ad individuare l’ubicazione del COMI deve essere condotta dal giudice, in concreto, sulla base dei dati fattuali di cui dispone. In nessun caso, comunque, può attribuirsi rilevanza decisiva alla circostanza che in un determinato luogo sono situati beni aziendali o ha luogo l’attività produttiva.

Nell’esigere la riconoscibilità della diversa sede della società da parte dei terzi, si sostiene che debba farsi riferimento non alla posizione del complesso dei creditori sociali, bensì alla cerchia più ampia di soggetti che, per il solo fatto di operare nel medesimo settore economico, anche quali consumatori o lavoratori, risultano potenzialmente suscettibili di entrare in contatto con la società e vantare nei suoi confronti delle pretese creditorie.

Altro aspetto di grande rilevanza è quello riguardante la legge applicabile. Il regolamento stabilisce, per le procedure di insolvenza che rientrano nella sua sfera di applicazione, norme uniformi di conflitto di legge che sostituiscono le norme nazionali di diritto internazionale privato.

A tal proposito, la norma generale, applicabile sia alla procedura principale che alle procedure secondarie, è stabilita all’art. 4, il quale indica la legge regolatrice della procedura di insolvenza e dei suoi effetti: salvo disposizione contraria del medesimo regolamento, tale legge è quella dello Stato membro nel cui territorio è aperta la procedura (lex fori concursus). In forza dell’art. 4, pertanto, la legge dello Stato di apertura del procedimento regola tutti gli effetti di questo, sia processuali che sostanziali, sui soggetti e le relazioni giuridiche interessate dalla procedura: tale legge, quindi, stabilisce le condizioni di apertura, regola lo svolgimento e disciplina la chiusura della procedura di insolvenza.

La lex fori concursus determina, tra l’altro, secondo l’elencazione contenuta nell’art. 4 par. 2 del regolamento, i debitori che per la loro qualità possono essere assoggettati ad una procedura di insolvenza; i beni che sono oggetto di spossessamento e la sorte dei beni acquisiti dal debitore dopo l’apertura della procedura d’insolvenza; i poteri, rispettivamente, del debitore e del curatore; le condizioni di opponibilità della compensazione; gli effetti della procedura di insolvenza sulle azioni giudiziali individuali; i crediti da insinuare nel passivo del debitore e la sorte di quelli successivi all’apertura della procedura di insolvenza; le disposizioni relative all’insinuazione, alla verifica e all’amministrazione dei crediti; le disposizioni relative alla ripartizione del ricavato della liquidazione dei beni; il grado dei crediti e i diritti dei creditori che sono stati in parte soddisfatti dopo l’apertura della procedura di insolvenza in virtù di un diritto reale o a seguito di compensazione; le condizioni e gli effetti della chiusura, in particolare, mediante concordato, della procedura d’insolvenza; i diritti dei creditori dopo la chiusura della procedura d’insolvenza; l’onere delle spese derivanti dalla procedura; le disposizioni relative alla nullità, all’annullamento o all’inopponibilità degli atti pregiudizievoli per la massa dei creditori.

L’applicazione della lex concursus incontra, invero, una serie di limiti volti a tenere conto della possibile interferenza tra questa e le leggi regolatrici di rapporti interessati dalla procedura di insolvenza.

In una serie di casi, dunque, il regolamento sottrae alcuni diritti su beni situati in Stati membri diversi da quello di apertura, o anche alcuni rapporti, dallo spazio di operatività della lex concursus, per rimettere a una legge diversa la disciplina degli effetti su di essi dell’apertura di una procedura di insolvenza. Tra gli esempi in cui ciò avviene si possono annoverare i diritti reali dei terzi, la compensazione, la riserva di proprietà, i contratti di lavoro, i diritti soggetti ad iscrizione in pubblici registri, i diritti dei terzi acquirenti a titolo oneroso dopo l’apertura della procedura di beni immobili o di beni mobili registrati già di proprietà dell’insolvente.

In sintesi, quindi, il sistema delineato dal regolamento si basa sulla regola generale che postula l’applicazione della legge dello Stato membro sul cui territorio è aperta la procedura, contenuta nell’art. 4 par. 1 e sulle regole previste dall’art. 5 all’art. 15 che, per specifiche questioni, derogano alla regola dell’art. 4.

Si può affermare che tra la norma dell’art. 4 e ciascuna delle disposizioni contenute negli articoli successivi esiste un rapporto di specialità. La lex concursus, infatti, trova applicazione “salvo disposizione contraria del presente regolamento”; pertanto per tutti i casi in cui non è prevista una regola speciale, si applicherà la regola generale.

La dottrina ha, inoltre, evidenziato che – in alcune delle disposizioni contenute negli articoli da 5 a 15 del regolamento – il legislatore comunitario non si è limitato a stabilire criteri uniformi per individuare la legge applicabile a determinate fattispecie attraverso l’enunciazione di criteri di collegamento, ma ha introdotto norme che possono definirsi di carattere materiale uniforme, spingendosi a regolamentare direttamente alcuni rapporti giuridici, in ambito comunitario, con norme sostanziali che si inseriscono negli ordinamenti nazionali sostituendosi ad eventuali norme preesistenti .

La ratio di tale scelta risiede nel voler sottrarre determinati rapporti giuridici, particolarmente delicati, agli effetti dell’apertura della procedura d’insolvenza, come avviene nelle ipotesi contemplate nell’art. 5 in tema di diritti reali e nell’art. 7 in tema di riserva di proprietà.

Si tratta di una serie di disposizioni normative molto complesse che differiscono profondamente nel loro contenuto, atteso che, mentre alcune di esse costituiscono vere e proprie norme di diritto internazionale privato uniforme, che utilizzano la tecnica classica dell’individuazione di un unico criterio di collegamento posto direttamente dal regolamento, o che, pur utilizzando il rinvio ad un diverso criterio di collegamento, lo individuano con riferimento ad una norma di conflitto c.d. di secondo grado, altre norme, invece, maggiormente innovative, si spingono esse stesse a disciplinare gli effetti dell’apertura di una procedura d’insolvenza transfrontaliera sui singoli rapporti ivi contemplati.

Tutte queste norme, infatti, fanno riferimento a criteri di collegamento precisamente individuati dal regolamento, rispettivamente, con riferimento alla legge dello Stato membro ove si trova l’immobile (lex rei sitae), alla legge dello Stato membro sotto la cui autorità si tiene il registro, o alla legge dello Stato membro presso cui pende il procedimento giudiziario.

Appartengono, altresì, alla medesima categoria di norme di diritto internazionale privato anche le norme di cui all’art. 6 sulla compensazione, all’art. 9 sui sistemi di pagamento e mercati finanziari, ed all’art. 10 relativo ai contratti di lavoro. Anche in tali casi, infatti, per individuare la legge applicabile al singolo rapporto si fa riferimento ad una diversa norma di conflitto che, sebbene non sia individuata direttamente nel regolamento, va ricercata attraverso un richiamo ad una norma preesistente, con riferimento, rispettivamente, alla legge applicabile al credito del debitore insolvente, o alla legge dello Stato membro applicabile a tale sistema di pagamento o a tale mercato, o infine alla legge dello Stato membro applicabile al contratto di lavoro.

Appartengono, invece, alla seconda categoria le norme di cui agli artt. 5, 7, 12 e 13 che appaiono particolarmente interessanti per la tecnica normativa utilizzata dal legislatore comunitario.

In particolare, ai sensi dell’art. 5, l’apertura della procedura non pregiudica i diritti reali del creditore o del terzo su beni mobili o immobili, materiali o immateriali, di proprietà del debitore che si trovano, al momento dell’apertura della procedura nel territorio di uno Stato membro.

Ciò significa che, pur spettando alla legge dello Stato d’apertura stabilire quali beni fanno parte della massa attiva, e potendo il curatore acquisire tali beni anche se situati all’estero, tuttavia, il titolare del diritto reale conserva tutti i suoi diritti sul bene in questione, potendo soddisfarsi su di esso senza subire gli effetti della procedura, e correlativamente, il curatore ha diritto di rispettare tali diritti.

Dall’analisi di tali disposizioni, emerge che il Regolamento – al fine di stabilire un meccanismo di cooperazione internazionale che costituisca una valida risposta alle esigenze principali delle parti coinvolte in una procedura d’insolvenza, vale a dire in primis il debitore insolvente e i suoi creditori – ha fatto riferimento ad un modello in cui si armonizzano i principali aspetti degli schemi classici utilizzati in materia di insolvenza transnazionale.

Pertanto, ad elementi ispirati ai principi di “universalità” e di “unicità” del fallimento si uniscono elementi facenti riferimento ai principi di “territorialità” della procedura, in un’ottica di conciliazione dei vantaggi di entrambi i modelli.

L’intento fondamentale è quello di evitare che le parti siano incentivate dalla difformità di disciplina a spostare beni o procedimenti giudiziari da uno Stato membro all’altro, per migliorare la loro posizione giuridica o alla ricerca del tribunale potenzialmente (più) favorevole davanti a cui è “ conveniente” promuovere il giudizio, secondo l’invalsa prassi  del “forum shopping”.

Proprio per questa ragione, il regolamento comunitario è ispirato al principio di universalità, in base al quale la procedura d’insolvenza colpisce tendenzialmente tutti i beni del debitore indipendentemente dal luogo in cui essi si trovino, sempre all’interno dell’Unione europea, e produce negli altri Stati membri gli effetti previsti nello Stato in cui essa è aperta. Tale principio è temperato, poi, dalla possibilità di aprire procedure di insolvenza territoriali, i cui effetti si esplicano limitatamente ai beni collocati nel territorio dello Stato membro in cui tali procedure sono aperte.

Senza dubbio, attraverso il regolamento, l’Unione europea ha dettato una disciplina armonizzata in materia di fallimento, integrando un quadro che si presentava alquanto frammentato, caratterizzato da varie discipline nazionali che regolavano le procedure concorsuali internazionali, con la conseguenza di un elevato rischio di violazione del principio di parità di trattamento dei creditori nelle diverse giurisdizioni e anche di una mancanza di certezza del diritto.

Viene da sé che l’adozione del regolamento si inserisce nel quadro programmatico comunitario, come una tappa di quel percorso di armonizzazione tra gli Stati membri dei principi in materia commerciale, che ha segnato sin dalle origini l’agenda dell’Unione europea.

La scelta del regolamento come strumento normativo appare, inoltre, particolarmente significativa sia sul piano politico che della tecnica legislativa. È noto, infatti, che i regolamenti in diritto comunitario sono – per definizione – caratterizzati dalla portata generale, dalla obbligatorietà e dall’applicabilità diretta: essi sono prescrittivi genericamente nei confronti di tutti i consociati, la loro efficacia vincolante non dipende da atti nazionali di ricezione ovvero di attuazione nei vari ordinamenti interni  e, infine, i giudici nazionali sono tenuti ad applicarli così come applicano le loro rispettive leggi interne.

Il regolamento in esame costituisce, dunque, un esempio pratico della “comunitarizzazione” messa in atto dal legislatore comunitario, al fine di giungere ad una uniformità di fondo tra le normative degli Stati membri.

È bene precisare, tuttavia, che le normative nazionali sull’insolvenza variano profondamente da Stato a Stato anche all’interno del territorio comunitario; per cui qualsiasi tentativo di dar vita ad un codice onnicomprensivo in materia fallimentare per i Paesi membri dell’Unione europea appariva, ed appare tuttora, un obiettivo formidabile, pressoché impossibile.

Per queste ragioni, il regolamento comunitario n. 1346/2000 tenta di fornire degli strumenti per risolvere le questioni sull’insolvenza transnazionale. Questo appare, essenzialmente, come una codificazione di principi di diritto internazionale privato, che prevede un sistema per determinare il centro principale degli interessi del debitore, stabilendo così la giurisdizione internazionale dello Stato membro in cui esso è situato.

In sostanza, quindi, il regolamento comunitario fornisce un metodo per stabilire la legge del Paese che dovrà essere applicata.

Poiché è stato evidente fin da subito che la totale armonizzazione delle svariate normative nazionali era un compito troppo arduo, il legislatore comunitario ha optato per un generale mutuo riconoscimento delle procedure fallimentari nazionali nell’intero territorio comunitario.

Pertanto, una volta che è stato individuato lo Stato membro competente, sarà la legge di quello Stato ad essere interamente applicata, sia per quanto riguarda le questioni sostanziali, sia per quelle procedurali. Il regolamento comunitario potrebbe essere nuovamente chiamato in causa nell’ipotesi in cui vi sia un altro Stato membro competente, in ragione del fatto che sul suo territorio il debitore eserciti delle attività economiche ed abbia, quindi, con tale Stato una dipendenza.

L’introduzione di tale strumento normativo ha, pertanto, sancito il superamento della logica delle convenzioni internazionali, diretta ad evitare il concorso fra le due giurisdizioni, attribuendo il potere di dichiarare il fallimento a una sola di esse e riconoscendo l’efficacia delle dichiarazione di fallimento nei due Paesi, ma con delle limitazioni.

Il regolamento tende, al contrario, in vista della dimensione transnazionale delle imprese, a consentire l’attività concorrente delle giurisdizioni: sicché, ferma restando l’efficacia negli altri Stati dell’Unione della dichiarazione di fallimento pronunciata dall’autorità giurisdizionale di uno Stato membro, l’assenza della sede principale dell’impresa non impedisce ai giudici di uno Stato (in cui vi siano beni del debitore) di aprire una procedura locale di insolvenza. In sostanza, ribadito il principio della libera circolazione dei provvedimenti giurisdizionali per cui ogni Stato deve garantire al provvedimento emesso in un altro Stato membro la stessa efficacia che assiste quelli interni, si consente ai giudici di uno Stato di non fermarsi per carenza di giurisdizione quando l’imprenditore insolvente abbia la sua sede in diverso Stato dell’Unione, realizzando così un’efficace cooperazione per la tutela dei creditori.

Come evidenziato, il regolamento n. 1346/2000 rappresenta, senz’altro, un utile strumento di armonizzazione delle controversie in materia fallimentare per gli Stati membri dell’Unione, tuttavia presta il fianco ad alcune, inevitabili, critiche.

Una tra tutte riguarda l’assenza di una previsione normativa in tema di insolvenza dei gruppi di società.

Molto spesso l’attività di impresa viene esercitata facendo ricorso allo strumento societario e, in particolare, al gruppo di società, soprattutto nel caso in cui questo sia destinato ad operare in una pluralità di Paesi.

La mancanza di una disciplina dell’insolvenza dei gruppi di società nel regolamento comunitario e, di conseguenza, di una forma di coordinamento tra procedure aperte nei confronti di diverse società debitrici facenti parte del medesimo gruppo di società costituisce una grossa lacuna, stante la diffusione del fenomeno dei gruppi societari.

La necessità di dotare il regolamento di una disciplina sul tema non è stata, però, ignorata in ambito comunitario. Di recente, infatti, la Commissione Europea nella proposta per la revisione del regolamento n. 1346/2000, approvata il 12 dicembre 2012[2], ha suggerito di dare avvio ad un coordinamento delle procedure relative a ciascuna società del gruppo, aperte nei diversi stati membri, obbligando i liquidatori e le Corti a cooperare in modo analogo a quanto previsto nell’ambito della procedura principale e di quelle secondarie. La proposta prevede, inoltre, che i liquidatori scambino le informazioni rilevanti (ad esempio quelle che riguardano le insinuazioni ed ammissioni dei crediti) e cooperino nell’elaborazione del piano di risanamento o di riorganizzazione.

La cooperazione può avvenire anche tramite la stipulazione di protocolli di accordo tra le diversi procedure.

Le Corti potranno collaborare attraverso lo scambio di informazioni, la nomina coordinata dei liquidatori e l’approvazione dei protocolli d’intesa loro sottoposti dai liquidatori stessi. Questi ultimi hanno, altresì, il diritto di essere ascoltati nei procedimenti connessi relativi alle altre società del gruppo e, soprattutto, di chiedere la sospensione di tali procedimenti e di proporre, anche nei procedimenti connessi, un piano di riorganizzazione, nonostante l’opposizione del liquidatore nominato in tali procedimenti.

Da quanto evidenziato, emerge che la soluzione elaborata dalla Commissione nella proposta di revisione ha privilegiato la strada del coordinamento delle procedure relative alle diverse società di un medesimo gruppo, piuttosto che individuare la competenza di un solo Stato membro, come ad esempio quello della sede della capogruppo[3].

Tale scelta risponde, da un lato, alla difficoltà di rintracciare una formula accettata dalla totalità dei Paesi membri –  consentendo così il superamento di alcune resistenze ad una previsione normativa in tema di gruppi di società – dall’altro alla presa di coscienza dell’impossibilità di giungere ad una disciplina transfrontaliera dell’insolvenza di gruppo.

In conclusione, la proposta della Commissione riguardo all’insolvenza dei gruppi di società rappresenta, certamente, un importante punto di partenza, stante l’assoluta lacuna regolamentare sul punto.

È necessario, tuttavia, prendere atto che i tempi per una normativa uniforme e di ampia portata su questa delicata materia non sono ancora maturi.

Francesca Frisullo

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