L’etica nella giustizia globale

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In quest’ultimi decenni con la spinta globale intervenuta a seguito dello sviluppo tecnologico e della caduta dei muri ideologici, si è cominciato a discutere su una giustizia che superasse il paradigma realista della giustizia domestica degli stati proiettandosi verso attori politici internazionali (Ottonelli – Poggi), è sorta la necessità di ridefinire l’elenco dei diritti umani e la loro funzione, ci si è quindi concentrati o su una funzione programmatica di principi e valori propri di ogni essere umano (Beitz) o, piuttosto, come una misurazione econometria di standard minimi di decenza necessari a evitare interventi esterni (Raz), quest’ultima interpretazione è diventata oggetto di critica in quanto possibile copertura ideologica per interferenze economiche sotto la richiesta di interventi apparentemente “umanitari”(Caney).

Problematiche analoghe si sono ripetute nella individuazione dei diritti tutelabili attraverso la formazione di elenchi “minimalisti” o “massimalisti”, infatti ad una teoria per cui è bene limitarne la lista ad un nucleo ristretto relativo a forme gravi di danno e violenza che ne rende più facile la tutela secondo un accordo universale (Ignatieff), dovendo questi possedere i caratteri di urgenza e inderogabilità, si è contrapposta una teoria che vede in un elenco più esteso un valore programmatico e quindi regolativo (Beitz), non disgiunta dall’osservazione pratica per cui una effettiva tutela dei diritti di libertà e incolumità è difficilmente attuabile visti i costi e le difficoltà pratiche di intervento, è quindi molto più efficace insistere con le istituzioni internazionali su valori programmatici e regolativi da attuare progressivamente nel tempo (Sen).

Il contrapporsi  di queste teorie ed il dibattito che ne è seguito ha indotto ad alcune riflessioni sulla stessa idea dei diritti umani, spingendo alla tesi estrema per la quale la rivendicazione dei diritti umani comporta una depoliticizzazione degli individui che non fa che favorire e legittimare la violenza e la sopraffazione (Zizek), vi è quindi una forte problematica etica nella rivendicazione ed affermazione dei diritti umani in ambito internazionale, considerata anche l’eventuale sua strumentalizzazione e la proiezione degli stessi tra spazio adiacente (prossimità) e spazi lontani per cui vi è una diversa percezione da parte del singolo.

Alla base dell’organizzazione vi è quella che è stata definita come una “validazione consensuale”, ossia una forma di accordo tra soggetti sulla base di percezioni ed esperienze comuni, tuttavia per sopravvivere questo sistema sociale che persegue obiettivi multipli ha bisogno dell’apporto di altri sottosistemi all’interno di entità più ampie (Hunt), la validazione consensuale fa sì che le percezioni ed esperienze comuni creino una “realtà” di per sé oggettiva necessaria alla formazione di regole per la costruzione, a partire dai comportamenti, di processi sociali necessari ma anche comprensibili agli attori, si hanno quindi strutture dotate di significati (mappe causali) (Weick), in cui i fatti e avvenimenti che appaiono rappresentare un cambiamento diventano spunto per una attività collettiva.

Contrapponendosi alla teoria su base statistica delle contingenze organizzative Weick osserva che anche i fattori ritenuti oggettivi, quale ambiente, tecnologie, dimensioni, sono in realtà il prodotto di scelte e culture umane, si che le organizzazioni appaiono come flussi di esperienze nelle quali le strutture (norme, gerarchie, articolazioni formali, simboli) si collocano ed acquistano vita nell’esperienza dei singoli soggetti, non possedendo una realtà oggettiva, si ha quindi una dimensione soggettiva dell’azione umana nelle organizzazioni (teoria del simbolismo organizzativo), considerando che la logica di qualsiasi organizzazione è l’acquisizione di risorse esterne per la propria sopravvivenza (Thompson).

Se questo avviene per un sub-sistema, allargandone la logica al sistema stesso nella sua interezza, questo risente nell’efficacia della sua azione esterna della omogeneità o al contrario della conflittualità interna non adeguatamente gestita che la rende fragile nelle transazioni con altri sistemi, d’altronde come ci ricorda Offe le società industriali liberal-democratiche reggono su due principi di mediazione: lo stato del welfare e i partiti politici in reciproca competizione, il tutto su risorse che appaiono limitate dal crescere delle richieste e dallo sgretolamento della nozione di bene assoluto e autorità politica a seguito di un incontrollato intreccio con l’economia.

Il cambiamento ha bisogno di essere governato nei suoi caratteri etico, estetico, socio-relazionale e cognitivo, la dimensione etica contiene comportamenti, abitudini ad ordini che esprimono valori di approvazione o disapprovazione riguardo a scopi e azioni, l’etica fornisce modelli di valore nel giudicare la realtà sensibile in cui deve esserci un nesso circolare tra immagine esterna, interna, realtà sociale, etica ed estetica pena una conflittualità ingestibile, in questo l’adattamento avviene attraverso le relazioni sociali di imitazione, adattamento, opposizione (Trade), nella quale si dovrebbe formare un livello di coesione fondato sulla fiducia e la stima.

La cittadinanza nazionale appare quindi di per sé insufficiente a gestire la rilevanza etica e normativa di una crescente prospettiva cosmopolita in cui i flussi migratori ne manifestano sia le problematiche di inclusione che al contempo di conservazione del welfare nelle democrazie avanzate, nonché di contemperanza nei conflitti tra fasce di  popolazioni tutte problematiche per cui vi è una pesante ricaduta sulla percezione dello spazio sociale (Pevnick), da cui  Habermas ne deduce la necessità di pratiche discorsive al fine del rafforzamento delle basi democratiche mediante un “patriottismo costituzionale”, si parla quindi della nascita  di una cittadinanza “post nazionale” che viene ad incidere sulle relazioni fra Stati.

Si ha un parziale sganciamento dell’individuo dall’orbita statuale in favore di una legittimità fondata su interessi che operativamente si manifesta come spazio dei diritti (U.E.), la cittadinanza risulta quindi  in bilico tra contrapposizione come identità e inclusione nella quale emergono le forti relazioni di interdipendenza economica e politica che si sono instaurate a livello internazionale con il conseguente spostamento dei pesi, si ridetermina anche il concetto di giustizia globale con la richiesta di eguaglianza e redistribuzione a livello di aree geografiche contestando la distribuzione fra assistenza e giustizia (Pogge, Nagel), non può tuttavia superarsi la necessità organica delle singole comunità nazionali di conservare i propri livelli di benessere al fine di evitare un declino economico e culturale, vi è pertanto la necessità di evitare l’inversione di fatto del concetto di giustizia globale in “conflitto” tra aree come storicamente si è più volte avverato.

2. Logica, Etica ed Estetica sono gli elementi che compongono l’individuo in quanto essere umano dotato di una propria razionalità ed un sentimento, per logica intendiamo la capacità di coniugare gli “elementi” esistenti in natura o ideati dall’uomo al fine di raggiungere uno “scopo”, vi possono quindi essere varie logiche ognuna di per sé valida a seconda degli “scopi” perseguiti, sull’efficienza produttiva (economiche), utilitariste (finanziarie), di comunicazione (linguistiche), di misurazione e rapporti (matematiche e geometriche), di regolamentazione delle relazioni umane (giuridiche), etc., a sua volta l’etica viene a proiettarsi all’esterno dell’individuo determinandone le modalità dei rapporti relazionali, mentre l’estetica risulta come proiezione interna delle emozioni dell’individuo stesso.

La complessità che ne deriva non è pertanto solo nei rapporti tra le tre discipline ma anche nelle relazioni che si instaurano tra le varie espressioni interne alle stesse discipline, la logica giuridica è quindi solo uno degli elementi che intervengono sia nella creazione della disciplina normativa che nella sua successiva interpretazione ed attuazione con una variazione percentuale degli elementi per ciascun individuo, mediata e filtrata dalla prevalente Cultura, d’altronde la norma trova a sua volta dei limiti nell’atto emotivo, nell’impossibilità di bloccare razionalmente l’azione proveniente dall’impulso interno.

Se finora abbiamo considerato l’aspetto antropologico dell’uomo nei rapporti giuridici vi è ad esso affiancato un orizzonte più ampio, dato dalla complessità delle relazioni umane in cui la normativa acquista una funzione di omeostasi, di correttore degli eccessi secondo fini teleodinamici fissati da una leadership, si tratta di sviluppare un pensiero sistemico nella logica normativa che si risolve in un pensiero di processo su cui viene ad impattare la Cultura dominante, in questo processo la normativa non è che la cristallizzazione delle idee quali schemi integranti derivanti dall’esperienza e che creano, quindi, l’informazione propria della disposizione (Capra).

Il linguaggio anche quello giuridico è, come osserva Bowers, metaforico in quanto trasmette delle conoscenze condivise all’interno di una Cultura la quale può essere anche semplicemente imposta, solo nel momento in cui si verifica il raggiungimento del limite di instabilità la normativa esistente perde la propria coerenza logica a favore di nuove spontanee forme di ordine e nuove logiche.

La lente culturale filtra e fornisce una lettura non solo della realtà esterna, ma anche del modo emozionale interno, su cui interviene la modifica ambientale imposta dalla lotta tecnologica tra modelli e gruppi sociali, l’evoluzione aumenta la complessità e la fragilità del sistema interiore, il sistema normativo fatica pertanto nel mantenere una coerenza logica di sistema nel tempo, con una conseguente fratturazione in cui sempre nuovi riconoscimenti vengono formalmente inseriti, mentre altri si perdono di fatto in un gioco di affermazione tra gruppi e nascite di nuovi mercati.

Dott. Sabetta Sergio Benedetto

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