L’espropriazione per pubblica utilità: dall’occupazione usurpativa all’acquisizione sanante.

David Di Meo 12/02/15
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Il travagliato percorso dell’espropriazione per pubblica utilità dall’occupazione usurpativa all’acquisizione sanante.  

 

Il Consiglio di Stato scongiura la tesi dell’Avvocatura dello Stato secondo cui “l’acquisizione ex art. 42 bis costituirebbe esercizio di un potere amministrativo affrancato dalle esigenze partecipative a motivo del carattere potestativo della scelta rimessa all’amministrazione, salva la possibilità di contestare unicamente il quantum in sede giurisdizionale ordinario”.

Difatti l’esercizio del potere di cui all’art. 42bis T.U. Espropriazioni rientra nell’ambito dell’attività discrezionale, e corrisponde ad esercizio di potere pubblico, quindi niente affatto scontato in ordine all’an e al quantum.

In ragione di ciò, merita un breve cenno la vicenda che attanaglia l’espropriazione per pubblica utilità, quando realizzata in assenza di un provvedimento di dichiarazione di pubblica utilità ovvero del decreto di esproprio (nonché in caso di illegittimità degli stessi).

La P.A., come noto, può occupare temporaneamente anche beni diversi da quelli oggetto dell’espropriazione. Si avrà pertanto occupazione  strumentale qualora sussistano esigenze relative al procedimento espropriativo, come allestire i cantieri, ovvero occupazione d’urgenza preordinata all’espropriazione, in caso di forza maggiore e di assoluta urgenza, con compilazione dello stato di consistenza dei fondi da occuparsi. La funzione dell’istituto dell’occupazione di urgenza, ex art. 22 del Dpr 327 del 2001 è di consentire il legittimo spossessamento dell’immobile, nelle more dell’adozione del provvedimento di esproprio. L’urgenza deve essere tale da non consentire di attendere la fase di determinazione e dell’offerta dell’indennità provvisoria ex art. 20, emanando così l’autorità espropriante un decreto motivato che determini in via provvisoria l’indennità di espropriazione disponendo la contestuale occupazione anticipata dei beni immobili necessari.

In questo ambito si inquadra l’istituto dell’occupazione appropriativa, di creazione pretoria, consistente nell’occupazione da parte della P.A. di un suolo privato in maniera illegittima, data l’assenza iniziale di un provvedimento autorizzativo oppure perché decorsi i suoi termini di efficacia, per realizzare un opera di pubblica utilità. L’Amministrazione ne acquista così la proprietà a titolo originario, per effetto della trasformazione irreversibile del suolo privato. Nel conflitto tra il privato e la P.A. prevarrebbe questa ultima in ossequio alla conservazione dell’opera pubblica per fini interesse collettivo. Il principio civilistico sotteso a tale istituto sarebbe l’accessione invertita ex art. 938 c.c. L’occupazione appropriativa è caratterizzata per la presenza della dichiarazione di pubblica utilità, cui segue necessariamente l’occupazione del suolo da parte della P.A. o di un suo concessionario, nonché la sua trasformazione irreversibile. Qualora durante i termini previsti dalla dichiarazione di P.U. non intervenga il decreto di esproprio e il bene subisce comunque una definitiva e irreversibile trasformazione, si verifica l’acquisto a titolo originario della proprietà da parte dell’Amministrazione. Di conseguenza si produce in capo al privato un illecito aquiliano ex art. 2043 c.c., che la P.A. deve risarcire.

L’occupazione appropriativa implica il sorgere di un’obbligazione di valore, secondo quanto disposto da Corte cost. n. 349 del 2007. Tale meccanismo ha comportato che l’Italia subisse molteplici pronunce di condanna da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, per contrasto con la disciplina sovranazionale[1].

Altro istituto di creazione giurisprudenziale è l’occupazione usurpativa[2], il quale consiste nell’occupazione di un fondo da parte della P.A. per realizzare un’opera pubblica in assenza della dichiarazione di pubblica utilità, oppure quando la dichiarazione di pubblica utilità si stata di seguito annullata ovvero in caso di sopravvenuta sua inefficacia per decorso dei termini previsti per l’esecuzione dell’opera. In queste ipotesi, mancando una dichiarazione di pubblica utilità, la P.A. realizza un illecito extracontrattuale permanente, posto che è sottesa una situazione di carenza di potere in concreto della P.A., mancando addirittura il formale riconoscimento dell’utilità dell’opera.

Sul punto è bene rammentare che l’art. 133, lett. g), C.p.a. attribuisce alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi ad oggetto gli atti, i provvedimenti, gli accordi e “i comportamenti, riconducibili, anche mediatamente, all’esercizio di un pubblico potere”, delle pubbliche amministrazioni in materia di espropriazione per pubblica utilità.

Tale previsione riproduce  la previsione contenuta nell’art. 53, comma 1, del D.P.R. n. 327 del 2001, adeguata alla indicata sentenza n. 191 del 2006  mediante la quale la Corte costituzionale ne dichiarò l’illegittimità  limitatamente alla parte in cui, devolvendo alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie relative a «i comportamenti delle pubbliche amministrazioni e dei soggetti ad esse equiparati», non escludeva i comportamenti non riconducibili, nemmeno mediatamente, all’esercizio di un pubblico potere.

Rimane da valutare se tramite l’esplicita riproposizione -nella disposizione specificamente volta a perimetrare la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo nella materia espropriativa- del riferimento alle controversie concernenti comportamenti anche mediatamente riconducibili all’esercizio del potere il legislatore del 2010 abbia risolto l’unica questione interpretativa sulla quale, quanto al tema dei danni da occupazioni illegittime, non si è registrata una convergenza di posizione tra le magistrature superiori.

Infatti, per individuare il giudice avanti al quale proporre domanda di ristoro per i pregiudizi subiti occorreva distinguere tra:

1) occupazione usurpativa, mai preceduta da dichiarazione di pubblica utilità da portare al vaglio del G.O.;

2) occupazione usurpativa c.d. spuria, preceduta da dichiarazione di pubblica utilità, tuttavia impugnata ed annullata da sottoporre al vaglio del G.A.;

3) occupazione appropriativa, preceduta da dichiarazione di pubblica utilità, tuttavia non seguita dalla tempestiva adozione del decreto di esproprio e quindi venuta meno ex lege, con effetto retroattivo.

Ha invero di recente sostenuto Cass.civ., s.u., 2 luglio 2009, n. 15469, che “sono chiaramente ascrivibili alla giurisdizione ordinaria le forme di occupazione usurpativa, caratterizzate dal tratto che la trasformazione irreversibile del fondo si produce in una situazione in cui una dichiarazione di pubblica utilità manca affatto. E alla stessa conclusione si deve pervenire nel caso in cui il decreto di espropriazione è pur stato emesso, e però in relazione a bene, la cui destinazione ad opera di pubblica utilità la si debba dire mai avvenuta giuridicamente od ormai venuta meno, per mancanza iniziale o sopravvenuta scadenza del suo termine d’efficacia”.

La giurisprudenza ha in seguito affermato che la distinzione tra occupazione acquisitiva e usurpativa ha perso di rilevanza con riferimento alle problematiche connesse con la giurisdizione[3], residuando in capo al G.O. solamente le ipotesi in cui ab origine manchi del tutto una dichiarazione di pubblica utilità dell’opera, così come relativamente al termine di prescrizione, trattandosi comunque di illecito permanente[4]. La sola differenza sussistente è quindi relativa al dies a quo della commissione dell’illecito, che in caso di occupazione usurpativa decorre dal momento dell’immissione in possesso da parte della P.A. mentre in ipotesi di occupazione appropriativa dalla scadenza del termine di occupazione legittima del terreno.

Nel caso di occupazione usurpativa, in considerazione dell’attività del tutto illegale della P.A. non si produce alcun effetto traslativo, e pertanto il proprietario può optare per i normali rimedi petitori e possessori a difesa della proprietà oppure chiedere il risarcimento. Tale ultimo istituto implica tuttavia la rinuncia al diritto di proprietà[5].

Secondo la Corte di Cassazione in ipotesi di occupazioni illegittime, nell’ambito della tutela reale non possono trovare applicazione gli istituti di cui agli artt. 2933, comma 2, e 2058, comma 2, c.c.

L’art. 2933 c.c. non può trovare applicazione poiché si riferisce ai soli obblighi di non fare e quindi non ad azioni restitutorie, inoltre la norma va interpretata in senso restrittivo, riferendosi solamente alle ipotesi di eccezionale imporanza per l’economia nazionale. Inoltre, la tutela riservata ai diritti reali non è applicabile con il risarcimento in forma specifica di cui all’art. 2058 c.c.

Circa il titolare del diritto al risarcimento del danno, la giurisprudenza ha stabilito come sia l’interessato a dover dimostrare in giudizio di essere il proprietario del fondo, a prescindere dalla risultanze catastali[6].

 

Successivamente, anche per adeguarsi ai principi CEDU[7] che inibiscono una espropriazione in carenza di un idoneo titolo legale[8], il legislatore è intervenuto disciplinando la c.d. occupazione provvedimentale o sanante.

In pratica la P.A. avrebbe un potere provvedimentale per acquisire in sanatoria la proprietà di aree occupate in carenza di titolo, tramite atto ablativo formale, escludendo che l’acquisizione possa avvenire per mere vie di fatto[9]. Infatti, a seguito dell’art. 43 Dpr 327 del 2001 (poi dichiarato illegittimo da Corte cost. e riformulato nell’art. 42bis)[10] la P.A. quando utilizza un’area in assenza di valido titolo può adottare un apposito provvedimento, previa valutazione degli interessi in conflitto, decidendo se restituirlo al privato ovvero acquisirlo al proprio patrimonio indisponibile, risarcendo in tal guisa il relativo danno prodotto[11]. Pertanto, non spetta più al proprietario attivarsi in sede giurisdizionale per ottenere il risarcimento, bensì è la P.A. che dovrà offrire un ristoro al soggetto danneggiato, valutando il valore venale del bene quando il fondo è stato occupato sine titulo, oltre agli interessi moratori. Sono quindi condizioni presupposte 1) l’assenza di un valido provvedimento di esproprio o dichiarativo di P.U. utilità, sia ab origine che a seguito di annullamento; 2) l’utilizzazione di un bene immobile per scopi di pubblico interesse; 3) la modifica del bene (e non necessariamente la sua irreversibile trasformazione).

L’effetto traslativo è quindi legato all’eventuale atto con cui l’Amministrazione dispone l’acquisizione. Viene in pratica legalizzata l’espropriazione sostanziale. Tuttavia anche tale istituto è stato censurato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, posto che rimante sotteso sempre un fatto illecito e non viene comunque garantito un giusto ristoro dei danni subiti, ritenendo di fatto l’acquisizione sanante una mera ratifica amministrativa.

Pertanto, la Corte cost. ha dichiarato illegittimo l’art. 43 con sentenza del 8 ottobre 2010, n. 293, per vizio di eccesso di delega.

La giurisprudenza prima del nuovo intervento legislativo del 2011 ha tentato di colmare il vuoto normativo. Per una prima teoria si sarebbe potuto ricorrere all’istituto della “specificazione” ex art. 940 c.c., ove è previsto che: “se taluno ha adoperato una materia che non gli apparteneva per formare una nuova cosa, possa o non possa la materia riprendere la sua prima forma, ne acquista la proprietà pagando al proprietario il prezzo della materia, salvo che il valore della materia sorpassi notevolmente quello della mano d’opera. In questo ultimo caso la cosa spetta al proprietario della materia, il quale deve pagare il prezzo della mano d’opera”[12]. Per altra teoria occorreva restituire al ricorrente il fondo in maniera integrale[13]. Infine, vi era chi propendeva per l’applicazione dell’art. 934 c.c. per il quale tutto ciò che viene edificato al suolo accede di diritto alla proprietà di esso così come l’art. 936 c.c. per cui quando il terzo abbia eseguito opere con materiali propri su fondo altrui, il proprietario può scegliere se acquisirne la proprietà ovvero obbligare il terzo a rimuoverle[14].

Inoltre, al risarcimento doveva comunque essere sotteso un atto traslativo del diritto dominicale, al fine del passaggio della proprietà del bene in capo all’ente espropriante[15].

Con l’art. 34 del D.L. n. 98 del 2011, convertito in legge n. 111 del 2011, che  ha inserito l’art. 42bis nel Dpr 327 del 2001, è stata riaggiornata la disciplina dell’originaria acquisizione sanante. Con tale nuovo istituto la P.A. acquisisce sempre con provvedimento il bene al proprio patrimonio indisponibile, tuttavia senza efficacia retroattiva, corrispondendo al proprietario un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale. Il provvedimento di acquisizione deve essere suffragato da circostanze che hanno comportato l’indebita utilizzazione dell’area, con la data di inizio e l’ammontare del indennizzo, da pagare entro 30 giorni. L’atto deve contenere poi “la motivazione in riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l’adozione, valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati ed evidenziando l’assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione”. L’atto viene notificato al proprietario e con ciò si realizza il passaggio di proprietà sotto condizione sospensiva del pagamento delle somme.

Per il Consiglio di Stato a seguito dell’introduzione dell’art. 42bis, una volta adottato il provvedimento sanante vanno dichiarate improcedibili sia la domanda di restituzione che quella di risarcimento danni. Inoltre, il legislatore avrebbe così “previsto un mutamento del titolo della pretesa (rispetto alla pretesa risarcitoria che i privati potevano avanzare vigente la precedente normativa), che di per sè risulta dunque sottoposta alla cognizione del giudice civile, ai sensi dell’art. 133, comma 1, lettera f), del Codice del processo amministrativo, per il quale non sussiste la giurisdizione esclusiva quando si tratti della determinazione e della corresponsione “delle indennità in conseguenza dell’adozione di atti di natura espropriativa o ablativa” (nel cui novero rientra senz’altro quello emesso ai sensi dell’art. 42bis)”[16].

Recentemente il Tar Lazio – Sez. II – quater –  con sentenza 13 giugno/ 16 dicembre 2013 – 11 marzo 2014, n. 2774, ha fornito una vasta panoramica circa le questioni sottese alla compressione illegittima del diritto di proprietà a causa della condotta della PA, interpretando in maniera chiara la normativa di cui all’art. 42bis del DPR 8 giugno 2001, n. 327. Nel caso di specie la vicenda ineriva l’illegittima acquisizione di un terreno di proprietà del ricorrente, trasformato in maniera irreversibile in parcheggio, senza tuttavia la presenza di un formale decreto di esproprio, anche se presente un prodromico decreto di occupazione d’urgenza. Nello specifico il ricorrente chiedeva l’accertamento, in via principale, del diritto al risarcimento danni per la compressione del diritto dominicale a decorrere dall’illegittima occupazione del fondo ovvero dalla sua irreversibile trasformazione, nonché in via subordinata la condanna alla restituzione del bene. Il Giudice amministrativo ha quindi accolto il ricorso sul presupposto della inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità trascorsi cinque anni in assenza della susseguente adozione del decreto di esproprio nel termine quinquennale dalla dichiarazione di pubblica utilità. Nello specifico il collegio ha ritenuto censurabile l’operato dell’amministrazione in quanto la norma di cui all’art. 13 del D.P.R. 327 del 2001 costituisce un precetto indirizzato all’amministrazione affinché sussista un vincolo alla sua discrezionalità, la cui violazione comporta la violazione di legge in quanto vizio di legittimità dell’atto amministrativo. Infatti la mancata adozione da parte della P.A. del provvedimento di esproprio nei termini legali comporta che l’originaria dichiarazione di pubblica utilità è sicuramente scaduta e pertanto il potere ablatorio, pur se validamente sorto, risulta colpito da inefficacia sopravvenuta tale da rappresentare un vizio, sorto ex nunc nell’iter procedimentale, di cattivo uso del potere.

Quanto alle conseguenze dell’illegittimità dell’attività compiuta dalla P.A. occorre considerare che in seguito alla sentenza della Corte costituzionale n. 293 del 2010, con cui è stata dichiarata illegittimo l’art. 43 del D.P.R. 327 del 2001 teso a disciplinare la c.d. acquisizione sanante, il comportamento dell’Amministrazione va qualificato come illegittimo e non già come illecito. A suddetta illegittimità tuttavia non potrebbe porsi rimedio con l’istituto di origine giurisprudenziale della espropriazione sostanziale, nelle due ipotesi dell’occupazione acquisitiva o usurpativa, poiché ritenuto contrastante con l’ordinamento comunitario[17], né tramite la rinuncia al diritto di proprietà per mezzo del risarcimento danno quale controvalore del fondo compromesso dalla realizzazione dell’opera pubblica, come rinuncia al fondo.  Orbene, la P.A. andrebbe invero condannata alla restituzione del bene immobile al ricorrente. Inoltre, nemmeno la presenza dell’opera pubblica realizzata può essere utile per opporsi alla restitutio in integrum, poiché non dà titolo per opporre l’eccessiva onerosità. Difatti l’art. 2058 c.c. non è opponibile nelle azioni tese a far valere un diritto reale, posto che il suo carattere assoluto non lascia spazio a forme di reintegrazioni diverse da quelle in forma specifica, salvo una diversa volontà del titolare[18]. Tuttavia, poiché il privato mantiene la proprietà del bene, questo non ha titolo per chiedere un risarcimento commisurato alla perdita della proprietà o della disponibilità del fondo stesso, potendo agire per la restituzione e per il risarcimento danni dovuto al mancato godimento del bene.

È necessario rilevare, poi, che a seguito della sentenza che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 43 del T.U. espropriazioni, tramite il successivo art. 34 del D.L. 6 luglio 2011 n. 98, convertito in legge 15 luglio 2011 n. 111 (misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria) è stato reintrodotto l’istituto dell’acquisizione coattiva dell’immobile del privato utilizzato dalla P.A. per fini di interesse pubblico, per mezzo dell’art. 42bis, acquisendolo al suo patrimonio indisponibile per scopi di interesse pubblico. L’obbligo motivazionale circa l’assenza di ragionevoli alternative all’adozione del nuovo provvedimento va comunicato entro 30 giorni alla Corte dei Conti. Inoltre, nella nuova versione si fa riferimento diretto all’indennizzo, invece che al risarcimento del danno, come corrispettivo dell’attività posta in essere dall’Amministrazione, forse perché il legislatore ha inteso porre l’accento sulla liceità dell’attività. Attualmente dunque il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche in corso di giudizio di annullamento previo ritiro  dell’atto impugnato. Inoltre, il potere acquisitivo dell’amministrazione è esercitabile anche in presenza di una pronuncia giurisprudenziale passata in giudicato che abbia annullato il titolo per l’utilizzazione dell’immobile, posto che tale giudicato sarebbe intervenuto sull’atto impugnato e non  sul rapporto tra privato e amministrazione.

Il nuovo atto risulta distinto da quello annullato, tanto che non opera con efficacia retroattiva e non ha funzione sanante del provvedimento annullato. Ad ogni buon conto, la P.A. deve porre in essere tutte le iniziative necessarie per porre fine alla situazione di illiceità, restituendo il bene solo allorquando siano cessate le ragioni di pubblico interesse, dovendo al contrario acquisire al suo patrimonio indisponibile il bene su cui insiste o dovrà essere realizzata l’opera pubblica o di pubblico interesse.

Da tutto ciò deriva che solo un formale atto di acquisizione del fondo quale un negozio giuridico, un decreto espropriativo relativo a un nuovo procedimento di pubblica utilità, ovvero ad un provvedimento ex art. 42bis del D.P.R. 327 del 2001 è in grado di precludere la restituzione del bene; quindi se manca tale atto e l’amministrazione agisce per mere vie di fatto, è obbligata a restituire il fondo illegittimamente appreso. È allora evidente come l’atto di acquisizione sia frutto di una valutazione autonoma della P.A.

Pertanto, in caso di domanda giudiziale volta alla dichiarazione di illegittimità della procedura espropriativa, il giudice  chiamato dal ricorrente illecitamente espropriato non potrebbe giammai ordinare all’Amministrazione di provvedere ex art. 42bis Dpr 327 del 2001[19]. L’accoglimento della domanda demolitoria degli atti espropriativi illegittimi comporta l’annullamento della procedura e il riconoscimento della mancata acquisizione da parte della P.A. della proprietà con la conseguenziale restituzione del bene, fermo la previsione di cui all’art. 42bis Dpr 327 del 2001 per cui “valutati gli interessi in conflitto, l’autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente, al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario sia corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, quest’ultimo forfettariamente liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale del bene”.

Quindi, secondo la norma di cui all’art. 42bis del Dpr 327 del 2001 alcun limite deriva in capo all’Amministrazione in seguito alla pronuncia di annullamento circa la facoltà di acquisire il bene. Secondo la recente statuizione del Tar Lazio – sez. II quater – 11 marzo 2014 n. 2774, il giudice amministrativo, nell’esercizio dei propri poteri equitativi e nella logica della valorizzazione circa la novella legislativa, nell’adoperarsi affinché l’espropriazione della proprietà privata per scopi di pubblica utilità non si tramuti in un danno ingiusto a carico del cittadino, può accogliere la domanda risarcitoria derivante dall’occupazione senza titolo di un bene privato per scopi di interesse pubblico realizzata per le c.d. vie di fatto, se irreversibilmente trasformato, differendone però gli effetti all’emissione di un formale provvedimento acquisitivo ai sensi dello stesso articolo 42bis del Dpr 327 del 2001. Secondo tale sentenza successivamente all’entrata in vigore  dell’art. 42bis del T.U. espropriazioni approvato con Dpr 327 del 2001, come introdotto dall’art. 34, comma 1, del D. Lgs. 98 del 2001, nell’ipotesi di utilizzo di un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, la pubblica amministrazione ha in ogni caso l’obbligo di far venire meno l’occupazione sine titulo e di adeguare la situazione di fatto a quella di diritto, dovendo scegliere alternativamente  tra l’emanazione di un provvedimento sanante la situazione di illegittimità ovvero l’immediata restituzione del bene la cui occupazione si è protratta contra ius, previo ripristino dell’area e il pagamento dei danni da illegittima occupazione, senza che l’avvenuta realizzazione dell’opera pubblica precluda l’una o l’altra via. Pertanto l’amministrazione ha opzione tra la valutazione dell’attualità e prevalenza dell’interesse pubblico all’acquisizione dei beni e la restituzione del bene secondo la scansione temporale riportata in motivazione, bilanciando l’interesse del privato  al ristoro economico e quello pubblico al mantenimento dell’opera. Il Collegio nell’affrontare la questione si è anche occupato della giurisdizione, ritenendo fondata la propria in considerazione della spendita del potere da parte della P.A. tramite l’adozione del decreto di occupazione d’urgenza, fatto giuridico che radica la giurisdizione esclusiva  del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. g) c.p.a., secondo l’interpretazione declinata dalla Corte costituzionale in materia di individuazione del giudice competente a conoscere le controversie in  materia di espropriazione legittima e illegittima da parte della pubblica amministrazione (cfr., per tutte, Corte cost. 11 maggio 2006 n. 191), la cognizione delle domande restitutorie e risarcitorie per occupazione illegittima e conseguente irreversibile trasformazione del fondo in mancanza di emissione del decreto di esproprio. Il G.A. rileva ancora come al contario sarebbe dovuto essere stato dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo a conoscere della domanda di pagamento dell’indennità di occupazione legittima quinquennale, maggiorata dei relativi accessori di legge, spettando tale domanda alla cognizione del giudice ordinario.

La questione, tuttavia, sembra non trovare pace anche alla luce dei nuovi dubbi di legittimità dell’istituto in  esame, posto che la Cassazione civile , SS.UU.,  con ordinanza 13.01.2014 n. 441, ha ritenuto rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale riguardanti il d.P.R. n. 327 del 2001, art. 42 bis sollevate dalla Suprema Corte, in quanto, disponendo che l’indennizzo espropriativo debba essere sempre e comunque commisurato “al valore venale del bene utilizzato”, il legislatore attribuirebbe ai proprietari incisi dal n provvedimento di acquisizione sanante un trattamento peggiorativo rispetto a quelli, che in mancanza di detto provvedimento sono ammessi a chiedere la restituzione dell’immobile oltre al risarcimento del danno, pure se destinatari di una medesima occupazione abusiva ab origine (c.d. usurpativa), in quanto soltanto a questi ultimi è consentito ottenere l’intero risarcimento del danno subito, in base ai parametri dell’art. 2043 c.c. relativi al danno emergente e al lucro cessante e tale trattamento resta inferiore pur nel confronto con l’espropriazione legittima dello stesso immobile. In pratica il legislatore avrebbe trasformato il precedente regime risarcitorio in un indennizzo derivante da atto lecito, che di conseguenza assume natura di debito di valuta, non automaticamente soggetto alla rivalutazione monetaria (art. 1224, co. 2 c.c.).

Con la statuizione del Consiglio di Stato in esame ancora una volta si riceve una risposta in tema di giurisdizione, posto che “trattandosi dell’esercizio di un tradizionale potere amministrativo, esso è pienamente sindacabile dinanzi al giudice amministrativo, ovviamente nei limiti dei consueti vizi, finanche nei suoi aspetti indennitari, costituenti, in realtà, la liquidazione di un danno inferto dall’illecita, pregressa, sostanziale ablazione (in questo senso già, Sez IV n. 993/2014)”.

Inoltre, come sopra già dedotto, “ove così non fosse, e si fosse invece dinanzi (…) ad un diritto potestativo pubblico sganciato da esigenze partecipative in ragione dell’ineluttabilità della scelta amministrativa, si addenserebbero enormi dubbi sul versante della legittimità costituzionale dell’art. 42 bis, del quale invero si dubita già nella sua versione “ordinaria” per essere lo stesso conseguenza rimediale di un illecito permanente” (Cfr. Corte di Cassazione, Sez. Unite, ordinanza n. 442 del 13 gennaio 2014).

Pertanto, per far salva la legittimità costituzionale dell’attuale istituto di cui all’art. 42bis non può che propendersi per una interpretazione che lo vede connotato da esercizio di potere pubblico discrezionale, come tale utilizzabile esclusivamente in ambito di compartecipazione. Ciò in modo da consentire al soggetto interessato almeno di dialogare con l’Amministrazione, tanto più in considerazione della sua limitata tutela giurisdizionale nel momento in cui l’occupazione usurpativa di tramuta (rectius si sana) in situazione legalizzata, trasformando un diritto soggettivo assoluto (tutelato con risarcimento e restituzione) in un interesse legittimo, per tramite di un mero provvedimento postumo con carattere irretroattivo.

In attesa di una nuova pronuncia della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che potrebbe suffragare i già presenti dubbi di costituzionalità, non resta per il momento che affidarsi ad una interpretazione giurisprudenziale garantista della posizione soggettiva di chi vede incombere sui propri beni immobili “l’assenza di ragionevoli alternative” alla loro espropriazione.

 

Avv. David Di Meo

 

 

 


[1] cfr. Belvedere Alberghiera Srl c. Italia e Cabonara e Ventura c. Italia del 2000.

[2] Cass. S.U. 4 marzo 1997, n. 1907.

[3] Cons. St., sez. V, 2 novembre 2011, n. 5844.

[4] Sul punto si veda Cass., sez. I,  n. 8965 del 17.4.2014, che a seguito delle diverse condanne da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per il meccanismo di decorrenza della prescrizione concernente le ipotesi di occupazione espropriativa, ha rivisto il proprio orientamento giurisprudenziale. La Corte di Cassazione, afferma che “il punto debole e sicuramente più travagliato dell’istituto, è stato il termine prescrizionale breve assegnato dalla nota decisione 1464 del 1983 delle Sezioni Unite (che lo ha delineato), al proprietario per richiedere il risarcimento del danno causatogli dall’illecita e definitiva sottrazione dell’immobile; ed ancor più la sua decorrenza ancorata ex art. 2935 cod. civ., alla data dell’irreversibile trasformazione del bene nell’opera pubblica programmata dalla dichiarazione di p.u.”. Tal principio, prima oggetto di confutazioni giurisprudenziali e poi normative è stato confermato dalle Sezioni Unite le quali intente “a ripristinare la natura risarcitoria dell’azione del proprietario volta a conseguire    il    valore    dell’immobile perduto, definitivamente ancorandola al termine quinquennale di prescrizione di cui all’art. 2947 cod. civ. (Cass. sez. un. 12546/1992 e succ.)“. In seguito la giurisprudenza successiva ha rivolto l’attenzione verso la sua decorrenza iniziale, tradizionalmente fatta coincidere con l’epoca della irreversibile trasformazione dell’immobile nell’opera. Nel tentativo di mitigare la severità dell’impostazione suddetta, la Corte ha apportato o mantenuto alcune deroghe alla regola, una delle quali costituita dall’ipotesi di occupazione temporanea del fondo; altra deroga si configura nell’ipotesi di terreno occupato ed irreversibilmente destinato alla realizzazione dell’opera pubblica in base a provvedimento amministrativo successivamente annullato dal giudice amministrativo. Sono, poi, come conferma la stessa Corte, “state ampliate le fattispecie interruttive con l’enunciazione del principio generale che ove l’espropriante proceda comunque alla determinazione dell’indennità di esproprio, ovvero all’offerta e/o al deposito di essa, i suddetti atti, costituendo in ogni caso il riconoscimento del diritto dell’ex proprietario ad un ristoro patrimoniale, si configurano come atti interruttivi della prescrizione del diritto al risarcimento dei danni derivanti dalla perdita del diritto dominicale“. Da ultimo la Corte si concentra sull’elemento soggettivo e sulla concreta conoscenza o conoscibilità dell’evento occupativo/espropriativo. E riconosce, sul punto, come, ai fini del decorso della prescrizione del diritto al risarcimento del danno da occupazione appropriativa, non sia sufficiente la mera consapevolezza di avere subito un’occupazione e/o una manipolazione dell’immobile senza titolo, bensì occorre che il danneggiato si trovi nella possibilità di apprezzare la gravità delle conseguenze lesive per il suo diritto dominicale anche con riferimento alla loro rilevanza giuridica e, quindi, in particolare, al verificarsi dell’effetto estintivo-acquisitivo definitivo perseguito dall’amministrazione espropriante. Difficoltà tecniche e questioni di diritto, infatti, possono impedire all’interessato un concreto apprezzamento della vicenda giuridica che porta alla perdita della proprietà. L’onere probatorio circa l’esistenza del presupposto richiesto dall’art. 2947 c.c., coincidente con il momento in cui il trasferimento della proprietà e della sua rilevanza giuridica viene percepito o può essere percepito dal proprietario quale danno ingiusto ed irreversibile, grava sull’amministrazione, dovendosi ritenere, in mancanza, che tale momento coincida con quello della citazione introduttiva del giudizio, analogamente a quanto ritenuto dalla Corte europea. Ed in uno con il tema della prescrizione la Suprema Corte afferma: “ai fini del decorso della prescrizione del diritto al risarcimento del danno da occupazione appropriativa, non è sufficiente la mera consapevolezza di avere subito un’occupazione e/o una manipolazione dell’immobile senza titolo, bensì occorre che il danneggiato si trovi nella possibilità di apprezzare la gravità delle conseguenze lesive per il suo diritto dominicale anche con riferimento alla loro rilevanza giuridica e, quindi, in particolare, al verificarsi dell’effetto estintivo-acquisitivo definitivo perseguito dall’amministrazione espropriante. L’onere di provare la ricorrenza del presupposto richiesto dall’art. 2947 c.c., coincidente con il momento in cui il trasferimento della proprietà con la sua rilevanza giuridica viene percepito o può essere percepito dal proprietario quale danno ingiusto ed irreversibile, grava sull’amministrazione, dovendosi ritenere, in mancanza, che tale momento coincida con quello della citazione introduttiva del giudizio, analogamente a quanto ritenuto dalla Corte europea”.

[5] cfr. in senso contrario Cons.St., sez. IV, 29 aprile 2002, n. 2280, secondo il quale in caso di occupazione usurpativa “alla tutela risarcitoria… può essere ostativa soltanto la irreversibile trasformazione del fondo”, introducendo così un limite che, invece, la Cassazione correttamente utilizza per la diversa fattispecie dell’occupazione acquisitiva. In dottrina cfr. Borgo, Il Consiglio di Stato alle prese con i fantasmi della “occupazione acquisitiva” e della “occupazione usurpativa”, in www.giustamm.it

[6] cfr. Cass. Civ., sez. I, 18 maggio 2012, n. 7904.

[7] cfr. Corte giust. UE 10 novembre 2011, C 405/10; nonche' nella giurisprudenza della Corte Edu (I,13 ottobre2005, Serrao; 15 novembre 2005,  La  Rosa;  III,  15  dicembre  2005, Scozzari; II, 9 gennaio 2009, Sotira; Grande Chambre, 4 gennaio 2010, Guiso) proprio in materia di ingerenza illegittima  nella  proprieta'privata, fondata sempre e comunque  sul  corollario  divenuto  per  i giudici di Strasburgo insuperabile, che alla P.A. non  e'  consentito

(ne’ direttamente ne’  indirettamente)  trarre  vantaggio  da  propri comportamenti illeciti,e piu’  in  generale,  da  una  situazione  di illegalita’ dalla stessa determinata. Per vero, le maggiori censure mosse dalla Corte EDU durante la vigenza dell’art. 43 all’istituto dell’espropriazione indiretta si appuntavano sulla circostanza per la quale tale meccanismo ablatorio – anche quando derivi da una legge – non possa comunque costituire un’alternativa ad una espropriazione adottata seconda “buona e debita forma”, in quanto permette all’Amministrazione di utilizzare a proprio vantaggio una situazione di fatto derivante da azioni illegali 7. In particolare, “il principio di legalità comporta l’esistenza di norme di diritto nazionale sufficientemente accessibili, precise e prevedibili […] la semplice esistenza di una base giuridica non è comunque sufficiente a soddisfare il principio di legalità […] L’occupazione acquisitiva tende a ratificare una situazione di fatto derivante da illegalità commesse dalla P.A. nonché a regolarne le conseguenze tra il privato cittadino e la P.A. e consente a quest’ultima di trarre beneficio da un suo comportamento illegale. Che intervenga in forza di un principio giurisprudenziale o di una disposizione normativa come l’art. 43 del Testo Unico sulle Espropriazioni, l’occupazione acquisitiva non può costituire un’alternativa all’espropriazione secondo le forme prescritte” . Con ciò, la Corte ha chiaramente escluso la conformità ai propri principi sia dell’occupazione usurpativa, sia dell’ablazione del bene del privato che sia conseguenza mediata dell’illecito, che produce cioè il trasferimento della proprietà attraverso la mediazione del provvedimento. Tale critica risulterebbe tuttora difficilmente superabile, nonostante le novità introdotte dall’art. 42-bis: la norma in questione, difatti, ha comunque reinserito nel nostro ordinamento il potere discrezionale di espropriare in modo postumo un’area già utilizzata e trasformata dall’Amministrazione in assenza di un valido provvedimento di esproprio o di una dichiarazione di pubblica utilità. Si sottolineano, inoltre, una serie di profili di dubbia compatibilità con la tutela rafforzata che la CEDU riconosce al diritto di proprietà, ai sensi dell’art. 1 Protocollo I. Difatti, accanto all’irrobustimento dell’onere motivazionale dell’Amministrazione, si conferisce alla stessa un potere ablatorio molto ampio, comprensivo della possibilità di acquisire anche diritti di servitù in favore di soggetti, privati o pubblici, titolari di concessioni, autorizzazioni o licenze o che svolgono servizi di interesse pubblico nei settori dei trasporti, telecomunicazioni, acqua o energia, con oneri a carico dei soggetti beneficiari. In conclusione, nonostante i numerosi elementi di novità della disciplina di cui all’art. 42-bis, dubbi persistono in ordine alla effettiva portata innovativa della norma in esame sul fronte del rispetto delle coordinate elaborate dalla Corte di Strasburgo. Alle prime pronunce del Giudice amministrativo, che legge nella disciplina lo sforzo del legislatore di uniformarsi ai precetti costituzionali ed internazionali, si contrappongono quanti ritengono che anche l’art. 42-bis integri una illegittima espropriazione indiretta, volta ad far acquisire al patrimonio dell’Amministrazione la proprietà del bene come conseguenza, sia pure mediata, di un comportamento illecito. Certo è che, all’esito di una eventuale pronuncia negativa della Corte di Strasburgo, il legislatore dovrà muoversi nella direzione, peraltro già suggerita dalla Consulta nel 2010, di espungere dall’ordinamento la possibilità di acquisto connesso esclusivamente a fatti occupatori, garantendo al contrario la restituzione del bene, come già avviene in altri ordinamenti europei.

[8] cfr. F. Manganaro, L’indennità di espropriazione tra Corte costituzionale e Corte europea dei diritti dell’uomo, in www.giustamm.it, 2010.

[9] cfr. S. Fantini, Utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico, in Codice dell’espropriazione annotato con dottrina, giurisprudenza e formule, Roma, 2008. Tar Puglia, Bari, sez. III, 19 novembre 2008, n. 2653, che ha ribadito come il decreto di acquisizione sanante sia un atto di nautra discrezionale e non obbligatoria. Vedi ancora R. Conti, L’occupazione acquisitiva epurata dal Consiglio di Stato, in Urb. e app., 2007, 10, 1247.

[10] sul punto, S. Leone, Illegittimità costituzionale dell’articolo 43, D.p.r. 8 giugno 2001, n. 327: dubbi e soluzioni interpretative, nonché M. Morelli, Il vuoto normativo lasciato dall’abrogazione dell’art. 43 D.p.r. n. 327 del 2001: l’analisi della situazione in atto impone un immediato intervento legislativo, in www. lexitalia.it, 2011.

[11] G. Sciullo, La base giuridica dell’espropriazione: il vincolo preordinato all’esproprio, la dichiarazione di pubblica utilità e l’occupazione acquisitiva, in www.lexitalia.it, n.11, 2013.

[12] Tar Puglia, Lecce, 26 novembre 2010, n. 2683.

[13] Tar Toscana, 11 gennaio 2011, n. 29.

[14] Tar Campania, Napoli, 18 gennaio 2011, n. 262; Tar Campania, Salerno, 14 gennaio 2011, n. 43.

[15] Tar Sicilia, Palermo, 1 febbraio 2011, n. 175; Cons. St., sez. IV, 1 giugno 2011, n. 3331.

[16] Cons. St., sez. VI, 15 marzo 2012, n. 1438.

[17] Tar Sicilia, Palermo, sez. I, 1 febbraio 2011 n. 175 e sez. III, 21 gennaio 2011 n. 115, Tar Piemonte , sez. I, 30 agosto 2012 n. 985.

[18] Tar Piemonte, sez. I, 30 agosto 2012 n. 985, Cass. Civ. sez. II, 2359/2012.

[19] Cons. St., sez. IV, 19 marzo 2014 n. 1344.

David Di Meo

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