L’ errore scusabile è configurabile, in caso di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, di influenza determinante di comportamenti di a

Lazzini Sonia 01/02/07
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Il Consiglio di Stato con la decisione numero 3981 del 23  giugno 2006 ci offre alcuni importanti spunti di riflessione in tema di responsabilità della pubblica amministrazione:
 
<le condivisibili esigenze di semplificazione probatoria possono essere parimenti soddisfatte restando all’interno dei più sicuri confini dello schema e della disciplina della responsabilità aquiliana, che rivelano una maggiore coerenza della struttura e delle regole di accertamento dell’illecito extracontrattuale con i caratteri oggettivi della lesione di interessi legittimi e con le connesse esigenze di tutela, utilizzando, per la verifica dell’elemento soggettivo, le presunzioni semplici di cui agli artt.2727 e 2729 c.c
 
Fermo restando l’inquadramento della maggior parte di fattispecie di responsabilità della p.a., tra cui quella in esame, all’interno della responsabilità extracontrattuale, non è comunque richiesto al privato danneggiato da un provvedimento amministrativo illegittimo un particolare sforzo probatorio, sotto il profilo dell’elemento soggettivo. Infatti, pur non essendo configurabile, in mancanza di una espressa previsione normativa, una generalizzata presunzione (relativa) di colpa dell’amministrazione per i danni conseguenti ad un atto illegittimo o comunque ad una violazione delle regole, possono invece operare regole di comune esperienza e la presunzione semplice, di cui all’art. 2727 c.c., desunta dalla singola fattispecie.
 
     Il privato danneggiato può, quindi, invocare l’illegittimità del provvedimento quale indice presuntivo della colpa o anche allegare circostanze ulteriori, idonee a dimostrare che si è trattato di un errore non scusabile.
 
     Spetterà a quel punto all’amministrazione dimostrare che si è trattato di un errore scusabile, configurabile, ad esempio, in caso di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, di influenza determinante di comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata>
 
Inoltre, andando al di fuori dei confini italiani e spaziando in europa, il Supremo giudice Amministrativo ci fa notare che:
 
<Inoltre, va considerato che la stessa Corte di Giustizia, pur non facendo riferimento alla nozione di colpa della p.a., utilizza, a fini risarcitori, il criterio della manifesta e grave violazione del diritto comunitario, sulla base degli stessi elementi, descritti in precedenza e utilizzati nel nostro ordinamento per la configurabilità dell’errore scusabile (Corte Giust. CE, 5 marzo 1996, C- 46 e 48/93, Brasserie du Pecheur, in cui, al punto 78, viene riconosciuto che alcuni degli elementi indicati per valutare se vi sia violazione manifesta e grave sono riconducibili alla nozione di colpa nell’ambito degli ordinamenti giuridici nazionali).>
 
a cura di Sonia Lazzini
 
 
 
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la seguente
 
DECISIONE
 
sul ricorso in appello proposto da *** s.r.l., cui è subentrato il *** *** s.r.l., in persona del curatore, rappresentato e difeso dall’ avv.to Gabriele Pafundi, ed elettivamente domiciliato presso lo stesso, in Roma, viale Giulio Cesare, n. 14;
 
contro
 
I.N.A.I.L. – Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro, in persona del Direttore Regionale per la Campania, costituitosi in giudizio, rappresentato e difeso dagli avv.ti Emidio Tedesco e Lucia Anna Rita Sonnante, ed elettivamente domiciliato presso gli stessi, in Roma, via Pier Luigi da Palestrina, n. 8;
 
*** Vincenzo e *** Luigina, non costituitisi in giudizio;
 
per l’annullamento
 
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, Sezione I, n. 4171/2000;
 
     Visto il ricorso con i relativi allegati;
 
     Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’INAIL;
 
     Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
 
     Visti gli atti tutti della causa;
 
     Alla pubblica udienza dell’11-4-2006 relatore il Consigliere Roberto Chieppa.
 
     Uditi l’Avv. Pafundi e l’Avv. Pone per delega dell’Avv. Tedesco;
 
     Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
 
F A T T O    E    D I R I T T O
 
     1. Con bando pubblicato l’11 novembre 1999, l’INAIL, direzione regionale per la Campania, indiceva una gara per l’appalto della “fornitura di materiali e dei lavori occorrenti per la realizzazione di un sistema di cablaggio strutturato per fonia e dati, comprese le opere di assistenza muraria negli edifici occupati dagli uffici INAIL” in Avellino, Benevento, Caserta, Castellammare di Stabia, Napoli, Salerno e Aversa, da aggiudicarsi con il criterio del prezzo più basso per un importo a base d’asta pari a £. 1.488.244.700, iva esclusa.
 
     *** s.r.l. partecipava alla selezione, quale mandataria della costituenda a.t.i. con la s.r.l. ***, mandante.
 
     Con provvedimento del 19 gennaio 2000, la direzione regionale per la Campania dell’INAIL disponeva l’esclusione dalla gara del raggruppamento temporaneo d’imprese guidato dalla *** in qualità di capogruppo mandataria, disponendo altresì l’escussione della cauzione provvisoria e la segnalazione del fatto all’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici.
 
     La ragione dell’esclusione era costituita dal fatto che l’impresa *** s.r.l. di Cremnago Inverigo (CO), mandante in a.t.i., non era in possesso del requisito relativo alla iscrizione all’ANC prescritto dall’art. 8 del regolamento di cui al d.P.C.M. 10 gennaio 1991 n. 55 (il bando richiedeva l’iscrizione ANC alla cat. G11 per una classifica fino a £. 1,5 mld).
 
     Con la sentenza impugnata il Tar dichiarava improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse la domanda di annullamento del provvedimento di esclusione, accoglieva il ricorso proposto avverso l’incameramento della cauzione e la segnalazione all’Autorità di vigilanza e respingeva la domanda di risarcimento del danno, proposta nei confronti dell’INAIL e di due funzionari dell’Istituto.
 
     *** s.r.l. ha proposto appello avverso la parte della sentenza, con cui era stata respinta la domanda risarcitoria e in corso di giudizio, essendo nel frattempo la società fallita si costituiva il *** *** s.r.l..
 
     L’INAIL si è costituita in giudizio, chiedendo la reiezione dell’appello.
 
     All’odierna udienza la causa è stata trattenuta per la decisione.
 
     2. Va premesso che, essendo l’oggetto del presente giudizio di appello limitato alla sola domanda risarcitoria, proposta dalla ricorrente nei confronti dell’INAIL e di due funzionari e respinta dal Tar, non trova applicazione il rito speciale, previsto dall’art. 23 bis della legge n. 1034/71 e non deve, quindi, essere pubblicato il dispositivo della presente decisione.
 
     Il citato art. 23 bis si applica, infatti, ai giudizi aventi ad oggetto “i provvedimenti relativi alle procedure di aggiudicazione, affidamento ed esecuzione di opere pubbliche …”, e non alle controversie relative alle sole domande risarcitorie proposte in relazione a tali procedure (in tal senso, Cons. Stato, V, n. 1031/05).
 
     3. La domanda di risarcimento non riguarda il danno per la mancata aggiudicazione della gara, in quanto la domanda di annullamento del provvedimento di esclusione è stata dichiarata dal Tar improcedibile proprio perché la stessa ricorrente aveva riconosciuto di non possedere ab origine i requisiti di partecipazione.
 
     L’azione risarcitoria concerne, invece, il pregiudizio asseritamene subito a causa dell’escussione della cauzione e della segnalazione all’Autorità d vigilanza, cui sono seguite difficoltà per la società nell’ottenere il rilascio di polizze fideiussorie, che hanno limitato la sua partecipazione ad altre gare di appalto.
 
     Tale domanda è stata respinta per difetto dell’elemento soggettivo della colpa dal giudice di primo grado, che ha rilevato che si trattava di normativa nuova, di non facile applicazione, in ordine alla quale era ragionevole nutrire dubbi ermeneutici e applicativi.
 
     Il Tar ha aggiunto che, a tal fine, assumeva rilevanza il fatto che l’atto impugnato fosse del 19 gennaio 2000, mentre l’atto di regolazione dell’Autorità di vigilanza, scaturito proprio a seguito dei numerosi dubbi interpretativi sollevati, fosse successivo (30 marzo 2000).
 
     Il Tar ha, inoltre, ritenuto condivisibile l’assunto di Cass., ss.uu. 500/1999 secondo il quale l’imputazione (a titolo di colpa) non può avvenire sulla base del mero dato obiettivo della illegittimità dell’azione amministrativa, essendo necessaria la prova della violazione dei limiti interni alla discrezionalità costituiti dal dovere di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione, rilevando che nella specie risultava evidente che l’amministrazione aveva dato un’interpretazione rigoristica – in sé peraltro non palesemente illogica – della norma di legge (dal tenore non privo di ambiguità), senza agire in modo parziale, scorretto o in violazione dei canoni di buona amministrazione.
 
     4. Il ricorso in appello è fondato in relazione alla domanda di risarcimento del danno, proposta nei confronti dell’INAIL.
 
     Questa Sezione non dubita del fatto che, per il riconoscimento della responsabilità della pubblica amministrazione per i danni causati nell’esercizio (illegittimo) dell’attività amministrativa, sia necessaria la sussistenza anche dell’elemento soggettivo dell’illecito.
 
     Tuttavia, i criteri utilizzati dal Tar per la verifica della sussistenza della colpa della p.a. non appaiono soddisfacenti e non tengono conto dell’evoluzione della giurisprudenza amministrativa, successiva alla sentenza n. 500/99 della Cassazione.
 
     Come è noto, l’indirizzo giurisprudenziale consolidato prima della sentenza 500/1999, riteneva la colpa sussistente in re ipsa nella stessa illegittimità processualmente accertata dall’atto amministrativo; la colpa era di per sé già ravvisabile con l’adozione (necessariamente volontaria) del provvedimento illegittimo e con la sua esecuzione, indipendentemente dalla natura del vizio che inficiava il provvedimento. (Cass., Sez. Unite, 22 maggio 5361/1984; I, n. 5883/1993).
 
     Come rilevato anche dal Tar, tale indirizzo venne poi superato con la sentenza n. 500/1999, con cui la Cassazione affermò che, per accertare la responsabilità della p.a., il giudice deve svolgere una penetrante indagine, non limitata al solo accertamento dell’illegittimità del provvedimento, bensì estesa anche alla valutazione della colpa, non del funzionario agente, ma della P.A. intesa come apparato, configurabile nel caso in cui l’adozione e l’esecuzione dell’atto illegittimo (lesivo dell’interesse del danneggiato) sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l’esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi e che il giudice può valutare, in quanto si pongono come limiti esterni alla discrezionalità.
 
     Il criterio di accertamento della colpa indicato dalla sentenza n. 500 del 1999 è stato in parte disatteso da questo Consiglio di Stato, che ha sottolineato che se da una parte il criterio rimane ad un livello di inevitabile astrazione, dall’altra non tiene conto del fatto che la violazione dei limiti esterni alla discrezionalità comporta l’illegittimità dell’atto per eccesso di potere. Sicché, pur premettendo l’esigenza di un’indagine penetrante sulla colpa dell’apparato, si finisce per accontentarsi di una verifica di tipo solo oggettivo (Cons. Stato, IV, 14 giugno 3169/2001).
 
     Nell’affermare che solo in presenza di un errore scusabile dell’autorità non si configura il requisito della colpa, la giurisprudenza ha, a volte, utilizzato una nozione oggettiva di colpa, collegata al concetto di violazione grave, emerso anche in sede comunitaria (Cons. Stato, IV, n. 3169/2001) e, altre volte, ha invece utilizzato lo strumento probatorio della presunzione, ritenendo che la accertata illegittimità dell’atto ritenuto lesivo dell’interesse del ricorrente, può rappresentare, nella normalità dei casi, l’indice (grave, preciso e concordante) della colpa dell’amministrazione (Cons. Stato, V, 6 agosto 4239/2001, in cui si richiama, a limitati fini, la tesi della responsabilità della p.a. come responsabilità da contatto e si utilizzano criteri sostanzialmente corrispondenti a quelli codificati dall’articolo 1218 c.c.).
 
     Successivamente, il Consiglio di Stato ha, tuttavia, dissentito dalla ricostruzione, che fa applicazione dei principi che presiedono alla responsabilità contrattuale per inadempimento al fine di giustificare l’affermazione della presunzione relativa di colpa e l’ascrizione all’amministrazione dell’onere di dimostrare la propria incolpevolezza, e ha reputato, di contro, che le condivisibili esigenze di semplificazione probatoria possono essere parimenti soddisfatte restando all’interno dei più sicuri confini dello schema e della disciplina della responsabilità aquiliana, che rivelano una maggiore coerenza della struttura e delle regole di accertamento dell’illecito extracontrattuale con i caratteri oggettivi della lesione di interessi legittimi e con le connesse esigenze di tutela, utilizzando, per la verifica dell’elemento soggettivo, le presunzioni semplici di cui agli artt.2727 e 2729 c.c. (Cons. Stato, IV, 6 luglio 2004 n. 5012; 10 agosto 2004 n. 5500).
 
     Il Collegio ritiene di condividere tale ultimo orientamento.
 
     Fermo restando l’inquadramento della maggior parte di fattispecie di responsabilità della p.a., tra cui quella in esame, all’interno della responsabilità extracontrattuale, non è comunque richiesto al privato danneggiato da un provvedimento amministrativo illegittimo un particolare sforzo probatorio, sotto il profilo dell’elemento soggettivo. Infatti, pur non essendo configurabile, in mancanza di una espressa previsione normativa, una generalizzata presunzione (relativa) di colpa dell’amministrazione per i danni conseguenti ad un atto illegittimo o comunque ad una violazione delle regole, possono invece operare regole di comune esperienza e la presunzione semplice, di cui all’art. 2727 c.c., desunta dalla singola fattispecie.
 
     Il privato danneggiato può, quindi, invocare l’illegittimità del provvedimento quale indice presuntivo della colpa o anche allegare circostanze ulteriori, idonee a dimostrare che si è trattato di un errore non scusabile.
 
     Spetterà a quel punto all’amministrazione dimostrare che si è trattato di un errore scusabile, configurabile, ad esempio, in caso di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, di influenza determinante di comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata.
 
     Si deve, peraltro, tenere presente che molte delle questioni rilevanti ai fini della scusabilità dell’errore sono questioni di interpretazione ed applicazione delle norme giuridiche, inerenti la difficoltà interpretativa che ha causato la violazione; in simili casi il profilo probatorio resta in larga parte assorbito dalla questio iuris, che il giudice risolve autonomamente con i propri strumenti di cognizione in base al principio iura novit curia.
 
     Spetta, quindi, al giudice valutare, in relazione ad ogni singola fattispecie, la presunzione relativa di colpa, che spetta poi all’amministrazione vincere; inoltre, in assenza di discrezionalità o in presenza di margini ridotti di essa, le presunzioni semplici di colpevolezza saranno più facilmente configurabili, mentre in presenza di ampi poteri discrezionali ed in assenza di specifici elementi presuntivi, sarà necessario uno sforzo probatorio ulteriore, gravante sul danneggiato, che potrà ad esempio allegare la mancata valutazione degli apporti resi nella fase partecipativa del procedimento o che avrebbe potuto rendere se la partecipazione non è stata consentita.
 
     Va, infine, precisato che alcun elemento contrario alla effettuata ricostruzione della nozione di colpa della p.a. può trarsi dalla giurisprudenza comunitaria.
 
     Con una recente sentenza la Corte di Giustizia ha sanzionato lo Stato del Portogallo per aver subordinato la condanna al risarcimento dei soggetti lesi in seguito alle violazioni del diritto comunitario che regolano la materia dei pubblici appalti alla allegazione della prova, da parte dei danneggiati, che gli atti illegittimi dello Stato o degli enti di diritto pubblico siano stati commessi colposamente o dolosamente (Corte Giust., 14 ottobre 2004, C-275/03).
 
     Tuttavia, tale decisione appare riferirsi all’onere della prova in relazione all’elemento soggettivo della responsabilità della p.a. e non alla esigenza di accertare la responsabilità, prescindendo dalla colpa dell’amministrazione.
 
     Come illustrato, nell’ordinamento italiano la possibilità per il privato danneggiato di utilizzare presunzioni pone sostanzialmente a carico della p.a. l’onere di dimostrare l’esistenza di un errore scusabile, senza alcuna lesione, quindi, dei principi comunitari.
 
     Inoltre, va considerato che la stessa Corte di Giustizia, pur non facendo riferimento alla nozione di colpa della p.a., utilizza, a fini risarcitori, il criterio della manifesta e grave violazione del diritto comunitario, sulla base degli stessi elementi, descritti in precedenza e utilizzati nel nostro ordinamento per la configurabilità dell’errore scusabile (Corte Giust. CE, 5 marzo 1996, C- 46 e 48/93, Brasserie du Pecheur, in cui, al punto 78, viene riconosciuto che alcuni degli elementi indicati per valutare se vi sia violazione manifesta e grave sono riconducibili alla nozione di colpa nell’ambito degli ordinamenti giuridici nazionali).
 
     5. Precisata la nozione di colpa della p.a., si tratta ora di applicare i suesposti principi alla fattispecie in esame.
 
     Nel caso di specie, la società ricorrente non si è limitata ad invocare l’illegittimità degli atti quale indice presuntivo della colpa della p.a., ma ha allegato anche ulteriori elementi, consistenti in interpretazioni contrarie alla tesi su cui è stato fondato il provvedimento annullato (Circolare del Ministero dei lavori pubblici del 25-10-99 e Atto di regolazione dell’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici n. 15 del 30-3-2000).
 
     Si ricorda che gli atti impugnati sono stati annullati per l’errata applicazione dell’art. 10, comma 1 quater, della legge n. 109/94.
 
     Tale comma prevede una verifica a campione tra i partecipanti alle gare di appalto per lavori pubblici, estesa all’aggiudicatario e al secondo classificato, per la dimostrazione del possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa, richiesti nel bando di gara; con la medesima disposizione viene stabilito che “quando tale prova non sia fornita, ovvero non confermi le dichiarazioni contenute nella domanda di partecipazione o nell’offerta, i soggetti aggiudicatori procedono all’esclusione del concorrente dalla gara, alla escussione della relativa cauzione provvisoria e alla segnalazione del fatto all’Autorità per i provvedimenti di cui all’articolo 4, comma 7, nonché per l’applicazione delle misure sanzionatorie di cui all’articolo 8, comma 7”.
 
     Nel caso di specie, le misure previste dalla citata norma sono state applicate alla ricorrente, solo perché non aveva i requisiti per partecipare alla gara, e non per aver reso dichiarazioni non veritiere o per non aver risposto alla richiesta prevista dal citato comma 1 quater.
 
     Il dato letterale della norma appare chiaro circa l’inapplicabilità delle sanzioni nei casi, in cui un’impresa in buona fede abbia errato in ordine alla interpretazione del bando o della normativa generale ed abbia ritenuto di avere il requisito in realtà carente o contestato.
 
     Come rilevato dal Tar, in tali evenienze, nelle quali l’impresa non ha dichiarato nulla di diverso e di più di ciò di cui è realmente in possesso, ma ha errato nel valutare sufficiente il requisito posseduto, non ha senso irrogare sanzioni che vadano oltre la fisiologica esclusione dell’impresa dalla gara.
 
     Si trattava, peraltro, di una norma entrata in vigore da oltre un anno e in relazione alla quale era già stata emanata un circolare del Ministero dei lavori pubblici, che chiariva come la verifica a campione dovesse riguardare solo le imprese ammesse a concorrere, e non anche le imprese escluse, come la ricorrente.
 
     Tale circolare del 25 ottobre 1999 è antecedente alla data dell’impugnato provvedimento (19-1-2000).
 
     Tale interpretazione è stata poi ribadita dall’Atto di regolazione dell’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici n. 15 del 30-3-2000.
 
     Il Tar ha evidenziato che, essendo tale atto successivo alla data dell’impugnato provvedimento, l’errore commesso dall’amministrazione doveva ritenersi scusabile.
 
     Si rileva che la scusabilità dell’errore deve essere, invece, esclusa perché il dato letterale delle norme appariva chiaro anche prima dei citati atti interpretativi e perché comunque il Ministero aveva fornito la corretta interpretazione fin dal 1999.
 
     Va, inoltre, rilevato che nello stesso Atto di regolazione dell’Autorità di vigilanza si fa riferimento all’esercizio dei poteri di autotutela in caso di errore nell’applicazione del citato art. 10, comma 1 quater.
 
     L’INAIL ha fatto presente di aver deciso di attendere l’esito del giudizio, senza uniformarsi all’Atto dell’Autorità, che non ha il carattere dell’interpretazione autentica e vincolante.
 
     Pur essendo vero che gli atti di regolazione dell’Autorità di vigilanza non hanno alcun carattere vincolante, la decisione dell’INAIL di attendere l’esito del giudizio implica la scelta di non esercitare i propri poteri di autotutela.
 
     Anche tale scelta va valutata ai fini della configurabilità, o meno, dell’errore scusabile, in quanto è evidente come il danno sarebbe stato inesistente, o comune attenuato, se a breve distanza dall’adozione dell’atto impugnato l’INAIL avesse fatto uso dei propri poteri di autotutela, invece non esercitati neanche dopo la archiviazione della segnalazione da parte dell’Autorità di vigilanza, avvenuta il 5 giugno 2000.
 
     Il fatto che tali poteri non siano stati esercitati dopo l’Atto di regolazione dell’Autorità di vigilanza e neppure dopo l’archiviazione della segnalazione da parte della stessa Autorità conferma l’assenza di scusabilità dell’errore, e della scelta di “tenere fermo l’errore”.
 
     In generale, va rilevato come, prima delle novità giurisprudenziali e normative in seguito alle quali sono stati eliminati i limiti “angusti” entro cui la p.a. poteva essere chiamata a rispondere in via risarcitoria, prevaleva una prassi tendente ad una netta separazione tra contenzioso ed amministrazione attiva: dopo aver concluso il procedimento amministrativo e in presenza di contestazioni mosse in sede giurisdizionale, l’amministrazione si limitava a difendersi in giudizio, attendendone l’esito.
 
     Oggi, la mera attesa dell’esito del giudizio può a volte esporre l’amministrazione alla condanna ad un consistente risarcimento del danno; ciò comporta che l’amministrazione deve saper valutare autonomamente le contestazioni al fine di verificare se ricorrano, o meno, i presupposti per l’esercizio dei poteri di autotutela.
 
     Nel caso di specie, ha errato l’amministrazione a ritenere che tali presupposti non sussistessero soprattutto dopo l’Atto di regolazione dell’Autorità di vigilanza.
 
     Sulla base di tali considerazioni deve, quindi, ritenersi sussistente l’elemento della colpa dell’INAIL, non essendo, invece, necessario accertare per la p.a. come apparato anche la colpa grave, come erroneamente dedotto dall’INAIL (è pacifico che le amministrazioni rispondano a titolo di colpa, anche lieve, senza che sia necessario che emerga la gravità della colpa).
 
     6. Con riferimento alla prova del danno e del nesso di causalità con l’illegittimità commessa e alla sua quantificazione, si rileva che la ricorrente ha prodotto in giudizio una serie di documenti attestanti le conseguenze patrimoniali negative, subite a seguito dell’escussione della cauzione e della segnalazione all’Autorità di vigilanza.
 
     In particolare, la ricorrente ha subito il congelamento della linea di affidamento con conseguente impossibilità di rilascio di nuove polizze anche da parte di altre compagnie (v. doc. 5 e 9 della appellante).
 
     Ciò ha comportato un rallentamento dell’attività di impresa causa la mancata partecipazione alle gare di appalto, dovuta all’impossibilità di reperire le polizze fideiussorie, con inutilizzazione del personale, messo in ferie o in cassa integrazione (doc. 10).
 
     La ricorrente ha quantificato tali danni in Lire 200 milioni, chiedendo anche i danni subiti per un asserito stress professionale; tale ultima richiesta non può essere accolta, sia per l’assenza di una minima prova, sia soprattutto per l’inconfigurabilità di una tale voce di danno in capo ad una società, che ha subito semplicemente un pregiudizio patrimoniale a seguito dell’illegittimità commessa dall’amministrazione.
 
     Con il documento n. 11 la ricorrente ha esposto un dettagliato calcolo della media mensile degli utili percepiti nel 1998 per gare vinte con enti pubblici e ha poi moltiplicato l’importo mensile per i cinque mesi, in cui ha avuto le menzionate difficoltà nel partecipare alle pubbliche gare (totale Lire 64.892.415).
 
     Ha poi computato ulteriori spese sostenute a causa della controversia, ammontanti a Lire 8.758.000.
 
     Tali elementi non sono stati contestati nel dettaglio dall’Inail, che si è limitato a dedurre che i danni lamentati non potevano derivare dall’illegittimità accertata, come dimostrerebbe la successiva dichiarazione di *** della ricorrente, indicativa di un generale stato di insolvenza della stessa.
 
     Al riguardo, si osserva che il *** della ricorrente costituisce elemento del tutto estraneo all’oggetto del giudizio e che il successivo stato di insolvenza, dichiarato oltre due anni dopo i fatti di causa, non è incompatibile con i danni lamentati e dimostrati con documenti, non oggetto di specifiche contestazioni.
 
     Per la quantificazione del danno, consistente nella mancata partecipazione ad altre gare di appalto, va rilevato che non si tratta di una danno da perdita di chance di aggiudicarsi una determinata gara, ma del pregiudizio derivante dall’impossibilità di partecipare alle gare di appalto, in relazione al quale può essere utilizzato il criterio della media degli utili percepiti in analogo periodo nell’anno precedente per gare con enti pubblici, con il limitato correttivo di considerare attualizzati ad oggi gli importi indicati al fine di compensare un calcolo, che per alcuni punti può apparire sovradimensionato; a tale somma non possono essere aggiunte tutte le spese richieste, per le quali era necessaria non una semplice dichiarazione ma specifiche prove, in assenza delle quali possono essere riconosciute solo quelle relative ad alcune delle attività indicate nell’allegato B al documento 11, nelle inferiore misura di Lire 2.877.035.
 
     Il danno può quindi essere quantificato in complessive Lire 67.769.450, pari ad Euro 35.000,00, con conseguente condanna dell’Inail al pagamento di tale somma in favore del *** ricorrente.
 
     7.1. Deve a questo punto essere esaminata la domanda di risarcimento, proposta anche nei confronti di due funzionari, ritenuti responsabili.
 
     La prima questione attiene all’individuazione della giurisdizione, cui è affidata la cognizione di tale domanda.
 
     Per l’azione risarcitoria diretta proposti nei confronti del funzionario pubblico non vi è una espressa indicazione del legislatore per il riparto di giurisdizione.
 
     Da un lato, vi è l’esigenza di consentire che una responsabilità solidale possa venire accertata nella stessa sede in cui è chiamata a rispondere l’amministrazione e, dall’altro lato, potrebbe assumere rilievo il fatto che si tratti di una domanda tra due soggetti privati, apparentemente estranea all’oggetto della giurisdizione del giudice amministrativo.
 
     Sul punto non vi sono molti precedenti a causa dell’esiguità dei casi, in cui la domanda viene proposta nei confronti del dipendente.
 
     Sul versante della giurisprudenza amministrativa, a fronte di isolate pronunce tendenti ad escludere la giurisdizione (Tar Friuli Venezia- Giulia, n. 903/199), nella maggior parte dei casi, è stata ritenuta sussistente la giurisdizione del giudice amministrativo (Cons. Stato, VI, 5 agosto 2005 n. 4153).
 
     Indicazioni univoche non provengono neanche dalla giurisprudenza ordinaria: in alcune decisioni è stata affermata la giurisdizione del giudice ordinario, con riferimento però a controversie in materia di pubblico impiego, in cui si chiedeva ad alcuni funzionari il risarcimento dei danni, derivanti da loro comportamenti arbitrari o comunque illegittimi (Cass., sez. Unite, n. 4591/2006 e n. 113/99); in altri casi, è stata affermata la giurisdizione del giudice amministrativo in relazione a controversie, in cui la domanda risarcitoria era stata proposta in solido nei confronti dell’amministrazione e di singoli dipendenti (Cass., sez. Unite, n. 10180/2004, in cui, la Suprema Corte, pur senza affrontare in modo diretto la questione, riconosce la giurisdizione del giudice amministrativo per l’intera domanda, proposta anche nei confronti dei dipendenti, evidenziando che la disposta concentrazione presso il giudice amministrativo – anche nell’ambito della sua giurisdizione di legittimità – del potere di procedere al risarcimento del danno consente di risolvere in un unico giudizio non solo le questioni relative all’annullamento degli atti illegittimi ma anche quelle attinenti al ristoro del pregiudizio da questi determinato, eliminando in tal modo il pericolo di contrasto fra giudicati).
 
     Tali esigenze di concentrazione e di evitare contrasti fra giudicati sono presenti anche nell’ipotesi, ricorrente nel caso di specie, di domanda risarcitoria per i danni c.d. da provvedimento amministrativo illegittimo, proposta anche nei confronti dei funzionari dell’ente.
 
     Una diversa soluzione determinerebbe l’effetto di impedire al privato di esercitare una unica azione per una responsabilità solidale e di avere due giudizi in cui in presenza del medesimo elemento oggettivo dell’illecito si potrebbero avere esiti contrastanti, anche in relazione a profili comuni non attinenti all’elemento soggettivo, che va invece valutato diversamente, come chiarito in seguito.
 
     In favore della giurisdizione del giudice amministrativo non vi sono solo tali esigenze di coerenza complessiva del sistema di tutela, ma depongono anche specifiche previsioni legislative.
 
     In particolare, l’art. 22 del T.U. n. 3/1957, attuando l’art. 28 della Costituzione, ha previsto che l’azione di risarcimento nei confronti dell’impiegato può essere esercitata congiuntamente con l’azione diretta nei confronti dell’Amministrazione qualora, in base alle norme ed ai principi vigenti dell’ordinamento giuridico, sussista anche la responsabilità dello Stato.
 
     La norma, che non è relativa alla giurisdizione, presuppone però che vi sia un unico giudice avente la cognizione di una domanda risarcitoria, che può essere proposta in solido nei confronti di diversi soggetti (amministrazione e dipendenti).
 
     Da ciò deriva che la giurisdizione delle domande proposte nei confronti dei dipendenti segue quella relativa alle domande proposte nei confronti dell’amministrazione.
 
     Ed, in effetti, sia l’art. 35, comma 1, del D. Lgs. n. 80/1998, sia l’art. 7, comma 3 della legge n. 1034/1971 prevedono che il giudice amministrativo, nell’ambito della giurisdizione sia esclusiva che di legittimità, disponga il (o conosca delle controversie relative al) risarcimento del danno ingiusto, senza limitare tale giurisdizione alle domande proposte nei confronti della sola amministrazione.
 
     Deve, quindi, ritenersi che quando il danno richiesto sia diretta conseguenza di una illegittimità provvedimentale, e non derivi da meri comportamenti dei pubblici dipendenti, la giurisdizione del giudice amministrativo in ordine alle domande risarcitorie proposte nei confronti dell’amministrazione, si estenda anche alle domande proposte nei confronti dei dipendenti.
 
     Tale conclusione si fonda su ragioni sistematiche che impongono di individuare un unico giudice per fattispecie di responsabilità solidale, e non su esigenze sussistenti solo in caso di connessione tra le due domande, dovendosi aderire all’orientamento delle Sezioni Unite della Cassazione, secondo cui la giurisdizione non può essere condizionata da ragioni di connessione, “precludendo l’ordinamento che la scelta del giudice possa dipendere dalla strategia processuale della parte che agisce in giudizio; ancor più perché si rimetterebbe alla volontà delle parti il realizzare o meno quella concentrazione di tutela giudiziaria, la cui ratio è alla base della soluzione legislativa, avallata dal giudice delle leggi, che ha attribuito alla giurisdizione amministrativa anche le controversie risarcitorie".(Cass., sez. Unite, n. 6745/2005).
 
     7.2. Accertata la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo, la domanda può essere esaminata nel merito.
 
     Va innanzitutto escluso che la responsabilità solidale e diretta dei pubblici dipendenti sia limitata ai soli atti compiuti in violazione di diritti, e non anche in caso di lesione di posizioni di interesse legittimo (in favore di tale limitazione, Cons. Stato, VI, n. 4153/2005).
 
     Infatti, il riferimento dell’art. 28 della Costituzione ai soli atti compiuti in violazione di diritti deve essere letto, da un lato, in relazione ad un periodo storico, in cui non era in alcun modo configurabile una responsabilità per danni causati per lesione di interessi legittimi e, dall’altro lato, unitamente al fatto che nella norma costituzionale è comunque contenuto un rinvio alle leggi penali, civili ed amministrative, che consente di adattare il principio alle evoluzioni dell’ordinamento.
 
     Il già citato art. 22 del T.U. n. 3/1957 si limita a far riferimento alla responsabilità verso terzi del dipendente per il danno ingiusto cagionato ed è noto come, a partire dalla sentenza n. 500/99 delle sezioni Unite, il concetto di danno ingiusto non sia più limitato ai danni causati alle posizioni di diritto soggettivo, ma include anche quelli derivanti dalla lesione di interessi legittimi.
 
     In tal senso deve oggi essere inteso anche il riferimento alla violazione di diritti, contenuto nell’art. 23 del citato T.U., riferito appunto al danno ingiusto e anche a situazioni di ritardo o omissione nel compimento di atti amministrativi (comma II), tipiche della lesione di interessi legittimi.
 
     7.3. Ciò, premesso, la domanda di risarcimento proposta nei confronti dei due funzionari è priva di fondamento per l’assenza del requisito della colpa grave.
 
     Infatti, mentre per la responsabilità della pubblica amministrazione è sufficiente la colpa, anche lieve, dell’apparato, i pubblici dipendenti sono chiamati a rispondere, anche nell’azione diretta del terzo danneggiato, solo a titolo di colpa grave, come esplicitato dall’art. 23 del T.U. n. 3/1957, richiamato anche per gli altri settori del pubblico impiego, in cui la responsabilità verso i terzi dei dipendenti è limitata alle violazioni commesse con dolo o colpa grave.
 
     Peraltro, tale limitazione, seppur con riferimento all’azione esperibile davanti alla Corte dei Conti, è stata ritenuta costituzionalmente legittima con argomentazione estensibili anche all’azione diretta del terzo (Corte Cost. m. 371/1998, in cui il giudice delle leggi ha ritenuto rispondente ai principi costituzionali l’intento del legislatore “di predisporre, nei confronti degli amministratori e dei dipendenti pubblici, un assetto normativo in cui il timore delle responsabilità non esponga all’eventualità di rallentamenti ed inerzie nello svolgimento dell’attività amministrativa”, riconoscendo che spetta al legislatore “determinare quanto del rischio dell’attività debba restare a carico dell’apparato e quanto a carico del dipendente, nella ricerca di un punto di equilibrio tale da rendere, per dipendenti ed amministratori pubblici, la prospettiva della responsabilità ragione di stimolo, e non di disincentivo”).
 
     Tali considerazioni inducono non solo a ritenere necessaria la sussistenza del requisito della colpa grave per riconoscere la responsabilità dei singoli dipendenti, ma anche a richiedere un maggiore onere probatorio al privato danneggiato, che intenda chiamare a rispondere, a titolo solidale, anche il funzionario.
 
     Tale onere probatorio non è stato in minima parte assolto dalla società ricorrente, che non ha neanche indicato le ragioni per cui ha individuato i due funzionari quali responsabili dell’illegittimità commessa.
 
     Inoltre, era onere dell’Inail come apparato mettere a conoscenza i propri dipendenti con tempestività dei menzionati atti interpretativi, intervenuti prima e dopo l’adozione dell’atto annullato, mentre tale mancata conoscenza da parte del singolo non può integrare il requisito della colpa grave.
 
     Peraltro, riguardo la decisione di attendere l’esito del giudizio senza esercitare i poteri di autotutela, non vi sono elementi per ritenere che sia dipesa dai due funzionari chiamati in giudizio, e non da una condotta processuale decisa ad altro livello dall’ente (si deve tenere conto che la maggior parte del danno accertato è stata causata in periodo successivo all’Atto di regolazione dell’Autorità di vigilanza, in seguito al quale, come già detto, l’Inail ha sostenuto in giudizio di aver deciso di attendere l’esito del giudizio senza esercitare i propri poteri di autotutela, stante il carattere non vincolate degli Atti dell’Autorità di vigilanza).
 
     Deve quindi ritenersi esclusa la sussistenza del requisito della colpa grave in capo ai due funzionari, chiamati in giudizio a titolo di responsabilità solidale con l’ente di appartenenza.
 
     8. In conclusione, l’appello deve essere in parte accolto e, in riforma della sentenza impugnata, deve essere accolta in parte la domanda risarcitoria proposta nei confronti dell’Inail, con condanna di quest’ultimo al pagamento in favore del *** appellante della somma di Euro 35.000,00 e deve essere respinta la domanda di risarcimento proposta nei confronti dei due funzonari.
 
     Alla soccombenza dell’Inail seguono le spese di giudizio nella misura indicata in dispositivo (con accoglimento, pertanto, del motivo di appello relativo alla compensazione delle spese disposta in primo grado), mentre nulla deve essere disposto per le spese in relazione alla domanda proposta nei confronti dei due funzionari, in assenza di costituzione di questi ultimi.
 
P. Q. M.
 
     Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, accoglie in parte il ricorso in appello indicato in epigrafe e per l’effetto, in parziale riforma della sentenza impugnata, accoglie in parte la domanda di risarcimento del danno proposta nei confronti dell’Inail e condanna l’Inail al pagamento, in favore del *** *** s.r.l., della somma di Euro 35.000,00.
 
     Respinge la domanda di risarcimento proposta nei confronti dei funzionari *** Vincenzo e *** Luigina.
 
     Condanna l’Inail alla rifusione, in favore del *** appellante, delle spese di giudizio, liquidate nella complessiva somma di Euro 6.000,00, oltre Iva e C.P., nulla disponendo per le spese in relazione alla domanda proposta nei confronti di *** Vincenzo e *** Luigina.
 
     Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
 
     Così deciso in Roma, in data 11-4-2006 dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale – Sez.VI
DEPOSITATA IN SEGRETERIA – il..23/06/2006

Lazzini Sonia

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