L’equità nella filosofia del diritto: brevi appunti sulla sua origine aristotelica

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Key-words: philosophy of law, aristotelianism, fairness principle.

INTRODUZIONE

Lo studio dell’equità rappresenta l’analisi di un tema cui origine si confonde con la propria origine del diritto e della nozione di giustizia nel pensiero giuridico occidentale. Consapevoli di ciò, dobbiamo riprendere la concezione tradizionale offerta dalla filosofia del diritto che risale, inesorabilmente, al pensiero aristotelico.

Prima di tutto, dobbiamo sottolineare che il linguaggio della teoria del diritto ha convenzionato definire equità in tre sensi diversi:[1]

  • come una virtù propria dei sistemi normativi, in particolare quello giuridico, il quale conferisce al legislatore – e anche all’interprete della norma – il dovere di prenderla sempre considerando la sua finalità di essere mezzo per l’attuazione della giustizia nel caso concreto, in conformità con quanto detto da Ulpiano: suum ciuque tribuere;
  • come una facoltà concessa ai giudici ed arbitri, i quali applicano la norma giuridica e che devono risolvere delle controversie, decidendo anche con fondamento in elementi che non siano quelli presenti nel diritto positivo;
  • come un sottosistema della famiglia dei diritti del common law che era utilizzato dal Cancelliere del Re per fare giustizia nei casi dove le persone ricorressero al Re come l’ultima alternativa per ottenere giustizia. Il Cancelliere del Re ha cominciato a fare uso di questa giurisdizione, denominata equity, la quale, differentemente dalle Corti di common law, era un processo inquisitorio, scritto, sviluppato dalla casuistica e senza la presenza della Giuria, questa che è, per eccellenza, una istituzione caratteristica del sistema di common law.[2]

Per non trattarsi di una ricerca storiografica sul common law, abbiamo scelto di astenerci dell’analisi di questo terzo senso possibile. Tenendo come base l’opera di Aristotele, ci concentreremo sull’idea di equità come virtù e, per conseguenza, come strumento di realizzazione del giusto politico (politikón díkaion).

 

1. L’EQUITÀ NELLA FILOSOFIA DI ARISTOTELE

Nonostante non sia stato Aristotele il «padre» dell’espressione equità – perché infatti questo termine è d’origine immemorabiale –, si ritiene che lui è stato il primo filosofo ad offrire un contributo marcante alla storia del pensiero filosofico, e da dove siamo abituati a iniziare gli studi che abbiano per scopo quello di trattare il concetto di equità. In questo modo, è nell’Etica Nicomachea e nella Retorica che troviamo i più importanti contributi aristotelici a questo soggetto.

Nella Retorica Aristotele concepisce equità (epieíkeia) come la «forma di giustizia che va al di lá della legge scritta».[3] Si può dire che l’equità è il punto dove si può trovare una proporzione in relazione al bene comune e a quell’individuale tra i soggetti coinvolti nell’azione. Essa si assomiglia all’uguaglianza e, soprattutto, alla giustizia (dikaiosyne), però per quanto riguarda la natura della giustizia e dell’equità «appare chiaro che in senso assoluto non sono la stessa cosa, ma che non sono neppure diversi per genere».[4] Insomma, l’equo è il punto intermediario tra il più e il meno.

La chiara distinzione tra equità e giustizia sorge nel momento in cui questa si divide in giusto legale (nomikon díkaion) e giusto naturale (physikon díkaion, o «giustizia assoluta»). Ambedue i concetti si trovano compresi nella nozione di giustizia politica:

II giusto relativo alla sfera politica si divide in naturale e legale. Naturale è quello che ha dovunque lo stesso potere e non dipende dall’opinare o dal non opinare, legale è quello che in origine non fa differenza se sia in un certo mo­do o in un altro, ma, quando viene formulato, fa differenza (per esempio, quando si stabilisce che il riscatto sia due mi­ne, o di sacrificare una capra e non due pecore) e inoltre cio che è stabilito legalmente riguardo ai casi singoli (come di sa­crificare a Brasída) e quanto viene stabilito per decreto.[5]

In questo senso, Aristotele attribuisce all’equità il compito di far preponderare il giusto assoluto nei casi in cui il giusto legale si dimostri iniquo ed incapace di permettere la realizzazione della giustizia politica. L’equità porta al caso concreto la possibilità di correggere eventuali equivoci commessi dal legislatore, oppure colmare delle lacune che la sua attività legislativa non ha potuto prevedere. Si può così considerarla come un elemento sussidiario alla nozione di giustizia, ma che finisce per attribuirle dinamismo ermeneutico quando l’interprete si trova di fronte ad un caso concreto che non presenta soluzione preveduta dalla norma giuridica.

Aristotele espone con chiarezza il funzionamento del rapporto tra giusto legale, giusto naturale (assoluto) ed equità, quando afferma che:

1’e­quo è giusto, ed è migliore di un certo tipo di giusto, non del giusto in assoluto, ma di quell’errore che ha come causa la formulazione assoluta. E questa è la natura dell’equo, di essere correzione della legge, nella misura in cui essa viene meno a causa della sua formulazione universale. Questa è la causa anche del fatto che non tutto avviene in base a una legge, cioè al fatto che in certi casi non è possibile stabilire una legge, e c’è bisogno di un decreto particolare. Di ciò che è indeterminato anche la misura è indeterminata, come il regolo di piombo tipico del modo di costruire che hanno a Lesbo, infatti tale regolo si adatta alla forma della pietra e non rimane saldo: allo stesso modo il decre­to si adatta ai fatti.[6]

Nello stesso senso, Chäim Perelman ha definito equità come «una tendenza a non trattare in modo troppo disuguale degli esseri facenti parte di una stessa categoria essenziale».[7]

Secondo il belga, la società si trova in una incessante oscillazione tra giustizia legale («giustizia formale», secondo le parole di Perelman) ed equità. Ci soccorreremmo in questa quando il processo d’elaborazione di una regola di diritto positivo non ha fatto attenzione alle caratteristiche essenziali alle quali importanti settori della popolazione (oppure tutta questa) attribuiscono qualche valore, facendo sì che l’applicazione della regola positiva assuma un carattere dissonante con i valori e princípi di diritto vigenti nel momento storico nel quale la regola sta per essere applicata al caso concreto. [8]

Perelman sostiene che il legislatore quando elabora una regola positiva tende ad impiegare un «principio d’azione secondo il quale gli esseri di una stessa categoria essenziale devono essere trattati allo stesso modo.»[9] Partendo da ciò, Perelman afferma che il legislatore potrà scegliere per una delle seguenti formule di giustizia concreta[10]:

a) a ciascuno la stessa cosa;

b) a ciascuno secondo i suoi meriti;

c) a ciascuno secondo il suo rango;

d) a ciascuno secondo le sue opere;

e) a ciascuno secondo i suoi bisogni;

f)  a ciascuno secondo quanto la legge gli attribuisce.

Si deve fare attenzione che dentro alle riferite formule esiste un forte senso d’equità che serve come punto di partenza per tutto il seguente sviluppo della formula. Tuttavia, quando il processo di applicazione della regola positiva al caso concreto dimostrasi iniquo o ingiusto, anche se tale regola sia sostenuta da una di quelle formule, dovrà l’interprete cercare una decisione che abbia come nord il senso d’equità che era presente nella società e nell’animus legislatoris quando dalla creazione di questo diritto, invece di appena applicare al caso il contenuto della regola positiva.

Per facilitare il compito dell’applicatore del diritto, Otfried Höffe considera l’equità come sinonimo d’imparzialità, una volta che princípi di giustizia valgono anche nelle questioni procedurali, come si può vedere nell’obbligo di prestare ascolto alla parte avversa in una disputa (audiatur et altera pars) e al divieto di giudicare della propria causa (nemo judex in sua causa).[11]

Il principio di imparzialità – che secondo Höffe corrisponde all’equità –  rappresenta il divieto a qualsiasi specie di vincolo tra la persona che giudicherà il caso – e, di conseguenza, potrà applicare la regola positiva al caso concreto – e una delle parti coinvolte nel processo, permettendo che la sua attività intelettivo-razionale non sia viziata da qualsiasi specie di distorzione decorrente da un coinvolgimento soggettivo con il caso.

Höffe aggiunge che “l’imparzialità si esprime anche nella regola secondo cui le dispute vanno appianate ‘senza riguardo per la persona’, dove si considera ovvio il fatto che Justitia non è Fortuna: anche quest’ultima distribuisce i doni della sua cornucopia senza riguardo per la persona – ma anche senza operare alcuna scelta razionale. La giustizia consiste nella negazione di un simile arbitrio: una condizione minima dell’imparzialità è perciò detta proibizione dell’ arbitrarietà.[12]

Si deve dire, infine, che  trattandosi di qualcosa superiore a un tipo di giustizia, cioè, la giustizia legale (nomikon díkaion), e utilizzata come strumento correttivo di questa (epanothoma nomikon díkaion), l’equità è considerata, nel pensiero aristotelico, come avendo origine nella disposizione di carattere che l’uomo equitativo possiede. Ossia, trattasi anche di una virtù (aretê). L’uomo equitativo ha come caratteristiche fondamentali: scegliere e praticare atti equitativi, e non attenersi in modo intransigente ai suoi diritti, tendendo a prendere meno di quello che gli competerebbe, anche nelle situazioni in cui la legge è a suo favore.[13]

Questa possibile confusione concettuale circa la natura dell’equità, una volta che può venire definita tanto come una virtù oppure come una specie di giustizia, lascia di avere rilevanza quando consideriamo che, secondo il pensiero aristotelico, la razionalità umana è essenzialmente pratica, ossia, si concentra nella realizzazione della potenza in forma di atto concreto. Di ciò resulta inevitabile concepire l’equità anche come una specie di giustizia, poichè si trova al di sopra del giusto legale (nomikon díkaion) e al di sotto del giusto naturale (physikon díkaion). Tuttavia, soltanto potrà venire esercitata da parte d’un uomo virtuoso che sia capace di scegliere e praticare atti equitativi. Insomma, l’equità può venire interpretata nella filosofia aristotelica come un strumento di giustizia formale, destinata a soluzionare conflitti tra commandi normativi collidenti, però sua attuazione dipenderà dell’esistenza di una disposizione di carattere nell’individuo che deve realizare l’azione.

 

CONSIDERAZIONI FINALI

La comprensione dell’equità e della giustizia come concetti che possiedono una forte identità tra di loro ci permette di portare la virtù dell’equità al centro dei dibattiti sull’Etica. Considerando che le quattro virtù cardinali di Platone – che Aristotele ha incorporato nella sua opera, aggiungendone altre – sono: Temperanza (sophrosyne), Saggezza (phronesys), Coraggio (andreia), e Giustizia (dikaiosyne); si percepisce che al pensiero filosofico sviluppato nell’Antica Grecia l’equità era più di una mera fonte di diritto secondaria: costituivasi in una virtù d’importanza centrale allo sviluppo etico di un uomo buono.

 

RIFERIMENTI bibliogrAficI

Aristotele, Etica Nicomachea, Roma-Bari: Laterza, 2003.

Retorica. Roma-Bari: Laterza, 1961.

Bittar, E. C. B. Curso de Ética Aristotélica. São Paulo: Manole, 2003.

DAVID, R.; Blanc-Jouvan, X. Le droit anglais. Paris: PUF, 2001.

HÖFFE, O. Giustizia Política. Bologna: Il Mulino, 1995.

PERELMAN, C. La Giustizia. Torino: Giappichelli, 1991

SOARES, G. F. S. Curso de Direito Internacional Público. São Paulo: Atlas, 2002.

 


[1] Guido Fernando Silva Soares, Curso de Direito Internacional Público, São Paulo, Atlas, 2002, pp. 103-104.

[2] René David; Xavier Blanc-Jouvan, Le droit anglais, Paris, PUF, 2001, p. 12.

[3] Aristotele, Retorica, I, XIII, 1374 a-b.

[4] Aristotele, Etica Nicomachea, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 215.

[5] Aristotele, op. cit., p. 199.

[6] Aristotele, op. cit.,  pp. 216-217.

[7] Chäim Perelman, La Giustizia, Torino, Giappichelli, 1991, p. 61.

[8] «La vita sociale presenta una continua oscillazione tra la giustizia e l’equità. Ci si rivolge a quest’ultima ogni qualvolta nell’elaborazione di una legge o di un regolamento, non si è tenuto conto di caratteristiche essenziali alle quali importanti strati della popolazione, indicati sotto l’appellativo di opinione pubblica, annettono un qualche valore.» Chäim Perelman, op. cit., p. 65.

[9] Chäim Perelman, op. cit, p. 37.

[10] Chäim Perelman, op. cit, p. 38-55.

[11] «Anche nelle questioni procedurali valgono princípi della cui giustizia quasi nessuno dubita: si pensi solo all’obbligo di prestare ascolto alla parte avversa in una disputa (audiatur et altera pars) e al divieto di giudicare della propria causa (nemo judex in sua causa). Tali princípi procedurali sono considerati giusti, perché rispondono a un principio di giustizia a essi sopraordinato e ugualmente poco contraddetto, quello dell’imparzialità (equità).» Otfried Höffe, Giustizia Poiítica, Bologna, Il Mulino, 1995, p. 35.

[12] Ibidem, p. 39.

[13] Aristotele, Etica Nicomachea, cit., p. 215.

Anderson Vichinkeski Teixeira

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