L’arricchimento senza causa nei confronti della pubblica amministrazione

Calabrò Arles 28/04/17
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L’ordinamento giuridico tutela la libertà di iniziativa economica purché finalizzata a perseguire interessi meritevoli.

L’art. 41 della Carta fondamentale afferma che l’iniziativa economica privata è libera e non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana.

Secondo l’impostazione maggioritaria, il concetto di meritevolezza non si esaurisce nell’assenza di dannosità sociale / illiceità, ma implica altresì una valutazione di rilevanza, ovvero la non indifferenza per l’ordinamento giuridico, in termini di utilità sociale dello schema contrattuale divisato dai paciscenti.

Attraverso le vigenti dipsosizioni normative o contrattuali gli interessi entrano dunque nella realtà giuridica plasmandola. Gli scopi egoistici (cd lucro soggettivo), che le transazioni commerciali perseguono, per risultare meritevoli di tutela, devono essere contemperati con esigenze di solidarietà economica e sociale. Tale valutazione è compiuta dallo stesso legislatore rispetto ai contratti tipizzati e dall’interprete nelle ipotesi di contratti atipici, ex art. 1322 cc, alla luce dell’ordinamento giuridico complessivamente considerato. 

L’azione di ingiustificato arricchimento, disciplinata dagli articoli 2041 e 2042 c.c., consente al soggetto che, senza giusta causa, abbia subito un impoverimento con correlativo arricchimento da parte di altri, di ottenere da questi un indennizzo nei limiti della diminuzione patrimoniale subita, laddove non esista altra azione esperibile.
Secondo la teoria maggioritaria, la regola posta per l’arricchimento senza causa è volta a garantire la necessaria causalità degli spostamenti patrimoniali. Il nostro ordinamento, infatti, non ammette in linea di principio che vicende aventi ricadute economiche per coloro che le pongono in essere possano mancare di idonea ragione giustificatrice. Ciò in ragione del fatto che, nell’ambito di un qualsivoglia programma negoziale (unilaterale, bilaterale  o plurilaterale), una causa deve essere sempre riscontrabile: essa potrà essere insita nell’obbligazione assunta o nel negozio posto in essere, ma dovrà comunque esistere e permanere. Se, infatti, la ragione giustificatrice manca ab origine o viene meno successivamente, sarà possibile ottenere la restituzione di quanto prestato.

In quanto elemento strutturale la causa non può mai mancare, pena la nullità del contratto per violazione di norme imperative, ex art. 1418 c.c., e salva la previsione di promesse unilaterali acausali, eccezionalmente tipizzate dalla legge (art. 1987 e ss cc).

La nullità produce in capo alle parti l’obbligo di restituzione della prestazione eventualmente eseguita (art. 2033 cc), così riallineando la situazione materiale successiva allo spostamento patrimoniale a quella preesistente.

Alla stregua di un’esegesi meramente letterale, l’azione di nullità è imprescrittibile, mentre sono fatti salvi gli effetti dell’usucapione e anche quelli dell’azione di ripetizione (art. 1422 cc).

Può dunque verificarsi l’ipotesi in cui la parte, che in base ad un contratto invalido abbia compiuto un atto di disposizione del patrimonio a vantaggio dell’altra, non possa agire in restituzione, ad es. perché il vizio viene scoperto dopo più di dieci anni dalla stipulazione del contratto. A rigore, in ale evenienza, l’interessato sarebbe privo di azione. Tuttavia, proprio per evitare spostamenti patrimoniali non giustificati e dunque indebiti arricchimenti, l’art. 2041 cc prevede una norma generale e di chiusura del sistema. Essa si colloca infatti subito prima del Titolo IX “Dei fatti illeciti” ponendosi in limine tra il contratto e l’illecito aquiliano e disciplina la fattispecie dell’arricchimento senza causa, esperibile in via sussidiaria ovvero in assenza di altri rimedi. I presupposti delineati consistono nell’arricchimento di un soggetto in danno di un altro che, specularmente, si impoverisce. Ciò genera un obbligo di indennizzo in relazione alla diminuzione patrimoniale non assistita da “giusta causa”.

Sul concetto di giusta causa appaioano opportune alcune precisazioni.

Si tratta di una locuzione generica e ricorrente anche in altre norme, ad es in relazione al licenziamento del lavoratore subordinato/dipendente pubblico. Proprio il carattere indeterminato chiama l’interprete ad un compito di eterodeterminazione attraverso l’impiego dei principi generali. Essa può essere intesa con riferimento alla singola pattuizione (causa presente e lecita) di cui si è detto, oppure in confronto con l’intero ordinamento giuridico, onde ricercare aliunde rispetto al contratto una ratio giustificatrice dello spostamento patrimoniale. In questo secondo significato la “giusta causa” di cui all’art. 2041 cc rivela la portata sussidiaria e residuale della norma applicabile quando, al di là delle sorti del contratto, secondo i principi generali, l’attribuzione patrimoniale non possa essere ritenuta meritevole di tutela e per questo debba essere restituita in parte qua.

Come è stato rilevato, il riferimento all’indennizzo non è casuale, anzi consente di definire meglio la casistica sottesa all’art. 2041 c.c.: infatti, il fatto generatore dello scompenso fra i patrimoni dovrà essere comunque un fatto lecito. Laddove, infatti, la condotta che cagioni la diminuzione patrimoniale sia contra ius e non iure, si ricadrà nell’ambito della clausola generale di cui all’art. 2043 c.c., con conseguente      obbligo di    risarcire il       danno.
È chiaro, dunque, che la norma opera solo e soltanto quando vi sia un fatto o una condotta consentita dall’ordinamento che, pur astrattamente lecita, finisca per provocare squilibri patrimoniali non sorretti da una valida giustificazione.
È evidente, altresì, che non si dovrà trattare di un caso ascrivibile nell’area dell’indebito: laddove, infatti, sia data al soggetto tale azione per ottenere la restituzione della prestazione effettuata, non sarà invocabile l’azione di cui all’art. 2041     c.c.
La sussidiarietà dell’azione, infatti, impone di ritenere che il ricorso al rimedio sia consentito per fronteggiare solo situazioni sui generis, che non possano essere ricondotte ad altre azioni tipiche codicistiche. La dottrina maggioritaria dubita, pertanto, che l’azione sia esperibile quando in linea astratta esista un altro strumento di tutela, ancorché questo sia precluso in via concreta (ad esempio per l’intervenuta decadenza   o     per  prescrizione).
L’individuazione dell’ambito applicativo dell’art . 2041 c.c. ruota, pertanto, intorno alla delimitazione del fatto lecito capace di generare al tempo stesso l’arricchimento di un soggetto      e       l’impoverimento dell’altro.
Si tratta, in realtà, di una casistica molto eterogenea, difficilmente identificabili a priori.

Quanto alle conseguenze, come già si è avuto modo di anticipare, l’ingiustificato arricchimento obbliga la parte avvantaggiata ad indennizzare l’altra della correlativa perdita patrimoniale. La norma parla di indennizzo, elemento che denota la liceità del fatto generatore dell’obbligo, ex art. 1173 cc. Infatti, è bene ribadirlo, presupposto dell’obbligo è la mancanza di una giusta causa e non la presenza di una causa illecita o di un fatto illecito. Di indennità il codice tratta in altre disposizioni, quale ad es. l’art. 1151 c.c. che afferma il relativo diritto in capo al possessore di buona o mala fede, l’art. 1127 c.c. che ne afferma l’obbligo in capo al proprietario dell’ultimo piano del condominio il quale eserciti la facoltà di sopraelevazione e ancora l’art. 2045 c.c. in punto di danni procurati dal soccorso di necessità. Dunque, la natura dell’indennizzo è diversa da quella del risarcimento, che presuppone un fatto illecito, contrattuale o extra contrattuale. Questo aspetto riverbera i suoi effetti anche in punto di quantum. Infatti, mentre il risarcimento del danno deve corrispondere ex artt. 1223 e 2056 cc sia alla perdita sia al mancato guadagno, in quanto conseguenza immediata e diretta, l’indennizzo viene commisurato alla diminuzione patrimoniale correlata all’assenza di giusta causa. La liceità del pregiudizio di cui all’art. 2041 c.c. rileva poi anche sotto il profilo soggettivo. L’art. 2041 c.c. infatti non allude al dolo o alla colpa, diversamente dall’art. 2043 c.c. dove l’addebito risarcitorio è possibile solo se il danneggiante oltre ad essere capace di intendere e volere al momento del fatto abbia agito con dolo o colpa. La colpa poi si presume anche nell’illecito contrattuale ex art. 1218 cc, aspetto che determina una inversione dell’onere della prova. Circa il carattere sussidiario dell’azione rispetto a quelle previste ex lege a tutela del rapporto, si osserva come l’art. 2042 cc stabilisca che l’azione di arricchimento non è proponibile quando il danneggiato può esercitare un’altra azione. Parte della dottrina ritiene che la norma andrebbe intesa in senso astratto, con la conseguenza che l’art. 2041 cc potrebbe impiegarsi solo in mancanza previsione di altra azione specifica. Se accolto, esso relegherebbe l’art. 2041 cc ad un ruolo di scarsissima rilevanza, atteso il carattere assolutamente marginale dei casi in cui l’ordinamento non preveda alcun rimedio, quali ad es le obbligazioni naturali (art. 2034 cc) o la prestazione contraria al buon costume (art. 2035 cc). In questi casi però mancano, a ben vedere, interessi meritevoli di tutela, o perché irrilevanti per l’ordinamento giuridico (esecuzione di doveri morali o sociali) o perché contrari al buon costume e per questo sanzionati con la irripetibilità della prestazione. Secondo un’altra tesi, maggiormente condivisibile nonché maggioritaria nel panorama dottrinale e giurisprudenziale, l’assenza di azione andrebbe invece intesa in senso concreto, rendendosi praticabile il rimedio dell’ingiustificato arricchimento laddove, ad esempio, la specifica azione accordata dall’ordinamento sia prescritta (art. 1422 e 2033 cc). Questa interpretazione consente un impiego più flessibile dell’art. 2041 cc, consentendo all’interprete di modularlo alla luce di esigenze di equità del caso singolo, evitando che una stretta interpretazione del diritto si risolva in una “giustizia ingiusta”. 

A titolo meramente esemplificativo, si ponga mente al caso, affrontato dalla giurisprudenza di merito, in cui i genitori di un soggetto decidono di effettuare dei lavori di ristrutturazione sull’immobile del futuro coniuge del figlio, sostenendo spese per la sistemazione della futura casa coniugale, quando poi il matrimonio non sarà più celebrato.
In questa eventualità, si genera uno spostamento patrimoniale che, inizialmente sostenuto dall’affectio, quale causa giustificatrice, finisce poi per essere privo di giustificazione: infatti, mentre i genitori di uno dei futuri sposi si impoveriscono, l’altro futuro sposo acquisisce delle utilità sull’immobile di cui è proprietario. È evidente altresì che, nella specie, non si è al cospetto né dell’animus donandi né dell’animus solvendi, con la conseguenza che l’attività si connota esclusivamente sul piano meramente fattuale.
In tal caso, inoltre, non è possibile neanche invocare l’art. 81 c.c. per il caso della rottura della promessa di matrimonio in forma solenne: infatti, l’azione apposita ivi contemplata è data ad un promittente nei confronti dell’altro e non è estensibile analogicamente a terzi, in ragione del suo carattere eccezionale.
La stessa giurisprudenza di legittimità ha, altresì, sostenuto che l’azione ex 2041 c.c. è invocabile anche con riguardo agli spostamenti patrimoniali in ragione dell’instaurazione di una       futura    convivenza.
Si pensi all’ipotesi di quel soggetto che, in vista della futura convivenza, arredi l’appartamento del soggetto con cui intende andare a vivere stabilmente, nel caso in cui un simile proposito venga successivamente meno per rottura della relazione       amorosa.
La giurisprudenza riconosce, infatti, che l’acquisto del mobilio, lasciato nell’appartamento del futuro convivente, assurge a fatto generatore di ingiustificato arricchimento. Si osserva, cioè, che un simile spostamento patrimoniale finisce per obbligare colui che ha comunque beneficiato di quegli arredi a dover corrispondere all’altro soggetto un quantum, parametrato al godimento che ne abbia tratto dall’uso per un certo periodo, ferma restando la possibilità di procedere, per il futuro, alla restituzione del mobilio, in modo da porre termine alla situazione di arricchimento.
Vi è, invece, contrasto in dottrina e giurisprudenza circa l’esperibilità dell’azione di ingiustificato arricchimento di un convivente nei confronti dell’altro quando, in seguito alla rottura della convivenza, si chieda di essere indennizzati per gli impoverimenti patiti a causa della convivenza.
In realtà, in una simile ipotesi, il dato ostativo è rappresentato dal fatto che la giurisprudenza è concorde nel ritenere che le prestazioni effettuate nella convivenza rientrino nel novero delle obbligazioni naturali e siano come tali      irripetibili.
Una maggiore apertura si riscontra però laddove si dimostri che gli oneri sostenuti siano stati molto più gravosi rispetto alla normale contribuzione al menage familiare o che uno dei conviventi abbia perso qualsiasi introito da attività lavorativa in ragione dell’esigenza di liberare le energie dell’altro    convivente.
Orbene, dopo questa sintetica carrellata inerente la casistica giurisprudenziale riferita alla materia di cui trattasi, al di fuori di tali casi brevemente analizzati, si rileva come la casistica più corposa in materia di ingiustificato arricchimento sia senza dubbio rappresentata dalle pretese avanzate dai liberi professionisti nei confronti della pubblica amministrazione, con riguardo all’attività svolta di fatto e in assenza di un titolo contrattuale.

La PA, in quanto soggetto di diritto pubblico esponenziale degli interessi dell’intera collettività stanziata sul territorio nazionale, è solita avvalersi dell’apporto di imprese private per la realizzazione di opere, servizi e lavori pubblici. L’agere amministrativo è finalizzato al perseguimento di interessi generali, in ossequio ai principi costituzionali del buon andamento e dell’imparzialità dell’amministrazione. A tal fine la PA agisce come soggetto di diritto pubblico, secondo la disciplina del Codice degli Appalti, qualora stipuli contratti passivi, ovvero che importino esborsi di denaro pubblico. In questi casi la procedura dell’evidenza pubblica costituisce garanzia di pubblicità e trasparenza delle operazioni e dunque di ottimale allocazione delle risorse.

In determinate circostanze, evidentemente legate ad eventi riconducibili alla necessità, all’urgenza o ad una mera disorganizzazione procedurale, detti requisiti formali non sono osservati. Questo è il panorama che spesso la prassi offre, anche in ragione del fatto che qualora si attendesse il completamento di tutto l’iter burocratico, la possibilità di approvvigionarsi di determinati servizi in tempi utili, ne risulterebbe compromessa, con evidenti ricadute anche sulla collettività. Accade pertanto che funzionari o dirigenti pubblici stipulino contratti d’opera o di somministrazione, ex artt. 2222, 2229 e 1559 cc, senza l’osservanza delle richieste formalità, il che vale a considerare il contratto tanquam non esset, non ritenendosi, a tal fine, sufficiente una delibera dell’organo esecutivo (ad es Giunta Comunale) di approvazione della spesa. Inoltre è anche possibile che la prestazione venga richiesta, autorizzata e quindi eseguita senza accurata verifica di adeguate coperture finanziarie in bilancio o che l’esecuzione della prestazione preceda la stipula di un regolare contratto il cui corrispettivo venga corrisposto solo successivamente all’approvvigionamento del servizio.

In tali evenienze, la questione che si pone all’attenzione dell’interprete è se il privato professionista sia titolare di legittimazione ad agire e con quali strumenti in caso di ingiustificato arricchimento della PA. Formalmente l’accordo è intercorso con il rappresentante legale della PA e dunque il libero professionista potrebbe esperire azione di indebito oggettivo ex art. 2033 cc nei confronti di quest’ultimo, il quale però, in virtù del nesso di immedesimazione organica, risulta immune da tali censure, ricadendo, queste ultime, direttamente in capo allo stesso Ufficio pubblico a cui il rappresentante legale afferisce. La PA, del resto, sarebbe il soggetto effettivamente avvantaggiato dall’operazione che ha comportato un’entrata di beni, servizi, forniture, ecc. Potrebbe soccorrere in proposito l’art. 28 Cost, il quale, nell’affermare la responsabilità dei funzionari e dipendenti dello Stato secondo le leggi civili, penali e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti, estende detta responsabilità anche allo Stato in funzione sussidiaria. Tuttavia, nel caso di specie, non sembra che l’art. 28 Cost possa essere richiamato. Infatti, non si tratta di un atto illecito, ovvero contra ius, ma di un vantaggio di cui la PA ha approfittato senza giusta causa, ovvero senza remunerare la controparte per la prestazione eseguita. Né, come detto, il funzionario ha agito in nome proprio, imputando l’affare alla PA medesima. In ogni caso, qualora il privato si rivalesse verso il funzionario persona fisica, è ragionevole ritenere che l’escussione si rivelerebbe infruttuosa. Il patrimonio del debitore costituisce garanzia generica verso il creditore (art. 2740 cc), ma quello della persona fisica potrebbe non essere sufficiente a soddisfare il credito vantato nei confronti di un ente pubblico. In casi simili, la giurisprudenza è propensa ad arginare il fenomeno, riconoscendo al privato la legittimazione ad agire ex art. 2041 nei confronti della PA, quale soggetto mediato, in quanto concretamente avvantaggiato dalla prestazione del privato, ma diverso dalla controparte del rapporto. In questo caso la giurisprudenza è dunque giunta ad ammettere che la PA possa essere parte in causa,  ex art. 2041 e che presupposto dell’azione de qua non sia più l’unicità del fatto generatore di ingiustificato arricchimento. Esso, nel caso di specie, si scompone nella diminuzione del patrimonio del privato da una parte e nell’incremento del patrimonio pubblico dall’altra, volto a beneficio di un soggetto terzo rispetto al rapporto.

Ma vi è di più.

Adattando la fattispecie generale agli interessi sottesi a casi analoghi, si aggiunge un ulteriore elemento. Infatti, affinché la PA possa essere condannata all’indennizzo occorre il previo riconoscimento dell’utiliter coeptum, ovvero dell’utilità della prestazione stessa, in quanto esborsi pur dovuti ma inutili e non rispondenti a finalità di pubblico interesse si risolverebbero in un costo distribuito sull’intera collettività in violazione del principio di buon andamento. Il vantaggio in questione può essere riconosciuto apertis verbis attraverso una formale dichiarazione ma anche per fatti concludenti ovvero impiegando l’opera o sfruttando il servizio offerto. Il giudice, nel verificare la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 2041 cc, come reinterpretati dalla giurisprudenza, dovrà limitarsi ad un sindacato estrinseco, senza interferire con la discrezionalità amministrativa, pena la violazione del principio della separazione dei poteri e dell’art. 101, c. 2, cc, secondo cui i giudici sono soggetti soltanto alla legge. In negativo dovrà poi accertarsi che sull’attività svolta non gravi un divieto (cd prohibitio domini), il che impedisce al privato di interferire con aspetti pubblicistici con la conseguenza che un eventuale vantaggio arrecato alla PA sarà considerato tanquam non esset. Dal punto di vista del contenuto, il vantaggio non deriva necessariamente da un atto di disposizione del soggetto depauperato, ma può altresì essere correlato ad un atto della stessa PA. Ad es. nel caso in cui la PA sponsorizzi attività e servizi pubblici impiegando il nome di una nota azienda privata non preventivamente coinvolta e dunque senza il suo consenso. La stessa ne risulterebbe avvantaggiata, anche attraverso il cd “ritorno di immagine” tradotto in un maggior peso economico sul mercato, ma a monte vi sarebbe un atto di disposizione della sfera giuridica altrui senza il consenso dell’interessato e in quanto tale vietato. Qui si è però al di fuori del perimetro dell’art. 2041 cc, in quanto l’atto de quo configura un illecito, in violazione del principio del neminem laedere, a prescindere dall’esito vantaggioso o meno. La giurisprudenza, sul modello dei sistemi anglosassoni, è giunta ad estrarre dall’art. 2041 cc una clausola generale secondo la quale qualunque profitto illecitamente accumulato andrebbe restituito (cd overcompensation), configurando una sorta di danno punitivo estraneo al sistema nostrano che, invece, concepisce il risarcimento del danno come strumento di riparazione integrale, non oltre la misura della lesione subita. Venendo ora all’esame dell’azione di ingiustificato arricchimento mediato nei confronti della PA, preme rilevare come essa sia subordinata, in ultima istanza, ad un atto di riconoscimento della stessa, ciò che evita di esporla ad oneri improvvisi e non controllabili, rischio oggi ancora meno accettabile dopo la costituzionalizzazione del cd pareggio di bilancio (equilibrio di bilancio) ex artt. 81, 97, 117 e 119 Cost. Si segnala, in particolare, che la disciplina approntata per gli enti locali si presenta sul punto assai rigorosa. Infatti, ex art. 191 TUEL (Dlgs 267/2000), sussiste una perfetta corrispondenza tra impegno giuridico ed impegno contabile, potendo gli enti locali effettuare spese solo previa registrazione in bilancio del relativo impegno di spesa con indicazione dell’importo, della causa e del creditore, a garanzia del rispetto dei principi contabili tra cui pareggio di bilancio (art. 119 Cost, art. 162 TUEL), integrità e universalità, il quale ultimo implica che tutte le entrate e le uscite debbano figurare in bilancio. Ai fini che qui interessano l’art. 191, c 1, TUEL, prevede che al terzo interessato sia data comunicazione del provvedimento di spesa esecutivo, in mancanza della quale questi ha facoltà di non eseguire la prestazione sino a quando i dati non gli saranno comunicati. Trattasi di norme imperative la violazione delle quali determina nullità del contratto ed espone il pubblico funzionario a responsabilità amministrativa e disciplinare. Inoltre, la chiara formulazione della norma evita il rischio di errori ed affidamenti, sollevando la PA da qualunque obbligo di indennizzo. Quanto ai criteri di commisurazione dell’indennizzo, si osserva che il giudice, il quale è soggetto soltanto alla legge, non dispone nel caso di precisi parametri, nemmeno attraverso altre norme che all’indennizzo facciano rinvio.

La pubblica amministrazione, infatti, dovrebbe procedere all’affidamento di incarichi professionali attraverso detrminati contratti, stipulati all’esito di una procedura più o meno complessa di selezione del soggetto più idoneo allo svolgimento del servizio, con conseguente obbligo di corrispondere al privato l’importo pattuito.
Il problema si pone, invece, come già precisato più volte nel corso di questa trattazione, con riguardo a tutti quei casi in cui l’amministrazione, nonostante contatti il privato per lo svolgimento di un’attività o di un servizio, non regolarizzi un simile rapporto, pur beneficiando, di fatto, delle prestazioni       rese da   quest’ultimo.
Mentre, infatti, nei casi in cui l’attività svolta sia resa con caratteri di subordinazione, la pretesa economica può trovare suffragio nell’art. 2126 c.c., l’attività svolta a favore della pubblica amministrazione dall’avvocato, dal progettista ect. , con evidenti caratteri di autonomia, se non resa in base ad un contratto, può fondare la sola richiesta dell’impoverimento subito, nei limiti dell’ingiustificato arricchimento conseguito dal     soggetto       pubblico.
In tali eveniene, infati, lo si ribadisce, non è fornita dall’ordito codicistico,  l’azione contrattuale per il pagamento dei compensi dovuti, mancando, a monte, il titolo negoziale, né può parlarsi in senso proprio di indebito, essendovi alla base una richiesta che rende l’esecuzione della prestazione se non doverosa quanto meno autorizzata e lecita.
Inizialmente, la giurisprudenza si è mostrata alquanto restia ad ammettere un simile utilizzo dell’art. 2041 c.c., accogliendo una lettura restrittiva della norma. A mo’ di quanto avvenuto per la gestione di affari altrui, ritenuta preclusa nell’attività pubblicistica in ragione dell’esistenza di una prohibitio domini, si è affermato che il privato non potesse dimostrare che effettivamente la sua attività avesse portato beneficio al soggetto pubblico, salvo l’ipotesi in cui questa avesse riconosciuto espressamente l’utilità dei risultati  raggiunti.
Una simile lettura, critica dalla dottrina in quanto considerata come ulteriore espressione del favor riconosciuto alla pubblica amministrazione, è successivamente stata superata: l’azione di ingiustificato arricchimento, infatti, richiede la mera verifica oggettiva del fatto che vi sia stata un’incidenza patrimonialmente valutabile nella sfera di due soggetti, laddove uno ne esca arricchito e l’altro impoverito. È chiaro, dunque, che una simile ipotesi è riscontrabile anche quando la Pubblica amministrazione si avvantaggi dell’attività del libero professionista: ciò essenzialmente perché essa ottiene una prestazione senza pagare un corrispettivo, mentre il privato viene impoverito del lavoro, delle energie spese per l’attività.
Riconosciuta l’applicabilità in astratto dell’ingiustificato arricchimento, si è posto il problema di determinare quando esso giustifichi il diritto all’indennizzo anche con riguardo ai casi in cui dell’attività di un soggetto, che genera impoverimento, finiscano per beneficiare in via indiretta altri soggetti, diversi da quello nei cui confronti si è posto il fatto che      ha   dato       avvio alla       vicenda.
Il quesito, di taglio più generale, ha infatti una ricaduta peculiare quando protagoniste della vicenda sono pubbliche amministrazioni.
In linea teorica, infatti, la dottrina tradizionale ha sempre limitato la portata dell’arricchimento senza causa ai casi in cui da un unico fatto discendano contestualmente due vicende patrimoniali antitetiche cioè l’incremento della sfera patrimoniale di un soggetto e la diminuzione di quella di un altro. Si è sempre, cioè, negato che, attraverso l’azione ex art. 2041 c.c., possano vantarsi pretese indennitarie discendenti da arricchimenti mediati, cioè in cui gli spostamenti patrimoniali non siano contestuali. Questo sia per evitare che l’indennizzo sia dovuto per conseguenze molto distanti dal fatto causativo dell’impoverimento sia per impedire che l’azione sia usata come meccanismo (improprio) di garanzia per ricevere ristoro di prestazioni eseguite in base ad un titolo (di regola contrattuale) ma magari     non adempiute    dall’obbligato.
Il caso classico usato per illustrare il concetto dell’arricchimento mediato è infatti quello del meccanico che, dopo aver riparato l’autoveicolo portato in officina da un soggetto, non ricevendo il pagamento da colui che gli ha commissionato la riparazione, intenda far valere la pretesa nei confronti del diverso soggetto che risulti proprietario del veicolo, in ragione del fatto che questi, per effetto della riparazione voluta da altri, abbia conseguito comunque un arricchimento.
La giurisprudenza, infatti, chiamata a pronunciarsi sulla questione, ha sempre sostenuto che un simile esito non è accettabile, necessitando l’azione ex art. 2041 c.c. dell’unicità del fatto generatore dello scompenso patrimoniale.
Un simile principio, nella sua rigidità, è stato però mitigato in due casi e cioè quando la prestazione, che genera impoverimento per uno e resa a favore di un altro, vada a produrre un beneficio (mediato) nella sfera di un terzo quando questi lo acquisisca in maniera totalmente gratuita e, altra ipotesi che qui maggiormente rileva, proprio quando l’arricchimento sia conseguito da un soggetto pubblico, ovvero appartenente al novero delle pubbliche amministrazioni.

 

Milano, 25 aprile 2017

Calabrò Arles

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