Ius sanguinis, ius soli, ius domicilii: quale futuro per la cittadinanza?

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La discussione sui ‘diritti’, e nello specifico sui diritti ‘umani’, si inerpica su un sentiero quanto mai impervio. Tuttavia, è necessario partire da un assunto, tanto basilare quanto fondamentale, che è la definizione dei diritti umani stessi, distinti dai diritti fondamentali ma ad essi non contrapposti: i primi sono i diritti che spettano ad ogni essere umano in quanto tale; i secondi, invece, sono i diritti attribuiti in capo a un individuo in quanto appartenente a una comunità (1)
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Indice

1. La cittadinanza come diritto umano


A partire da questa definizione, è chiaro quanto i diritti umani siano centrali nella vita dell’individuo, al punto tale da aver compreso nel loro alveo, durante il corso dei secoli, non solo diritti legati alla proprietà, o all’esercizio dei poteri politici, o ancora al welfare state, ma anche quelli provenienti dalle rivendicazioni – i diritti delle donne o delle minoranze fra tutti.
Si può ben comprendere, perciò, l’importanza data alla cittadinanza in quanto diritto umano: essa, infatti, è la forma più tangibile e oggettiva del rapporto che lega l’individuo allo Stato e alle prerogative che derivano da questa particolare tipologia di appartenenza.
Tali riflessioni preliminari non si sono limitate ad operare sul piano teorico, bensì la centralità della cittadinanza come diritto umano ha trovato posto nella legislazione europea e sovranazionale: ad esempio, l’art. 15 della Dichiarazione universale dei diritti umani[2] afferma che «ogni individuo ha diritto ad una cittadinanza» al primo comma, e che «nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua cittadinanza, né del diritto di mutare cittadinanza» al secondo comma.
Pertanto, si comprende bene come la cittadinanza possa e debba assurgere al rango di diritto umano fondamentale.


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2. Tra ius soli e ius sanguinis: la cittadinanza nella legislazione francese, tedesca e italiana


I modelli di acquisizione della cittadinanza, considerati in questa sede nella loro versione più ‘elementare’, sono lo ius soli e lo ius sanguinis. Il primo, che tradotto dal latino significa letteralmente «diritto del suolo», sta a indicare che è cittadino di uno Stato chi nasce nel territorio di tale Stato; il secondo, che ha invece il significato di «diritto del sangue», indica che la cittadinanza di uno Stato spetta a chi è figlio di cittadini di quello Stato.
Per comprendere al meglio in che modo lo ius sanguinis e lo ius soli operino nella normativa dei vari Paesi, si analizzeranno, seppur sommariamente, le leggi di Francia, Germania e Italia.
La legislazione francese in tema di acquisizione e regolamentazione della cittadinanza ha da sempre adottato il metodo previsto nello ius soli. Come afferma il Code civil[3], è francese il figlio, legittimo o naturale, nato in Francia nel caso in cui almeno uno dei due genitori vi sia nato, qualunque sia la sua cittadinanza[4]; inoltre, ogni bambino nato in Francia da genitori stranieri acquisisce automaticamente la cittadinanza francese al momento del compimento della maggiore età, se, a quella data, ha la residenza in Francia o l’ha avuta per un periodo, continuativo o discontinuo, di almeno 5 anni, a partire dagli 11 anni di età[5].
Al contrario, la Germania può essere considerata il baluardo dello ius sanguinis. La disciplina di riferimento in tal senso è la cosiddetta «Legge sulla cittadinanza»[6], la quale afferma che il bambino acquisisce la cittadinanza tedesca se almeno uno dei suoi genitori è tedesco[7], ribadendo la primazia del principio di filiazione.
Un ibrido, in tal senso, è invece il metodo acquisitivo della cittadinanza nella legislazione italiana. Il testo di riferimento è la legge n. 91 del 1992[8], che ribadisce la centralità dello ius sanguinis[9] pur aprendo le porte alla possibilità di acquisire la cittadinanza attraverso il sistema dello ius soliin alcuni casi, invero esigui.
L’obiettivo di questa analisi è evidenziare i punti di forza e le criticità dello ius soli e dello ius sanguinis, alla luce, in particolare, della società attuale, così eterogenea e multiculturale.
Lo ius soli ha il pregio di tutelare le particolarità dei cittadini, evidenziando come il legame con lo Stato non debba fondarsi su criteri discriminatori e casuali come l’etnia, o la razza, o la cultura, bensì debba radicarsi su una tutela concessa immediatamente, su uno status acquisito senza discriminazione tra figli di cittadini da generazioni e figli di ‘nuovi’ cittadini. La visione derivante dall’attribuzione della cittadinanza secondo lo ius soli, segna, in altre parole, «il dominio della cittadinanza sulla nazionalità, delle concezioni politiche di nazione su quelle etnoculturali»[10].
Tuttavia, nonostante i suoi aspetti positivi, lo ius soli presenta alcune criticità. Essere cittadini significa molto di più rispetto alla titolarità di diritti e al godimento di un particolare status, poiché coincide con la partecipazione attiva e consapevole alla vita della comunità. L’automatismo nel conferimento della cittadinanza previsto dallo ius soli fa venire meno l’aspetto volontaristico e soggettivo della volontà di partecipazione alla vita politica e sociale dello Stato.
Lo ius sanguinis, d’altro canto, sembra sopperire a questa carenza di legame tra comunità e individuo, esaltando il vincolo tra Stato e cittadini. Questi ultimi, in realtà, presenterebbero un’omogeneità tale da accomunarli sotto il punto di vista della lingua, della cultura, della razza, dell’etnia, degli usi: in tal senso, essere cittadini è sicuramente sinonimo di partecipazione attiva, quasi viscerale, alla vita della comunità politica, quasi come se si fosse parte di un ‘tutto’ più grande.
Anche il metodo di attribuzione della cittadinanza in analisi presenta, tuttavia, dei rilievi. Il rischio che si corre adoperando la logica sottesa allo ius sanguinis è quello di confondere deliberatamente lo Stato con la Nazione, vale a dire con un sistema talmente tanto standardizzato da non tutelare le singolarità, che vengono superate a vantaggio di una pretesa «omogeneità nazionale»[11] che potrebbe fomentare pericolose recrudescenze di concetti come la superiorità etnica o razziale.

3. Un’alternativa? Lo ius domicilii come criterio di acquisizione della cittadinanza


Lo ius soli e lo ius sanguinis, presentano, inoltre, delle criticità ancora più lampanti alla luce della loro analisi sotto la lente della realtà attuale.
La società in cui viviamo è, anche per via del fenomeno migratorio al quale si sta assistendo negli ultimi decenni, sempre più multiculturale, multireligiosa, eterogenea, ‘liquida’[12]. La globalizzazione e il processo di integrazione europea – con la conseguente nascita della cittadinanza europea – hanno reso lampante l’inanità di concetti ‘pesanti’ e muscolari come ‘territorio’ e ‘sangue’ per indicare il vincolo di appartenenza allo Stato.
La diversità è, peraltro, oggetto di tutela in varie norme, sovranazionali e nazionali. Essa è il fulcro della Dichiarazione universale dell’UNESCO sulla diversità culturale[13]; l’art. 22 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea[14], rubricato come “Diversità culturale, religiosa e linguistica”, afferma che «L’Unione rispetta la diversità culturale, religiosa e linguistica»; nel Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) si legge che «1. L’Unione contribuisce al pieno sviluppo delle culture degli Stati membri nel rispetto delle loro diversità nazionali e regionali, evidenziando nel contempo il retaggio culturale comune. 2. L’azione dell’Unione è intesa ad incoraggiare la cooperazione tra Stati membri e, se necessario, ad appoggiare e ad integrare l’azione di questi ultimi nei seguenti settori: – miglioramento della conoscenza e della diffusione della cultura e della storia dei popoli europei; – conservazione e salvaguardia del patrimonio culturale di importanza europea;- scambi culturali non commerciali; – creazione artistica e letteraria, compreso il settore audiovisivo. 3. L’Unione e gli Stati membri favoriscono la cooperazione con i paesi terzi e le organizzazioni internazionali competenti in materia di cultura, in particolare con il Consiglio d’Europa. 4. L’Unione tiene conto degli aspetti culturali nell’azione che svolge a norma di altre disposizioni dei trattati, in particolare ai fini di rispettare e promuovere la diversità delle sue culture»[15].
A livello nazionale, la Costituzione italiana viene in aiuto per quel che concerne la tutela della diversità. All’art. 3, infatti, è sancito che «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. 2. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Ancora, la diversità è intesa, all’art. 9 della Costituzione, come diversità linguistica («La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche») e, all’art. 19, come diversità religiosa («Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume»).
Perciò l’acquisizione della cittadinanza basata sullo ius soli o sullo ius sanguinis appare quanto mai anacronistica e avulsa dalla realtà.
Un nuovo modello di cittadinanza deve basarsi, pertanto, su un criterio che riesca a coniugare l’esigenza di oggettività nell’attribuzione del vincolo di appartenenza alla comunità con l’esperienza più soggettiva e intima di volontà di partecipazione ai diritti e ai doveri dello Stato: in questo senso, nuova linfa deve essere data allo ius domicilii, cioè al diritto del domicilio, fondando il criterio di attribuzione della cittadinanza sulla residenza prolungata, la dimora stabile o, più genericamente, sulle relazioni concretamente intrecciate nello Stato.
In questo modo, si riuscirebbero a tutelare due esigenze solo apparentemente opposte: la protezione da garantire all’individualità del singolo, il quale ha precedentemente accettato i valori fondativi di uno Stato e ha deciso di far parte volontariamente della comunità, e il senso di unione tipico della collettività. Inoltre, la registrazione presso i registri della popolazione residente[16] risponde a delle esigenze di ordine pubblico, poiché essi individuano nell’immediato l’indirizzo di dimora della persona; costituisce la porta d’accesso ai diritti territorialmente garantiti (come, ad esempio, le prestazioni sanitarie e l’obbligo di istruzione); e ha, soprattutto, la funzione di garante della dignità sociale della persona, la quale, indipendentemente dai diritti che ne derivano, richiede un riconoscimento in quanto essere umano[17].
Gli ordinamenti giuridici moderni, invero, sembrano aver già intrapreso la strada del riconoscimento di alcuni diritti indipendentemente dallo status di cittadino o straniero, considerato che «il principio di uguaglianza vale pure per lo straniero quando trattasi di rispettare i diritti fondamentali»[18]: per citare alcuni esempi significativi, il d. lgs. n. 286 del 25 luglio 1998, conosciuto come Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, afferma che «allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti»[19]; o, ancora, il d. lgs. n. 197 del 12 aprile 1996, in attuazione della direttiva 94/80/CE concernente le modalità di esercizio del diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali per i cittadini dell’Unione europea che risiedono in uno Stato membro di cui non hanno la cittadinanza, garantisce il diritto di voto ai cittadini di Stati dell’UE che risiedono però in Paesi in cui non godono di tale status.
Appare di vitale importanza, tuttavia, non ricorrere ad un uso inesatto della residenza. Un chiaro esempio di uso discriminatorio del criterio di residenza è quello previsto per l’ottenimento del reddito di cittadinanza, il quale veniva garantito a chi dimostrava una residenza decennale nel territorio italiano: la Corte d’appello di Milano[20] ha di recente ritenuto, a tal proposito, che la «residenza protratta» non ha alcun legame effettivo con lo stato di bisogno dei soggetti, e si pone pertanto in contrasto con l’art. 3 della Costituzione, con la direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, e con il Regolamento UE n. 492/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio relativo alla libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione.
In conclusione, se è pur vero che «lo straniero non ha un diritto soggettivo all’acquisto della cittadinanza»[21], è altresì necessario che quest’ultima non sia più considerata unicamente come uno status discriminatorio, ma piuttosto come uno strumento propulsivo per la costruzione di un sistema più attuale e accogliente.

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Note

  1. [1]

    Questa definizione, invero particolarmente felice, si ritrova in H. ARENDT, The Rights of Man: What Are They?, in Modern Review, vol. 3, 1949, ed è la tesi sostenuta anche in M. LA TORRE, Cittadinanza e ordine politico. Diritti, crisi della sovranità e sfera pubblica: una prospettiva europea, Giappichelli, Torino, 2004, 114

  2. [2]

    Ci si riferisce alla Risoluzione 219077A, adottata dall’Organizzazione delle Nazioni Unite in data 10 dicembre 1948.

  3. [3]

    Le norme che regolano il funzionamento della cittadinanza sono contenute dall’art. 17 all’art. 33-2 del Code civil, promulgato nel 1803 e oggetto di varie riforme, la più corposa delle quali è sicuramente l’ordonnance n. 2004-164 del 20 febbraio 2004. Il codice, oltre a statuire l’acquisizione della cittadinanza iure soli, garantisce l’appartenenza alla Francia anche per filiazione (art. 18), per adozione (artt. 20 e 21), per matrimonio (artt. 21-1 e 21-4).

  4. [4]

    Art. 19-3 del Code civil.

  5. [5]

    Come espresso all’art. 21-7 del Code civil.

  6. [6]

    Staatsangehörigkeitsgesetz (StAG), promulgata il 22 luglio del 1913 e massicciamente riformata con la Gesetz zur Reform des Staatsangehörigkeitsrecht, promulgata il 15 luglio del 1999 ed operativa a partire da gennaio 2000, la quale introduce lo ius soli per i bambini nati in Germania da genitori tedeschi, purché almeno uno dei due genitori risieda abitualmente e legalmente nel territorio dello Stato da almeno otto anni e abbia permesso di soggiorno illimitato.

  7. [7]

    Come si legge nella Staatsangehörigkeitsgesetz, § 3

  8. [8]

    Il riferimento è alla legge 5 febbraio 1992, n. 91, “Nuove norme sulla cittadinanza”, pubblicata in G. U. 15/02/1992, n. 38

  9. [9]

    Si legge infatti all’art. 1, comma 1, della l. n. 91/1992: «1. È cittadino per nascita: a) il figlio di padre o di madre cittadini (…)»

  10. [10]

    «the dominance of citizenship over nationality, of political over ethnocultural conceptions of nationhood», in R. BRUBAKER, Citizenship and nationhood in France and Germany, Harvard University Press, London, 1992, 7, trad. mia

  11. [11]

    Il termine è ripreso da J. ISENSEE, Staat und Verfassung, in ID., P. KIRCHHOF (Hrsg.), Handbuch des Staatsrechts der Bundesrepublik Deutschlands, vol. I, Müller Jur.Vlg.C.F., Heidelber, 1987, 917

  12. [12]

    Il concetto è ripreso da Z. BAUMAN, Liquid modernity, Polity Press, Cambridge, 2000, trad. it. S. MINUCCI, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari, 2011,secondo cui la “liquidità” della società corrisponderebbe al suo modo veloce e dinamico di travolgere il passato, eliminandolo e di conseguenza depurando il presente da ogni traccia di quello che è stato.

  13. [13]

    Adottata all’unanimità a Parigi il 2 novembre 2001, consultabile liberamente qui.

  14. [14]

    Gazzetta ufficiale delle Comunità europee. IT. C 364/1, promulgata il 18-12-2000

  15. [15]

    Art. 167 del TFUE, commi 1, 2, 3, 4. Gazzetta ufficiale dell’Unione europea. IT. C 326/47. Promulgato in data 26-10-2012

  16. [16]

    Disciplinata in l. 24 dicembre 1954, n. 1228, “Ordinamento delle anagrafi della popolazione residente”, pubblicato in G. U. n. 8 del 12-01-1995; d. P. R. 30 maggio 1989, n. 223, “Approvazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente”, specialmente artt. 1, 6, 7, 10, 14, 15, 16, 19, 32; d. lgs. 6 febbraio 2007, n. 30, “Attuazione della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri”, pubblicata in G. U. n. 72 del 27-03-2007

  17. [17]

    Queste funzioni sono state individuate chiaramente in sent. cost. 186/2020

  18. [18]

    Come affermato in sent. cost. n. 120/1967

  19. [19]

    D. lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 2, comma 1

  20. [20]

    Il riferimento è all’ordinanza della Corte d’Appello di Milano, sezione lavoro, 31 maggio 2022

  21. [21]

    Come recentemente affermato in Consiglio di Stato, sez. III, sentenza n. 5679 del 2 agosto 2021

Linda Brancaleone

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