In cosa consistono le operazioni dolose di cui all’art. 223, c. 1, n. 2, r.d., 16 maggio 1942, n. 267

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(Ricorso dichiarato inammissibile)

(Riferimento normativo: R.d., 16 maggio 1942, n. 267, art. 223, c. 1, n. 2)

Il fatto

 La Corte di appello di Milano confermava la condanna dell’imputata, quale amministratrice di diritto in ordine al reato di bancarotta impropria ex art. 223, comma secondo, n. 2 legge fall., per avere cagionato, per effetto di operazioni dolose, il fallimento di una società.

 

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

 

Avverso questa decisione proponeva ricorso per Cassazione l’imputata, tramite i difensori, proponendo un unico motivo con il quale denunciava, in modo cumulativo, errata o falsa applicazione di norma di legge, travisamento dei fatti, motivazione apparente, omessa valutazione del ruolo assunto dalla ricorrente, attribuzione di responsabilità a titolo oggettivo.

Si sosteneva in particolare che, dalla documentazione presente in atti e, in particolare, dal processo verbale di constatazione redatto dalla guardia di finanza in sede di verifica fiscale, risulterebbe che la ricorrente fosse stato un mero strumento delle politiche gestorie del proprio marito “dominus reale e totale” della società.

Proprio l’omesso deposito dei bilanci e la mancata presentazione delle dichiarazioni fiscali, per il ricorrente, avrebbero costituito la prova della totale estraneità della ricorrente alla quale non era stato neppure richiesto di sottoscrivere detti documenti.

La Corte di appello, sempre secondo la difesa, avrebbe ingiustamente svalutato il verbale di constatazione redatto dalla guardia di finanza definendolo mero atto amministrativo mentre avrebbe valorizzato un dato, copertura della carica di amministratore per quattro anni, di per sé inidoneo a dimostrare una qualsivoglia consapevolezza in capo alla ricorrente data la natura apparente dell’investitura formale.

La ricorrente, infatti, era aliena da pratiche gestorie e non aveva alcuna conoscenza del meccanismo di autofinanziamento ben noto invece all’amministratore di fatto.

Sul tema della responsabilità dell’amministratore investito solo formalmente dell’amministrazione dell’impresa fallita si richiamavano infine le sentenze della quinta sezione penale della Corte di cassazione n. 34112 del 01/03/2019 e n. 54490 del 26/09/2018.

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Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

Il ricorso veniva dichiarato inammissibile per le seguenti ragioni.

Si osservava a tal proposito che, come chiarito da parte della giurisprudenza di legittimità, in tema di bancarotta ex art. 223, comma secondo, n. 2 I. fall., le operazioni dolose devono comportare un depauperamento non giustificabile in termini di interesse per l’impresa, laddove la nozione di “operazione” postula una modalità di pregiudizio patrimoniale discendente non già direttamente dall’azione dannosa del soggetto attivo (distrazione, dissipazione, occultamento, distruzione) bensì da un fatto di maggiore complessità strutturale riscontrabile in qualsiasi iniziativa societaria implicante un procedimento o, comunque, una pluralità di atti coordinati all’esito divisato.

Quanto invece all’elemento psicologico, «esaurisce l’onere probatorio dell’accusa la dimostrazione della consapevolezza e volontà della natura “dolosa” dell’azione, costitutiva dell’”operazione”, a cui segue il dissesto, in una con l’astratta prevedibilità dell’evento scaturito per effetto dell’azione antidoverosa» (Sez. 5, n. 17690 del 18/02/2010).

Oltre a ciò, veniva fatto altresì presente come la Corte di cassazione abbia poi avuto modo di chiarire che le “operazioni dolose” possono anche non determinare un’immediata diminuzione dell’attivo.

In particolare, la Corte di legittimità ha ritenuto corretta la qualificazione come “operazione dolosa“, a norma dell’art. 223, secondo comma, n. 2 I. fall., quella consistita nel mancato versamento dei contributi previdenziali con carattere di sistematicità (Sez. 5, n. 12426 del 29/11/2013; Sez. 5, n. 47621 del 25/09/2014; Sez. 5, n. 29586 del 15/05/2014).

Orbene, una volta terminate queste considerazioni di ordine giuridico, gli Ermellini denotavano come nel caso in esame la società avesse sistematicamente omesso di versare le imposte e i contributi previdenziali e quindi si ritenevano sussistenti in questa ipotesi le specifiche connotazioni delle operazioni dolose che “offrono fondamento al giudizio di prevedibilità dell’emersione delle operazioni stesse e, di conseguenza, dell’attivazione delle iniziative risarcitorie e/o sanzionatorie destinate a sfociare nel depauperamento e, quindi, nel dissesto della società» (Sez. 5, n. 45672 del 01/10/2015).

A fronte di quanto appena esposto, si sottolineava come con l’atto di impugnazione non si contestasse la sussistenza del reato ma si muovessero censure sul punto della ritenuta consapevolezza, e quindi partecipazione, della ricorrente alle condotte delittuose poste in essere dal proprio coniuge, unico e reale dominus della società, di cui l’imputato era una mera prestanome.

Orbene, al di là dei vizi formalmente enunciati, non sempre contemplati dall’art. 606 cod. proc. pen. (“il travisamento dei fatti” è ipotesi estranea al giudizio di legittimità) e non sempre rispondenti nella successiva esposizione (come accade per “l’errata o falsa applicazione di norma di legge”), nella sostanza, ad avviso del Supremo Consesso, la ricorrente chiedeva di verificare la tenuta motivazionale della sentenza impugnata allorché le veniva addebitato il “reato proprio” per cui era stata sottoposta al presente processo.

Precisato ciò, si evidenziava, in via preliminare, che, come correttamente osservato dalla Corte di Appello, la responsabilità dell’amministratore di fatto non assolve, per ciò solo, da analoga responsabilità l’amministratore di diritto, essendo pacificamente configurabile un concorso tra i due.

Chiarito che la Corte di cassazione non può essere chiamata a rivalutare il materiale probatorio, si rilevava tra l’altro come l’affermazione di responsabilità dell’imputata si fondasse su un impianto argomentativo immune da vizi logici atteso che la Corte di Appello aveva evidenziato una serie di indici convergenti nel senso di una partecipazione consapevole alle condotte dolose mentre non erano venute in rilievo condotte poste in essere dall’amministratore di fatto di cui quello di diritto che avrebbero potuto essere state all’oscuro perché gli adempimenti omessi rientravano nella sfera dei compiti di cui è investito l’amministratore di una società in virtù del ruolo formale ricoperto.

La ricorrente, dunque, secondo i giudici di piazza Cavour, era stata la principale autrice della sistematica omissione nel pagamento di tributi e contributi in cui si era sostanziata la condotta delittuosa considerate le innumerevoli scadenze fiscali, dichiarative e di pagamento, che venivano regolarmente ignorate e delle quali l’imputata pertanto poteva avere agevolmente contezza e riscontro.

In tal senso la decisione dei giudici di merito – certamente insindacabile in sede di legittimità quanto all’apprezzamento in fatto delle risultanze processuali, in quanto adeguatamente e logicamente motivata – appariva per la Cassazione essere ineccepibile posto che si era in presenza, non di un soggetto che ignorava le condotte distruttive materialmente poste in essere, a sua insaputa, dall’amministratore di fatto, quanto piuttosto dell’amministratore di diritto che, omettendo in maniera continuativa di presentare le dichiarazioni fiscali e di assolvere agli onere contributivi e previdenziali, aveva direttamente e personalmente realizzato quelle azioni materiali in cui si era concretata la condotta delittuosa che aveva portato la società al fallimento.

Era infatti la ricorrente la diretta destinataria degli obblighi rimasti inadempiuti per anni e che da lei erano stati violati senza soluzione di continuità nel corso della sua amministrazione e la natura sistematica degli inadempimenti, per gli Ermellini, non poteva che essere frutto di una consapevole scelta gestionale da parte degli amministratori della società da cui conseguiva il prevedibile aumento della sua esposizione debitoria nei confronti dell’erario e degli enti previdenziali (cfr. Sez. 5, n. 24752 del 19/02/2018)

Conclusioni

La decisione in esame è assai interessante nella parte in cui si spiega in cosa consistono le operazioni dolose di cui all’art. 223, c. 1, n. 2, r.d., 16 maggio 1942, n. 267.

Difatti, in tale pronuncia, viene postulato, da un lato, che, in tema di bancarotta ex art. 223, comma secondo, n. 2 I. fall., le operazioni dolose devono comportare un depauperamento non giustificabile in termini di interesse per l’impresa, laddove la nozione di “operazione” postula una modalità di pregiudizio patrimoniale discendente non già direttamente dall’azione dannosa del soggetto attivo (distrazione, dissipazione, occultamento, distruzione) bensì da un fatto di maggiore complessità strutturale riscontrabile in qualsiasi iniziativa societaria implicante un procedimento o, comunque, una pluralità di atti coordinati all’esito divisato, dall’altro, che, quanto all’elemento psicologico, esaurisce l’onere probatorio dell’accusa la dimostrazione della consapevolezza e volontà della natura “dolosa” dell’azione, costitutiva dell’”operazione“, a cui segue il dissesto, in una con l’astratta prevedibilità dell’evento scaturito per effetto dell’azione antidoverosa fermo restando che le “operazioni dolose” possono anche non determinare un’immediata diminuzione dell’attivo quale può essere, ad esempio, il mancato versamento dei contributi previdenziali con carattere di sistematicità.

Tale decisione, quindi, deve essere presa nella dovuta considerazione al fine di verificare la sussistenza (o meno) di tali operazioni.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatto provvedimento, proprio perché fa chiarezza su questa tematica giuridica, dunque, non può che essere positivo.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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