In caso di licenziamento per giusta causa, ai fini della valutazione della proporzionalità tra fatto addebitato e recesso, viene in considerazione non già l’assenza o la speciale tenuità del danno patrimoniale, ma la ripercussione sul rapporto di lavoro d

sentenza 01/02/07
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Nella pronuncia in epigrafe, il lavoratore compulsava, con ricorso ex art. 700 cpc, il competente Magistrato del Lavoro del Tribunale di Nocera Inferiore, al fine di ottenere la declaratoria di nullità ed inefficacia del comminato licenziamento in tronco, comunicato a mezzo telegramma dal proprio datore di lavoro.
A suffragio della propria iniziativa, eccepiva la nullità dell’intimato recesso per inidoneità del mezzo utilizzato, atteso che il predetto telegramma era carente di presupposti essenziali per la sua corretta riconducibilità all’autore, né lo stesso era stato seguito da una lettera raccomandata di eguale tenore.
Nel merito, anche alla luce delle giustificazioni addotte a seguito di formale contestazione di assenza dal lavoro, riteneva spropositata ed illegittima l’adozione del provvedimento espulsivo, atteso che il c.c.n.l. di categoria espressamente prevedeva, per ipotesi di particolare tenuità come quella allo stesso contestata, l’irrogazione di una più lieve sanzione conservativa.
Ritualmente costituitosi, il resistente censurava ogni assunto del ricorrente, asserendo che il mezzo utilizzato era pienamente valido ed efficace, e che la sanzione irrogata era correttamente proporzionata al comportamento tenuto dal lavoratore, concludendo per il rigetto della domanda cautelare avanzata dal ricorrente.
L’adito Giudicante affrontava, preliminarmente, la questione inerente alla validità formale del recesso intimato, premettendo che, ai fini del rispetto del requisito della forma scritta per la liceità del licenziamento, non era necessario che la volontà risolutiva fosse espressa attraverso formule sacramentali, ma essa doveva essere comunque manifestata in maniera adeguatamente intelligibile, ai fini della tutela dell’affidamento della controparte. ( Cass. civ., Sez. lavoro, 11/09/2003, n.13375).
Il Giudice, richiamando numerose pronunce dei Giudici di Piazza Cavour sul tema, osservava come, con riguardo al caso di utilizzazione di un telegramma dettato attraverso l’apposito servizio telefonico, per l’intimazione del licenziamento, il requisito della forma scritta dovesse ritenersi sussistente qualora – in caso di contestazione – l’interessato fornisse la prova della provenienza della dichiarazione dal medesimo, anche con il ricorso a presunzioni, potendosi al riguardo fare riferimento, in particolare, all’indicazione dell’autore della dichiarazione contenuta nel testo stesso del telegramma, al possesso della copia del telegramma inviata al mittente in base alle vigenti norme postali, alla titolarità o all’uso esclusivo della utenza telefonica attraverso cui era avvenuta la dettatura del telegramma, all’eventuale pacificità per il destinatario, prima del giudizio, della provenienza del telegramma da parte dell’apparente autore della dichiarazione (Cass. civ., Sez. lavoro, 17/05/2005, n.10291, Cass. civ., Sez. lavoro, 23/12/2003, n.19689, Cass. civ., Sez. lavoro, 18/06/2003, n.9790, Cass. civ., Sez. lavoro, 05/06/2001, n.7620, Cass. civ., Sez. lavoro, 30/10/2000, n.14297).
Orbene, alla luce della giurisprudenza menzionata e della documentazione versata in atti, il Magistrato concludeva per l’immunità da qualsiasi vizio di forma del licenziamento de quo, sia perché era chiaramente intelligibile la provenienza (soggetto autore e titolare dell’utenza telefonica) ed il destinatario dello stesso, sia perché – ad abundantiam –era stata contestata, sempre con lo stesso mezzo, l’assenza dal lavoro, senza che il lavoratore, nel fornire le proprie insufficienti giustificazioni, avesse minimamente censurato la forma di comunicazione precedentemente impiegata.
In ordine alla risoluzione del rapporto, nel caso in esame il lavoratore si era limitato a giustificare la sua prolungata assenza sostenendo che alcuni – non precisati – colleghi di lavoro gli avessero riferito che, per il periodo oggetto di contestazione, l’azienda sarebbe rimasta chiusa per ferie.
Il Giudicante, tuttavia, riteneva proporzionata l’adozione del provvedimento espulsivo, rilevando nel comportamento assunto dal lavoratore una grave, prolungata ed inescusabile violazione di specifici e fondamentali obblighi contrattuali, atteso che il ricorrente, per un periodo tutt’altro che breve, aveva violato, senza alcuna plausibile giustificazione, la fondamentale obbligazione di prestare la propria attività lavorativa.
La condotta serbata dal lavoratore, pertanto, potenzialmente idonea a porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento, vulnerava irrimediabilmente l’imprescindibile vincolo fiduciario tra le parti ed era tale da giustificare la risoluzione ex abrupto dell’intercorso rapporto di lavoro.
Come rammentato in parte motiva, difatti, in tema di licenziamento, la nozione di giusta causa è nozione legale e il giudice non è vincolato alle previsioni di condotte integranti giusta causa contenute nei contratti collettivi; tuttavia, ciò non esclude che ben possa il giudice far riferimento ai contratti collettivi e alle valutazioni che le parti sociali compiono in ordine alla valutazione della gravità di determinati comportamenti rispondenti, in linea di principio, a canoni di normalità. Il relativo accertamento va operato caso per caso, valutando la gravità in considerazione delle circostanze di fatto e prescindendo dalla tipologia determinata dai contratti collettivi. ( Sul punto, Cass. civ., Sez. lavoro, 14/02/2005, n.2906, Cass. civ., Sez. lavoro, 19/08/2004, n.16260)
Secondo consolidata giurisprudenza, difatti, per stabilire in concreto l’esistenza di una giusta causa di licenziamento ex. art. 2119 c.c., che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed, in particolare, di quello fiduciario, occorre valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale, dall’altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare ( Ex multis, Cass. civ., Sez. lavoro, 15/05/2004, n.9299, Cass. civ., Sez. lavoro, 27/02/2004, n.4061, Cass. civ., Sez. lavoro, 04/06/2002, n.8107).
Va ricordato, infine, come il giudizio di proporzionalità tra fatto addebitato e licenziamento, risolvendosi il relativo accertamento in un apprezzamento di fatto, è demandato al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità, se sorretto da congrua, adeguata ed esaustiva motivazione. (ex plurimis, Cass. civ., Sez. lavoro, 20/06/2006, n.14115, Cass. civ., Sez. lavoro, 19/08/2003, n.12161, Cass. civ., Sez. lavoro, 07/01/2003, n.28, Cass. civ., Sez. lavoro, 04/04/2000, n.4138)

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