Impresa familiare: dal modello patriarcale all’impresa familiare. Profili giuridici e fiscali dell’art. 230-bis del codice civile

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Sommario:

Cenni introduttivi – 1. Affectionis vel benevolentiae causa: il paradigma del lavoro nella famiglia – 2. L’impresa familiare nel “nuovo” diritto di famiglia: il definitivo tramonto della struttura piramidale patriarcale3. Trattamento fiscale dell’impresa familiare e il fenomeno dello “splitting” – 4. Considerazioni conclusive

 

Cenni introduttivi

Il presente contributo si pone l’obiettivo di fornire una breve analisi dell’istituto della impresa familiare che, nel contesto post riforma del 1975, assume una fisionomia diversa e peculiare rispetto a quella che da tempo immemore aveva caratterizzato l’istituto in esame.

Invero, l’art. 230-bis del codice civile rappresenta una delle più significative novità introdotte dalla riforma del diritto di famiglia del 1975 in quanto conferisce concreta rilevanza all’attività lavorativa che i familiari prestano, in modo continuativo, all’interno della famiglia o nell’impresa familiare. Scopo della disposizione in esame è quello di impedire che, nella comunità domestica, si consumino situazioni di sfruttamento del lavoro, superando in tal modo l’originaria presunzione di gratuità che contrassegnava l’attività prestata dal familiare, ritenuta da sempre basata sull’affetto reciproco (affectionis vel benevolentiae causa).

Ulteriori novità sono state apportate dal comma 46, dell’art. 1 della L. n. 76 del 2016, il quale introduce nel corpus normativo codice civile l’art. 230-ter, che disciplina i diritti del convivente nell’attività d’impresa, ponendosi in controtendenza con il filone giurisprudenziale che ha sempre negato la possibilità di una interpretazione estensiva dell’art. 230-bis c.c., dettato in materia di impresa familiare, ai casi di mera convivenza o di famiglia di fatto; la nuova disposizione, invero, riconosce al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa del partner, il diritto di partecipare agli utili, commisurato alla quantità del lavoro prestato. Tale diritto viene meno qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato.

Nei paragrafi che seguono si procederà ad una breve analisi dell’istituto, ripercorrendone la genesi strutturale nonché i profili giuridici e il trattamento fiscale ex lege previsto.

  1. Affectionis vel benevolentiae causa: il paradigma del lavoro nella famiglia

La storia imprenditoriale del nostro Paese è, ed è sempre stata, una storia di famiglie, di nuclei parentali, divenuti poi imprese; infatti, l’imprenditoria familiare ha occupato un ruolo centrale nella crescita economica italiana, nel periodo post-bellico, dalla metà degli anni 50 a seguire.

Ma, facciamo un passo a ritroso.

Il modello giuridico della famiglia e dell’impresa bassomedievale ruotava attorno alla figura del pater, capo indiscusso della famiglia. I collaboratori familiari si muovevano sul territorio indirizzati dalla guida del capofamiglia, trattavano su piazze lontane e, talvolta, amministravano vere e proprie sedi distaccate che, attualmente, prendono- per l’appunto- il nome di “filiali”. Ciascun membro poteva compiere atti negoziali a nome di tutti, obbligando l’intera compagine sociale in solido e illimitatamente, il tutto funzionale a quel consortium omnis vitae che connotava la famiglia mercantile, in epoca medievale.

L’ordine patriarcale connotava, in tempi addietro, anche il panorama imprenditoriale romano, nell’epoca c.d. “commerciale” (dalla vittoria della prima guerra punica fino all’età dei Severi). In quegli anni, a seguito dell’istituzione del praetor peregrinus e del processo per formulas, Roma divenne l’epicentro dei traffici commerciali del Mediterraneo mutando, per l’effetto, l’assetto giuridico-economico romano, non più fondato sulla conservazione dei beni bensì sul profitto.

Sotto il profilo strutturale, l’impresa romana si presentava quale struttura piramidale con al vertice il pater familias ed al gradino inferiore i filii (o i servi) che svolgevano concretamente gli affari, in favore e per l’accrescimento del pater. I figli non possedevano quella che oggi definiamo “capacità giuridica”, dunque non erano dotati di propria autonomia, ma erano soggetti alla potestas del pater.

Si può osservare, in conclusione, come questa forma patriarcale della imprenditoria antica (dall’epoca romana alla storia tardo antica) vedeva nel pater familias il centro di imputazione dei rapporti giuridici patrimoniali, il quale poteva liberamente organizzare la propria attività imprenditoriale intorno al nucleo familiare, specificando mansioni e dislocando i suoi rappresentanti sul territorio.

La riforma del diritto di famiglia del 1975, con l’introduzione dell’art. 230-bis c.c., ha sancito il passaggio dal modello d’impresa patriarcale a quello familiare, considerato che nel periodo ante riforma, l’intero diritto di famiglia era incentrato su di una struttura piramidale di tipo patriarcale.

Il codice civile del 1942 aveva confermato al pater familias il dominio sulla compagine familiare e, dal punto di vista economico-imprenditoriale, il lavoro dei familiari non trovava alcun riconoscimento e fondamento giuridico; i rapporti lavorativi erano sorretti da una presunzione di gratuità: benevolentiae vel affectionis causa.  In tal contesto, il familiare non maturava né un diritto alla retribuzione né alla partecipazione agli utili, essendo escluso in toto nell’attività decisionale. Un indiscreto riconoscimento del lavoro dei familiari era previsto nel settore agricolo, nell’àmbito della “comunione tacita familiare”, di cui all’art. 2140 c.c. (ora abrogato, che cosi disponeva: “le comunioni tacite familiari nell’esercizio dell’agricoltura sono regolate dagli usi”), in tal contesto i familiari- in linea teorica- vantavano un diritto di godere degli utili provenienti dal peculium comune, fermo restando l’assoluto potere amministrativo del capofamiglia.

Solamente in occasione della riforma del 1975, che segna il tramonto dell’epoca patriarcale, si è conferito tutela al lavoro prestato dai familiari, mediante l’introduzione dell’art. 230-bis c.c., che riconosce una serie di diritti coloro che prestino attività lavorativa, all’interno dell’impresa di famiglia, in modo continuato, purché non sussista un vincolo di subordinazione, societario o associativo. Sul piano patrimoniale, il familiare godrà del diritto di partecipare agli utili, proporzionalmente alla quantità di lavoro prestato e ad i beni acquisiti con essi nonché agli incrementi aziendali; il diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia. Sotto il profilo gestionale, le decisioni vengono prese a maggioranza dai familiari che partecipano all’impresa e, dunque, viene meno il poter assoluto e illimitato del pater.

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  1. L’impresa familiare nel “nuovo” diritto di famiglia: il definitivo tramonto della struttura piramidale patriarcale

In occasione della riforma del diritto di famiglia nel 1975, con l’introduzione dell’art. 230-bis del cod. civ., è stata riconosciuta tutela al lavoro prestato dai familiari all’interno dell’impresa. In particolare, la norma in esame, fornisce una definizione di impresa familiare quale impresa in cui collaborano continuativamente il coniuge, i parenti entro il terzo gradi o gli affini entro il secondo. Lo scopo primario della norma è di regolare il fenomeno sociale del lavoro familiare in contesti imprenditoriali minori, superando la presunzione di gratuità che da tempo immemore connotava l’attività prestata dai familiari all’interno dell’impresa patriarcale.

Secondo la maggior parte degli interpreti, la costituzione dell’impresa familiare non ha fondamento

contrattuale, trovando fonte nell’effettivo svolgimento di un’attività economica continuativa da parte di più familiari, sicché il singolo partecipante acquista i diritti, e assume i doveri, elencati negli artt. 230-bis e 230-ter cod. civ., in relazione all’attività di lavoro prestata nell’impresa.

Quanto alla natura giuridica e alla struttura dell’impresa familiare sorgono dubbi e perplessità.

Invero, si sostiene come l’impresa familiare non necessariamente debba essere una piccola impresa bensì la medesima può assumere dimensioni medio-grandi; quanto al tipo di attività svolta, non vi sono limitazioni in tal senso, potendo essere costituita per lo svolgimento di qualsiasi attività produttiva, sia commerciale che agricola o artigianale.

Sotto il profilo strutturale, invece, l’impresa familiare assume la fisionomia di un’impresa individuale ove uno dei coniugi riveste la qualità di imprenditore, con tutti gli obblighi e doveri annessi, “associando” alla partecipazione dell’impresa (di cui ha la titolarità) i propri familiari. A codesto gruppo, fondato sul vincolo di solidarietà familiare e sul perseguimento di un fine comune, possono aggiungersi terzi soggetti estranei alla compagine familiare ma anche soggetti non legati ad alcun vincolo giuridico e/o sanguigno (ad esempio, il convivente ai sensi dell’art 230-ter c.c.).

Il familiare-imprenditore, reale gestore dell’impresa, è illimitatamente responsabile per l’adempimento delle obbligazioni nascenti dai rapporti con i terzi. In caso d’insolvenza, peraltro, è lo stesso a fallire; il fallimento, quindi, non può essere esteso agli altri componenti l’impresa familiare, i quali corrono soltanto al rischio, una volta che l’azienda sia aggredita dai creditori, di veder vanificato il loro diritto sui beni aziendali.

A fronte di tale interpretazione maggioritaria, resta tuttavia impregiudicata la questione circa la natura individuale o societaria dell’impresa familiare; invero, non si è mancato di sostenere che – ove il rapporto tra i partecipanti si manifesti, agli occhi dei terzi, come rapporto societario – è ravvisabile la costituzione di una società di fatto, capace di sovrapporsi al rapporto disciplinato dagli artt. 230-bis e 230-ter cod. civ., e di determinare, così, l’assoggettabilità a fallimento dei componenti dell’impresa, riguardo ai quali, possa sostenersi che rivestano la qualità di soci di fatto.

I familiari, co-imprenditori, ai sensi dell’art. 230-bis del c.c. che prestano la propria opera all’interno dell’impresa familiare, godono di una serie di diritti considerati inderogabili, come il diritto vantato da ciascun compartecipe al “mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia” nonché il diritto di partecipare “agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato” (art. 230-bis, primo comma, cod. civ.).

Il diritto di partecipazione agli utili dell’impresa familiare è intrasferibile, a meno che il trasferimento non avvenga, con il consenso di tutti i compartecipi, a favore di uno dei familiari aventi titolo a partecipare all’impresa (art. 230– bis, comma 4, cod. civ). Si comprende, agevolmente, l’esigenza di evitare l’ingresso di estranei nella medesima posizione del familiare lavoratore.
In caso di divisione ereditaria, o di trasferimento dell’azienda, i familiari vantano un diritto di prelazione sull’azienda. Preferenza, questa, che ha sicuri momenti di similitudine con quella accordata, ai coeredi, dall’art. 732 cod. civ., tanto che codesta disposizione si applica, nei limiti di compatibilità, ai partecipanti all’impresa familiare (art. 230-bis, quinto comma, cod. civ.).
Si osservi, infine, come, al convivente di fatto, non sia espressamente riconosciuto alcun diritto di prelazione, riservato, appunto, ai familiari, così come definiti, poco sopra, dall’art. 230-bis cod. civ., nell’ipotesi di divisione ereditaria o di trasferimento dell’azienda.

L’impresa familiare cessa di esistere in seguito alla morte dell’imprenditore, su concorde volontà delle parti ovvero al venire meno della compagine familiare; altre cause di estinzione sono il fallimento o l’impossibilità di prosecuzione dell’attività. Conseguenza dell’estinzione è che ciascun compartecipe matura il diritto alla liquidazione della quota che gli spetta.

  1. Trattamento fiscale dell’impresa familiare e il fenomeno dello “splitting”

L’art. 230-bis del cod. civ. si presta ad una duplice chiave di lettura, a seconda se indossa il “cappello” civile o quello fiscale.

Dal punto di vista strettamente civilistico, l’impresa familiare è definita quale impresa individuale che si avvale di collaboratori familiari. Tale istituto è previsto e disciplinato nell’art. 230-bis c.c., il quale mira a tutelare il lavoro prestato nell’àmbito dell’imprenditoria familiare, garantendo al familiare co-imprenditore di percepire gli utili derivanti dall’attività di lavoro prestata. Secondo la disposizione codicistica, l’imputazione degli utili al familiare avviene automaticamente, in maniera proporzionata alla quantità di lavoro svolto, in assenza di una qualsivoglia previa verifica.

Sotto il profilo squisitamente fiscale, invece, l’impresa familiare viene vista in maniera circospetta ovvero sotto una “lente” diversa dal Fisco italiano, rappresentando nella prassi un terreno fertile in cui si anniderebbe il potenziale rischio che l’imprenditore possa servirsene per scopi elusivi.

Ciò che l’Amministrazione Finanziaria intende prevenire è il fenomeno del c.d. “splitting”, che si sostanzia nella tecnica di spalmare (to split, dall’inglese) su più teste il reddito complessivo d’impresa, evitando così l’applicazione di una maggiore aliquota, considerando la progressività a scaglioni che connota il nostro sistema fiscale. In altre parole, lo splitting si configura come una tecnica elusiva che consente la ripartizione del reddito fra più soggetti (ad esempio, fra due coniugi) in modo da ridurre il carico fiscale complessivo (mentre in realtà il percettore del reddito è uno solo).

Pertanto, fiscalmente parlando viene meno l’automaticità civilistica, richiedendo il Fisco maggiori garanzie, al fine di prevenire fenomeni di abuso del diritto.

La normativa di riferimento è rinvenibile all’interno del D.P.R. 917/1986 (alias TUIR), il quale al comma 4 dell’art. 5 dedicato ai “Redditi prodotti in forma associata”, stabilisce come “i redditi delle imprese familiari, di cui all’articolo 230-bis del codice civile, limitatamente al 49 per cento dell’ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell’imprenditore, sono imputati a ciascun familiare, che abbia prestato in modo continuativo e prevalente la sua attività di lavoro nell’impresa, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili”, ciò significa che l’imprenditore potrà spalmare il reddito d’impresa solo se a lui stesso è imputato nella misura del 51 per cento.

A fronte dell’assenza dell’automaticità (che è invece prevista all’interno del cod. civile), il Fisco in un’ottica antielusiva chiede, all’imprenditore che voglia “spalmare” l’imposta su più teste, di fornire specifiche garanzie, ossia si dovrà dimostrare che a) i familiari partecipanti all’impresa risultino nominativamente, con l’indicazione del rapporto di parentela o di affinità con l’imprenditore, da atto pubblico o da scrittura privata autenticata anteriore all’inizio del periodo di imposta, recante la sottoscrizione dell’imprenditore e dei familiari partecipanti; b) che la dichiarazione dei redditi dell’imprenditore rechi l’indicazione delle quote di partecipazione agli utili spettanti ai familiari e l’attestazione che le quote stesse sono proporzionate alla qualità e quantità del lavoro effettivamente prestato nell’impresa, in modo continuativo e prevalente, nel periodo di imposta; c) che ciascun familiare attesti, nella propria dichiarazione dei redditi, di aver prestato la sua attività di lavoro nell’impresa in modo continuo e prevalente. Il comma 5, dell’art. 4 specifica altresì il profilo soggettivo disponendo che “si intendono per familiari, ai fini delle imposte sui redditi, il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado”.

4. Considerazioni conclusive

L’art. 230-bis c.c. rappresenta il punto di arrivo di un lungo e tortuoso cammino storico-giuridico, le cui radici sono da rinvenire in epoche assai remote.

Nel modello di famiglia patriarcale che ha connotato la storia italiana fino al 1975, il c.d. pater familias rappresentava il centro propulsivo degli indirizzi economici e manageriali dell’impresa, ove i diritti dei compartecipi erano pressoché marginali e subordinati alla volontà e alle direttive di quest’ultimo nonché si presumeva una sorta di gratuità dell’attività lavorativa prestata dai familiari a servizio dell’impresa.

Con la riforma che ha coinvolto il diritto di famiglia operata nel 1975, si assiste alla definitiva chiusura di un cerchio dalle radici secolari connotato dal governo arbitrario del capofamiglia sull’impresa familiare riconoscendosi, altresì, una forma di tutela del lavoro prestato dal familiare nonché una serie di diritti sia di natura patrimoniale che di natura decisionale.

La disamina dell’art. 230-bis c.c. va condotta sia sul piano civilistico (attraverso la genesi dell’istituto) che su quello fiscale; se l’abito civile non desta complesse preoccupazioni, lo stesso non può dirsi sul piano fiscale: l’imprenditore infatti potrebbe servirsi, o meglio abusare, del trattamento fiscale di favore previsto per la figura giuridica dell’impresa di famiglia, dividendo così il carico fiscale fra i vari membri e, di conseguenza, beneficerebbe di un carico fiscale inferiore mediante la tecnica del c.d. splitting. Ciò giustifica l’adozione, da parte del Fisco italiano, di adottare misure di garanzia ad hoc disciplinate nell’art. 5, comma 4, del TUIR.

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Raffaella Ascolese

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