Il valore probatorio delle decisioni con impegni: to be or not to be

Redazione 17/05/19
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di Carlo Edoardo Cazzato*

* Ph.D.

Sommario

1. Premessa

2. Un primo caso italiano nel settore della vendita di autocarri

3. Un secondo caso italiano nel settore della telefonia

4. Un recente caso comunitario

5. Impegni e private enforcement

6. Conclusioni

1. Premessa

Come noto, una buona parte dello sviluppo del contenzioso risarcitorio antitrust nel nostro paese è legato a uno dei settori considerati oggi tra i più contendibili ovverosia quello della telefonia. Tale comparto è pacificamente ritenuto tra i meno ingessati e ciò proprio in considerazione del grande attivismo dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (di seguito, “Agcm” o “Autorità”) nell’ambito dei suoi poteri di c.d. public enforcement, cui hanno fatto seguito numerose iniziative volte a ottenere dinanzi al Giudice ordinario il ristoro dei danni subiti.

Proprio tali dinamiche hanno portato – in Italia più che in altri ordinamenti – alla ribalta il tema oggetto del presente lavoro ovverosia quello della efficacia probatoria di una decisione dell’Agcm ex art. 14-ter della Legge 10 ottobre 1990, n. 287 recante “Norme per la tutela della concorrenza e del mercato” (di seguito, “Legge antitrust”), con la quale una istruttoria sia stata chiusa “senza accertare l’infrazione” ipotizzata, rendendo obbligatori gli impegni presentati da una impresa investigata.

2. Un primo caso italiano nel settore della vendita di autocarri

Il primo caso del quale intendo dare conto è il più recente, tra quelli trattiti. Esso è ascrivibile al Tribunale di Milano, che con sentenza n. 9579 del 4 ottobre 2018 ha definito il primo grado del giudizio introdotto da un’impresa, esercente attività di acquisto, concessione ed esercizio di cave di granito e marmo (di seguito, “CMV”), contro una società attiva nella vendita di automezzi (di seguito, “I”), per ottenere il risarcimento dei danni asseritamente patiti in conseguenza della violazione della normativa antitrust. Più in particolare, l’azione di CMV era fondata sull’assunto che detta impresa avesse acquistato in data 14 ottobre 2008 da I un determinato veicolo e che la Commissione nel luglio 2016, dopo aver svolto un’inchiesta su possibili accordi collusivi aventi ad oggetto i prezzi di autocarri, avesse accertato una violazione della normativa antitrust in capo a I per avere compiuto, unitamente ad altre imprese costruttrici, accordi collusivi in materia di prezzi degli autocarri dal 1997 al 2011.

È rilevante ricordare che, nell’ambito della summenzionata istruttoria, I aveva ammesso la partecipazione al cartello dal 26 giugno 2001 al 18 gennaio 2011, con conseguente riduzione della sanzione imposta in ragion e della collaborazione prestata. In definitiva, la decisione del 19 luglio 2016 era stata adottata all’esito di una procedura di settlement, di cui all’art. 10- bis del Reg. (CE) n. 773/2004 della Commissione relativo ai procedimenti svolti dalla Commissione a norma degli artt. 81 e 82 del Trattato CE.

Su tali assunti, con la pronuncia in questione il Tribunale di Milano è stato chiamato a chiarire, inter alia, se una decisione adottata a seguito di una richiesta di transazione sia vincolante in forza del disposto dell’art 16 del Reg. (CE) n. 1/2003, che, recependo la giurisprudenza formatasi sul punto[1], prevede che quando le giurisdizioni nazionali si pronunciano su accordi, decisioni, pratiche ai sensi degli artt. 101 e 102 del TFUE già oggetto di una decisione della Commissione, non possano prendere decisioni che siano in contrasto con quanto deliberato dalla Commissione.

In tale contesto, è utile ricordare che il settlement costituisce una procedura semplificata, che consente alle imprese investigate di giungere ad un accordo per la definizione più celere del procedimento. Lo strumento conduce all’adozione della decisione da parte della Commissione ai sensi degli artt. 7 e 23 del Reg. (CE) n. 1/2003. Il relativo procedimento assicura alle imprese l’esercizio del diritto di difesa, consentendo alle parti di effettuare una scelta dopo avere conosciuto gli elementi di prova a proprio carico, avere avuto accesso al fascicolo ed essendo state messe in condizione di essere sentite sugli addebiti. La parte che presenta la proposta di transazione compie, dunque, una scelta consapevole, essendo stata messa in condizione di esercitare i diritti di difesa tota re cognita et perspecta. Ulteriore garanzia per l’impresa che acceda a tale procedura è costituita dalla circostanza che il provvedimento così adottato dalla Commissione è soggetto a controllo giurisdizionale.

Su tali assunti, nel caso di specie, il Tribunale di Milano ha enfatizzato la circostanza che I, pur avendo il diritto di impugnare, vi avesse rinunciato, prestando acquiescenza alla decisione della Commissione e, quindi, riconoscendo espressamente la sua responsabilità, nonché di essere stata messa in condizione di esercitare il diritto di difesa. Da ciò è stata dedotta l’applicabilità dell’art. 16 del Reg. (CE) n. 1/2003 alle decisioni di settlement, perché queste ultime – a differenza di quelle con impegni, stigmatizza il Giudice – implicano un accertamento da parte della autorità amministrativa della violazione antitrust e della responsabilità dell’impresa e sono ascrivibili alle decisioni emesse ai sensi degli artt. 7 e 23 del medesimo Regolamento[2].

Per gli effetti la causa è stata rimessa sul ruolo, al fine di verificare nel concreto i limiti e la portata degli accertamenti compiuti nell’ambito del procedimento svoltosi dinanzi alla Commissione nei confronti di I e, quindi, l’effettiva sussistenza di effetti anticoncorrenziali determinatisi a carico di CMV.

[1] Sentenza della Corte del 14 dicembre 2000, Causa C-344/98.

[2] Sul tema settlement/ private enforcement, v., tra gli ultimi, B. Bornemann, Cartel Damages; Liablility and Settlement, 17 ottobre 2018, disponibile su https://ssrn.com/abstract=3208840; G. Gürkaynak – O. İnanılır – S. Diniz, The Good and Evil of Leniency and Settlement Procedures in Formative Competition Law Regimes, 1° luglio 2015, in International Antitrust Bulletin, Volluglio 2015, disponibile su https://ssrn.com/abstract=3149331.

3. Un secondo caso italiano nel settore della telefonia

Altro caso rilevante ai fini del presente lavoro è quello fondato sull’azione risarcitoria, introdotta sempre dinanzi al Tribunale di Milano da un operatore telefonico (di seguito, “T”), a valle del procedimento dell’Autorità A357 (di seguito, “Procedimento A357”).

Il Procedimento A357, che può essere ritenuto forse il caso che più ha concorso alla maturazione del private enforcement in Italia, era stato avviato dall’Agcm nel 2005[3].

Nel luglio 2006 gli uffici inquirenti dell’Agcm comunicavano i risultati delle indagini fino ad allora svolte (di seguito, “CRI”), contestando alle imprese investigate:

(i) l’abuso della posizione dominante collettiva detenuta da tre primari operatori telefonici nel mercato dei servizi all’ingrosso di accesso alle infrastrutture di rete mobile, realizzato attraverso il rifiuto ingiustificato di fornire l’accesso alle proprie reti mobili agli operatori terzi richiedenti;

(ii) l’abuso della posizione dominante individuale detenuta singolarmente dai medesimi operatori telefonici nei mercati dei servizi all’ingrosso di terminazione sulle rispettive reti mobili, realizzato attraverso l’adozione di comportamenti discriminatori in favore delle proprie divisioni commerciali, consistenti nell’offerta a queste ultime terminazione fisso-mobile, per i servizi di telefonia fissa rivolti alla clientela aziendale, a condizioni più favorevoli di quelle praticate ai propri concorrenti.

Dopo aver analizzato i piani tariffari commercializzati nel periodo 2000-2005 dai tre operatori telefonici considerati per l’offerta di servizi di telefonia fissa rivolti ai clienti aziendali, gli uffici dell’Agcm giungevano nella CRI alla conclusione che un certo numero dei predetti piani tariffari contemplasse l’applicazione al cliente finale (i clienti aziendali) di un prezzo al dettaglio per le chiamate fisso-mobile di tipo on-net[4] inferiore alla tariffa all’ingrosso di terminazione fisso-mobile fatta pagare ai concorrenti. Da questa circostanza gli uffici dell’Agcm traevano argomento per formulare l’ipotesi secondo cui ciascuno dei tre gestori avesse implicitamente applicato alle proprie divisioni commerciali condizioni di terminazione fisso-mobile delle chiamate originate dai clienti aziendali più favorevoli rispetto a quelle applicate agli operatori terzi, e che i prezzi praticati dalle divisioni commerciali dei predetti operatori per i servizi al dettaglio di fonia fisso-mobile rivolti alla clientela aziendale non fossero replicabili da operatori concorrenti ugualmente efficienti. In buona sostanza, l’accusa mossa ai tre operatori era quella di aver realizzato pratiche tariffarie di compressione dei margini (c.d. margin squeeze), e che tali condotte configurassero un abuso di posizione dominante nel mercato a monte dei servizi all’ingrosso di terminazione su rete mobile con effetti escludenti nel mercato a valle dei servizi al dettaglio di fonia fisso-mobile rivolti alla clientela aziendale.

In tale contesto, in data 10 novembre 2006, uno dei tre operatori telefonici indagati (di seguito, anche solo “V”) aveva presentato una proposta di impegni ai sensi dell’art. 14-ter della Legge antitrust, introdotto pochi mesi prima. Con provvedimento del maggio 2007, l’Agcm aveva accolto l’impegno avanzato, rendendolo obbligatorio, e per l’effetto aveva chiuso il procedimento nei confronti della sola V “senza accertare l’infrazione”[5].

L’istruttoria era dunque proseguita nei confronti delle altre imprese investigate e nell’agosto del medesimo anno l’Agcm aveva concluso il Procedimento A357 anche nei confronti dei due operatori telefonici residui, ritenendo insussistente l’ipotizzato abuso di posizione dominante collettiva supra sub (i), ma accertando il prospettato abuso di posizione dominante individuale sub (ii)[6].

Avverso il provvedimento finale n. 17131 i due operatori telefonici sanzionati presentavano ricorso dinanzi al Giudice amministrativo, che però rigettava le doglianze sollevate. Anche il provvedimento n. 16871 di accettazione dell’impegno di V veniva impugnato. Tuttavia, tutti i predetti ricorsi venivano respinti dal TAR Lazio, nonché dal Consiglio di Stato, risultando così confermato in toto la legittimità del provvedimento di chiusura del Procedimento A357 nei confronti di V senza accertamento dell’infrazione[7].

A valle della chiusura del Procedimento A357, T ha convenuto in giudizio V dinanzi al Tribunale di Milano, lamentando di essere stata vittima proprio dell’abuso di posizione dominante che l’Agcm aveva contestato a V con la CRI, ma accertato nei confronti dei soli operatori sanzionati. Più in particolare, Teleunit ha dedotto che lo stralcio della posizione di V conseguente all’accettazione degli impegni non sarebbe valsa ad escludere gli effetti dell’accertamento dell’abuso derivanti dalle risultanze dell’istruttoria condotta dall’Agcm, come deducibili nella CRI.

Con la Sentenza n. 12227/2013, il Tribunale di Milano ha definito il giudizio di primo grado, accogliendo la domanda di T.

Il Tribunale è giunto alle suddette determinazioni per quel che rileva in questa sede, affermando che l’abuso di posizione dominante di V risultasse accertato in forza del Procedimento A357, ed in particolare della decisione dell’Agcm del 24 maggio 2007 di rendere vincolanti gli impegni proposti da V, alla quale deve essere riconosciuto il valore di “prova privilegiata” (pagg. 5 e ss. della Sentenza). Passaggio di maggior rilievo ai fini del presente lavoro è l’affermazione del Tribunale di Milano, secondo cui “l’AGCM valuta le misure correttive oggetto degli impegni presentati dall’impresa ai sensi dell’art. 14-ter in relazione alla loro idoneità a far venir meno i profili anticoncorrenziali oggetto dell’istruttoria […] ed il dato letterale della disposizione porta a ritenere che l’esame degli impegni non possa prescindere dalla ricognizione (con esito positivo) degli aspetti anticompetitivi considerati in fase di avvio del procedimento. Si ritiene quindi che la valutazione di idoneità degli impegni da parte dell’Autorità, nel rispetto del principio di proporzionalità, non possa che presupporre una condotta anticoncorrenziale (e non un suo semplice sospetto) in considerazione della strumentalità dei primi per elidere conseguenze distorsive della seconda (e non per fornire regole orientative del mercato a prescindere dall’esigenza di eliminare condotte anticoncorrenziali). Ne consegue che anche alla decisione dell’AGCM con cui sono rese vincolanti le misure proposte dalle parti può riconoscersi in sede civile il valore di prova privilegiata quanto alla posizione rivestita dalla parte sul mercato ed al suo abuso“.

A tale conclusione il Tribunale è giunto, facendo leva (a) sia sulla sostanziale corrispondenza dei comportamenti anticoncorrenziali dei tre operatori telefonici accertati nel corso dell’istruttoria (b) sia sul richiamo dell’Agcm alle risultanze istruttorie nella valutazione degli impegni presentati da V.

La pronuncia è stata confermata in appello nel 2016, nei fatti enfatizzando la circostanza che la CRI notificata a V fosse del tutto analoga a quella relativa a quella ai due operatori telefonici sanzionati. Più in particolare, secondo il Giudice di secondo grado, a fronte delle allegazioni di T, V avrebbe disatteso l’onere di provare la sua estraneità ai fatti contestati. Ancora, secondo il Giudice di secondo grado, “Ad esimere [V] da ogni responsabilità civile nei confronti della vittima dell’illecito anticoncorrenziale non varrebbe pertanto l’aver avuto accesso alla misura riparativa che ha permesso alla società di evitare la sanzione, atteso che i lavori istruttori danno conto di una condotta sostanzialmente anticoncorrenziale, e sotto tale profilo, [V] non ha dimostrato l’infondatezza dei rilievi svolti dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato in sede istruttoria, in tale sede certamente valevoli come elemento di prova[8].

[3] Agcm, A357, provv. n. 14045 del 23 febbraio 2005, in Boll. n. 8, 2005.

[4] Per chiamate fisso-mobile on-net si intendono le chiamate originate dalla rete fissa di un operatore e terminate sulla rete mobile del medesimo operatore. Un sottoinsieme di questa tipo chiamate è costituito dalle chiamate fisso-mobile cd. intercom (interaziendali), ovverosia le chiamate originate da utenti registrati di una data azienda e terminate su altro utente registrato della medesima azienda.

[5] Agcm, A357, provv. n. 16871 del 24 maggio 2007, in Boll. n. 20, 2007.

[6] Agcm, A357, provv. n. 17131 del 3 agosto 2007, in Boll. n. 29, 2007.

[7] TAR Lazio, Sez. I, 2008, n. 2902; Consiglio di Stato, Sez. VI, 2011, n. 2438.

[8] C. App. Milano, Sez. I, 27 maggio 2016, n. 2108. La pronuncia, a quanto consta, è stata oggetto di ricorso per cassazione, allo stato pendente.

4. Un recente caso comunitario

Il breve excursus di cui sopra deve essere letto, anche alla luce di una recente pronuncia comunitaria, in cui la Corte di Giustizia ha aggiunto ulteriori spunti al quadro milanese, sopra delineato[9].

L’antefatto della decisione è rappresentato da due contratti stipulati nel 1993 con un operatore petrolifero (di seguito, “R”) da due persone fisiche, cui poi è subentrata una società spagnola (di seguito, “G”). Più in particolare: con il primo di tali contratti, le due persone fisiche costituivano un diritto reale di usufrutto a favore della R, per un periodo di 25 anni, su un terreno situato in Spagna e sulla stazione di servizio ivi impiantata, nonché sulla concessione amministrativa che autorizzava la gestione di tale stazione; con il secondo, R concedeva in affitto a una delle due persone fisiche considerate il terreno e la stazione di servizio, per un periodo di 25 anni, dietro pagamento di un determinato canone mensile.

Il contratto di affitto imponeva a G, per l’intera durata del contratto di affitto medesimo, di rifornirsi esclusivamente presso la R, la quale avrebbe comunicato periodicamente i prezzi massimi di vendita del carburante al pubblico e consentito all’affittuario di concedere sconti decurtandoli dalle loro commissioni, senza ridurre le entrate del fornitore.

Negli anni successivi, la Commissione avviava nei confronti di R un procedimento ex art. 101 del TFUE, ipotizzando che i contratti di fornitura in esclusiva a lungo termine, inclusi i contratti che interessavano G, sollevassero timori di incompatibilità con il divieto di intese restrittive della concorrenza, in quanto idonei a causare un importante “effetto di preclusione” dalla vendita al dettaglio di carburanti sul mercato spagnolo.

In risposta alla valutazione preliminare della Commissione, R presentava a quest’ultima proposte di impegni consistenti, in particolare, nell’astenersi dal concludere in futuro contratti di esclusiva a lungo termine, nell’offrire agli affittuari di stazioni di servizio interessati un incentivo economico per porre termine ai contratti di fornitura a lungo termine in corso con R, nonché nel non acquisire, per un determinato periodo, stazioni di servizio autonome di cui essa non fosse già il rifornitore. Tali impegni venivano resi obbligatori nell’aprile 2006[10].

Nel 2008, G conveniva dunque in giudizio R dinanzi allo Juzgado de lo Mercantil n. 4 de Madrid (i.e. Tribunale commerciale di Madrid), al fine di ottenere, da un lato, l’annullamento del contratto di affitto, in quanto non conforme all’art. 101 del TFUE, e, dall’altro, il risarcimento del danno risultante dall’applicazione del suddetto contratto.

Il ricorso di G veniva respinto, in primo come in secondo grado[11]. Per gli effetti, la società ricorreva per cassazione dinanzi al Tribunal Supremo (i.e. Corte suprema di Spagna), che, ritenendo sussistenti dei dubbi circa la portata della competenza dei giudici nazionali alla luce degli artt. 9 e 16 del Reg. (CE) n. 1/2003, decideva di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte di Giustizia inter alia la seguente questione pregiudiziale: “Se, conformemente all’articolo 16 […] del regolamento [n. 1/2003] , la [decisione concernente gli impegni] osti a che gli accordi ivi contemplati possano essere dichiarati nulli da un giudice nazionale in considerazione della durata della clausola di fornitura in esclusiva, benché possano essere senz’altro annullati per altre cause come, per esempio, l’imposizione da parte del fornitore all’acquirente (o al rivenditore) di un prezzo minimo di vendita al pubblico“.

In tale contesto, il Giudice comunitario ha ricordato che una decisione con impegni “non certifica la conformità all’articolo 101 TFUE della prassi oggetto delle preoccupazioni. Infatti, dato che, ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, del regolamento n. 1/2003, letto alla luce del considerando 13 di quest’ultimo, la Commissione può procedere a una mera «valutazione preliminare» della situazione concorrenziale, senza che, successivamente, la decisione concernente gli impegni adottata sul fondamento di tale articolo giunga alla conclusione dell’eventuale sussistere o perdurare di un’infrazione, non si può escludere che un giudice nazionale concluda che la prassi oggetto della decisione concernente gli impegni infranga l’articolo 101 TFUE e che, in tal modo, esso intenda dichiarare, a differenza della Commissione, che detto articolo è stato infranto […] Ne consegue che una decisione adottata sul fondamento dell’articolo 9, paragrafo 1, del regolamento n. 1/2003 non è idonea a far sorgere un legittimo affidamento in capo alle imprese interessate quanto alla conformità all’articolo 101 TFUE del loro comportamento. Infatti, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 39 delle sue conclusioni, la decisione concernente gli impegni non può «legalizzare» il comportamento sul mercato dell’impresa interessata, tantomeno con effetti retroattivi“. A tali argomenti la Corte aggiunge un passaggio molto significativo ai fini del presente lavoro ovverosia che, “i giudici nazionali non possono ignorare questo tipo di decisioni. Infatti, atti del genere hanno in ogni caso carattere decisorio. Inoltre, sia il principio di leale cooperazione, di cui all’articolo 4, paragrafo 3, TUE, sia l’obiettivo di un’efficace e uniforme applicazione del diritto della concorrenza dell’Unione impongono al giudice nazionale di tener conto della valutazione preliminare della Commissione e di considerarla quale indizio, o addirittura quale principio di prova, della natura anticoncorrenziale dell’accordo di cui trattasi alla luce dell’articolo 101, paragrafo 1, TFUE”.

[9] Sentenza della Corte (Terza Sezione) del 23 novembre 2017, Causa C-547/16.

[10] Cfr. Commissione, decisione 2006/446/CE del 12 aprile 2006, caso COMP/B-1/38.348, in GU 2006, L 176, pag. 104.

[11] Sentenza emessa l’8 luglio 2011, confermata in appello, con la sentenza dell’Audiencia Provincial de Madrid (Corte provinciale di Madrid, Spagna) del 27 gennaio 2014.

5. Impegni e private enforcement

Le tre pronunce sopra riportate, a mio avviso, concorrono a delineare un quadro dell’istituto degli impegni ancora non ben circostanziato, in particolare nella prospettiva del private enforcement.

La premessa d’obbligo mi pare essere che il caso V ha presupposti atipici e quindi unici, fondandosi su una proposta di impegni avanzata e resa vincolante successivamente alla notifica della CRI. Circostanza che si pone in netto contrasto con la prassi successivamente registratasi presso l’AGCM, che tende a ritenere ammissibile una proposta di impegni solo ove pervenuta prima della trasmissione della CRI[12].

Ad ogni modo, mi pare che dalle pronunce sopra riportate si possa trarre conferma dei seguenti condivisibili principi, ovverosia che le decisioni con impegni:

(i) a differenze di quelle di settlement, non comportano un accertamento dell’illecito contestato in sede di avvio;

(ii) non implicano una presunzione di innocenza in relazione all’illecito contestato in sede di avvio, stante la possibilità per il Giudice ordinario di accertare il medesimo illecito in sede risarcitoria, valorizzando ogni elemento disponibile, ivi inclusa una CRI[13].

Ciò detto, ritengo, di contro, che dalle pronunce considerate non si possano trarre due ulteriori principi che, invero, di tanto in tanto sembrano affacciarsi. A mio avviso, infatti:

(a) alla proposizione di impegni non può ascriversi una qualche valenza confessoria;

(b) alla valutazione di idoneità, al cui buon esito l’Agcm subordina l’accettazione degli impegni, non può attribuirsi il valore di un accertamento.

Provo a spiegarmi meglio.

Quanto al primo rilievo, a mio avviso, ritenere che una proposta di impegni equivalga a una ammissione di responsabilità porterebbe inevitabilmente a riconoscere una colpa in capo alla impresa che si sia fatta parte attiva.

Tale affermazione, a mio avviso, è completamente contraria alla comune esperienza, che vede fondarsi il ricorso all’art. 14- ter della Legge antitrust anche soltanto sulla aspettativa – del tutto legittima e meritevole di tutela – di sopportare dei costi aziendali, pure significativi, al fine di chiudere più rapidamente il procedimento in corso[14] e, quindi, ridimensionare tutti i costi che una istruttoria antitrust inevitabilmente ingenera. Diversamente opinando, peraltro, sul piano sistematico, non si coglierebbe alcuna differenza rispetto al settlement che, come per l’appunto evidenziato nel caso CVM, presuppone l’esplicita ammissione di responsabilità da parte della impresa investigata. Quest’ultima, proprio in ragione di ciò, verrà infatti sanzionata, cosa che non avviene nel caso di istruttorie con impegni.

Riconoscere una valenza confessoria al ricorso allo strumento in questione porterebbe, poi, a una sostanziale sterilizzazione dell’istituto considerato. Con ciò, mettendo anche a rischio l’attività della stessa Agcm, che grazie all’art. 14- ter della Legge antitrust riesce ad ottimizzare il proprio enforcement[15].

Con riferimento al valore probatorio della valutazione di idoneità svolta dalla AGCM al fine di rendere vincolanti gli impegni pervenuti, è il caso di ricordare che, già prima del D.Lgs. 19 gennaio 2017, n. 3, recante “Attuazione della direttiva 2014/104/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 novembre 2014, relativa a determinate norme che regolano le azioni per il risarcimento del danno ai sensi del diritto nazionale per violazioni delle disposizioni del diritto della concorrenza degli Stati membri e dell’Unione europea”, la Suprema Corte aveva affermato che “la decisione dell’Autorità Garante o dei Giudici amministrativi, che definitivamente confermano o riformano tale decisione, riveste un ruolo significativo nell’accertamento dell’intesa, della pratica concordata o dell’abuso di posizione dominante, costituendo prova privilegiata della sussistenza del comportamento accertato o della posizione rivestita sul mercato e del suo eventuale abuso”, fermo restando il diritto delle parti nel giudizio civile instaurato per il risarcimento dei danni di offrire prove a sostegno di tale accertamento o ad esso contrarie[16]. Tuttavia, come risulta chiaro dalla predetta sentenza e dalle conformi pronunce successive[17], le decisioni dell’Agcm a cui poteva essere riconosciuto il valore di “prova privilegiata” erano solo le decisioni di accertamento, ovverosia i provvedimenti finali, resi ai sensi dell’art. 15, comma 1, della Legge antitrust, che concludono l’istruttoria accertando l’effettiva sussistenza dell’infrazione contestata all’impresa. Sia la sentenza n. 3640/2009, sia le numerose sentenze successive facevano, infatti, tutte riferimento alle decisioni che contengono un “accertamento” dell’infrazione. Completamente diverse da questo tipo di decisioni sono, invece, quelle previste dall’art. 14- ter della Legge antitrust, che, per l’appunto, non determinano alcun accertamento di infrazione.

D’altro canto, la procedura prevista dall’art. 14- ter impone unicamente all’Agcm di stabilire – in chiave meramente teleologica[18] – se le misure proposte dall’impresa siano idonee a far venire meno i profili anticoncorrenziali oggetto dell’istruttoria, così come prospettati dall’Autorità in sede di avvio, ma senza compiere alcuna verifica in merito alla loro effettiva sussistenza.

Quanto qui affermato, oltre ad emergere dal tenore letterale della norma in commento, trova espressa e concorde conferma: (i) nella ricostruzione operata dalla stessa Agcm della funzione propria delle decisioni con impegni nel provvedimento finale del Procedimento A357[19]; (ii) nelle dichiarazioni della Commissione europea[20]; (iii) nella maggioritaria dottrina[21].

Pertanto, nel caso in cui il procedimento sia stato chiuso con impegni, la decisione dell’Agcm non potrà che avere al più una mera valenza indiziaria, essendo rimesso all’attore exart. 2697 c.c. ogni sforzo necessario e sufficiente a fornire evidenza della fondatezza delle proprie tesi. L’azione introdotta non potrà dirsi, dunque, una follow-on, salvo che l’attore sia nelle condizioni di produrre evidenze sufficienti a corroborare il quadro indiziario così delineato.

Quanto sopra sembra coerente con il contesto normativo delineatosi successivamente all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 3/2017: se, infatti, da un lato, quest’ultimo all’art. 7 riconosce dignità di prova alla violazione del diritto della concorrenza che sia stata “constatata” da una decisione dell’Autorità, dall’altro, la Legge antitrust all’art. 14- ter, co. 1, continua a prevedere che l’Agcm possa ricorrere a tale strumento quando sussistano gli estremi per “far venir meno i profili anticoncorrenziali oggetto dell’istruttoria”.

[12] Sia permesso rinviare a C.E. Cazzato, Decisioni con impegni, misure cautelari e programmi di clemenza nell’attività dell’AGCM (anno 2015), in Concorrenza e mercato, Vol. 23/2016, p. 345. Contra, v. Consiglio di Stato, Sez. VI, 20 luglio 2011, n. 4393.

[13] Sul cui valore probatorio pure ci sarebbe tanto da dire.

[14] Sulle tempistiche di un procedimento ex art. 14- ter della Legge antitrust, v. C.E. Cazzato, Decisioni con impegni, misure cautelari e programmi di clemenza nell’attività dell’AGCM (anno 2017), in Concorrenza e mercato, 2019, in corso di pubblicazione.

[15] Sull’istituto, da ultimo, cfr. C. Ritter, Remedies for Breaches of EU Antitrust Law (17 maggio 2016), disponibile su www.ssrn.com; H. Schweitzer – M. Bay, Commitments and Settlements – Benefits and Risks (12 aprile 2016), contributo presentato alla 23rd St.Gallen International Competition Law Forum (ICF) 2016 disponibile su www.ssrn.com. Sia permesso rinviare anche a C.E. Cazzato, Decisioni con impegni, misure cautelari e programmi di clemenza nell’attività dell’AGCM (anno 2017), in Concorrenza e mercato, 2019, in corso di pubblicazione.

[16] Cass., Sez. I, 13 febbraio 2009, n. 3640.

[17] Cfr., tra le altre, Cass., Sez. III, 29 maggio 2013, n. 13456; Cass., Sez. III, 9 maggio 2012, n. 7039; Cass., Sez. III, 31 agosto 2011, n. 17891.

[18] C. Fratea, Il private enforcement del diritto della concorrenza dell’Unione europea, Napoli, 2015, p. 232.

[19] In cui è stato osservato che “La decisione ai sensi dell’art14-ter presuppone la mera prefigurazione di un’ipotesi di violazione della normativa di concorrenza. L’atto di avvio dell’istruttoria infatti può basarsi su ragionevoli supposizioni dell’esistenza di una violazione alle regole di concorrenza. L’oggetto dell’atto di avvio può quindi riguardare una serie di elementi che prima facie, indipendentemente dall’accertamento istruttorio che non è ancora stato svolto, sollevano preoccupazioni concorrenziali. È, dunque, un oggetto assai più indefinito ed ampio dell’oggetto della pronuncia di accertamento. All’Autorità non incombe alcun onere probatorio, essa dovrà limitarsi a valutare l’idoneità” degli impegni, cioè la loro capacità sul piano tecnico effettuale di risolvere il problema delineato nell’atto di avvio. Assai diversa è la situazione nella procedura di accertamento ordinaria. In quest’ultima, incombe sull’Autorità (articolo 2 del Regolamento 1/03, che è però espressione di un principio generale immanente agli ordinamenti dello Stato di diritto) l’onere di dimostrare l’avvenuta realizzazione di un illecito antitrust. Ciò comporta che l’Autorità deve dimostrare in modo convincente, al di là di ragionevoli dubbi, che risultano integrati tutti gli elementi delle varie fattispecie antitrust, così come puntualmente delineati dall’ingente messe di precedenti giurisprudenziali. La mancanza anche di un solo elemento, ritenuto costitutivo dalla giurisprudenza consolidata, impedisce di accertare la positiva realizzazione dell’illecito. Ecco allora che l’oggetto dell’accertamento si sostanzia nella verifica se i fatti accertati in istruttoria possano essere sussunti nelle fattispecie di illecito, come dettagliatamente delineate dalla giurisprudenza. Tali diverse discipline danno luogo alle diverse ratio delle due procedure. Quella di cui all’articolo art14-ter, mira a risolvere un problema di concorrenza, del tutto indipendentemente dall’accertamento puntuale di una violazione delle regole di concorrenza, valorizzando il consenso dei privati, che giuridicamente hanno la disponibilità della stessa. Invece, la procedura ordinaria di accertamento è volta appunto a verificare se si è storicamente realizzata una violazione delle regole di concorrenza; è dominata dall’iniziativa d’ufficio, soggiace all’onere della prova e, in caso di accertamento positivo, ha come esito un provvedimento precettivo che impone una diffida e, nei casi gravi, anche una sanzione” (§372).

[20] Secondo cui “Article 9 decisions [cioè le decisioni con impegni di cui all’articolo 9 del Regolamento 1/2003 corrispondenti alle decisioni previste dall’art. 14- ter della l. 287/90] are silent on whether there was or still is a breach of the EU competition rules. Thus a customer or a competitor possibly seeking private enforcement in national courts still needs to prove the illegality of the former behaviour to obtain compensation for damages” (MEMO/04/217 della Commissione del 17 settembre 2004, Commitment decisions (Article 9 of Council Regulation 1/2003 providing for a modernised framework for antitrust scrutiny of company behaviour), pubblicato sul sito web http://europa.eu/rapid/press-release_MEMO-04-217_en.htm). Il concetto si trova espresso anche nella Comunicazione della Commissione 2011/C 308/06 sulle migliori pratiche relative ai procedimenti previsti dagli articoli 101 e 102 del TFUE, secondo cui “La differenza principale tra una decisione di divieto ai sensi dell’articolo 7 e una decisione relativa agli impegni ai sensi dell’articolo 9 del regolamento (CE) n. 1/2003 è che la prima contiene la constatazione di un’infrazione, mentre la seconda rende gli impegni vincolanti senza stabilire se vi sia stata o se perduri ancora un’infrazione”.

[21] Cfr., tra i tanti, C. Fratea, Il private enforcement del diritto della concorrenza dell’Unione europea, Napoli, 2015, pp. 230 e ss.; F. Cintioli, Le nuove misure riparatorie del danno alla concorrenza, in Giur.comm., 2008, I, 134 e ss.; G. Sepe, Le decisioni con impegni, in A. Catricalà – P. Troiano, Codice commentato della concorrenza e del mercato, Torino, 2010, pag. 266, secondo cui “Poiché le decisioni assunte ai sensi dell’art. 9 non prendono posizione in ordine all’eventuale esistenza di una infrazione, esse non possono essere utilmente invocate nei procedimenti civili dai soggetti che assumano di essere stati indebitamente lesi dalla condotta asseritamene anticoncorrenziale posta in essere dalle imprese interessate. Al contrario, il giudice adito nelle azioni di nullità e di risarcimento del danno dovrà accertare autonomamente la sussistenza dell’illecito antitrust”; I. Kawka, Rights of an Undertaking in Proceedings Regarding Commitment Decisions under Article 9 of Regulation No. 1/2003, in Yearbook of Antitrust and Regulatory Studies, Vol. 5, No. 6, 2012, pag. 169 e s., disponibile su http://ssrn.com/abstract=2130862; C.I. Nagy, Commitments as Surrogates of Civil Redress in Competition Law: The Hungarian Perspective, in European Competition Law Review, Vol. 33, No. 11, 2012, pag. 531, disponibile su http://ssrn.com/abstract=2232041, secondo cui “the competition authority may put the procedure to an end without imposing a fine and establishing the illegality of the conduct, while the undertaking may assume voluntary commitments without admitting the mischief”.

6. Conclusioni

Su tali assunti, ritengo che allo stato alle decisioni con impegni non possa riconoscersi altro valore, se non quello di meri indizi, come tali, irrilevanti sotto il profilo probatorio, se non corroborati da evidenze precise e concordanti a conferma dell’accertamento del preteso illecito.

Diversamente opinando, si finirebbe con l’assottigliare artificiosamente la linea di demarcazione tra l’istituto di cui all’art. 14- ter della Legge antitrust e il settlement, nonché con il valorizzare oltremodo la valutazione teleologica svolta dall’Agcm a valle della proposta di impegni ricevuta.

Redazione

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