Il termine per il reclamo ex art. 183 l. fall. avverso il decreto di omologazione

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Abstract: la Corte di Cassazione ha finalmente avuto occasione di pronunciarsi sul tema della reale durata dello specifico termine utile per proporre reclamo avverso il decreto di omologazione del Tribunale. Si tratta del reclamo di cui all’art. 183, l. fall., che non indica espressamente alcun termine entro il quale attivarsi. Prima di illustrare le osservazioni e la decisione dei giudici di Piazza Cavour, un paragrafo del presente contributo verrà dedicato all’ormai consolidato principio c.d. “della prevalenza della sostanza sulla forma” con riferimento all’effettiva natura di ciascun provvedimento giudiziario. Nel caso di specie, in effetti, il predetto argomento è fortemente connesso al tema del termine ex art. 183 cit.

Non si conoscono precedenti pronunce in merito allo specifico termine in esame.

1. Il caso in breve

Con sentenza del 19 marzo 2012, n. 4304, i giudici della prima sezione della Corte di Cassazione hanno deciso sulla seguente controversia.

Una società di diritto francese si è rivolta ai giudici del Supremo Collegio contro il provvedimento con cui i giudici della Corte d’appello avevano respinto il reclamo, proposto dalla predetta società, avverso il decreto con cui il Tribunale aveva omologato il concordato preventivo presentato da un’altra società francese.

In sintesi, la sequenza dei fatti è la seguente: i) il Tribunale emanava il suddetto decreto di omologa, notificato il 19 febbraio 2010 alla ricorrente; ii) il successivo 22 marzo quest’ultima proponeva reclamo dinanzi alla Corte d’appello; iii) detti giudici, con decreto del 5 ottobre 2010, respingevano il reclamo, ritenuto inammissibile perché proposto oltre il termine perentorio di 10 giorni, così come ricavato dal combinato disposto degli artt. 183 l. fall., 739 e 742-bis cod. proc. civ.

2. La reale natura del provvedimento del Tribunale

Prima di analizzare la statuizione degli ermellini, è bene fare il punto sul tema della effettiva natura del provvedimento del Tribunale, dal quale tutta la vicenda scaturisce.

Stabilire la natura di un provvedimento, a prescindere dalla forma, assume fondamentale rilievo anche e soprattutto per il regime delle impugnazioni, essendo suscettibili di impugnazione solo quei provvedimenti di carattere decisorio.

Per legge ogni provvedimento a carattere decisorio deve rivestire la forma di sentenza, e ciò a prescindere dal fatto che esso decida su una questione di merito o di rito. La sentenza, infatti, si caratterizza per la sua suscettibilità a passare in giudicato (carattere decisorio e definitivo), e una volta emanata essa potrà essere revocata o modificata dal solo giudice d’appello1.

Bisogna partire dall’art. 131 cod. proc. civ., in cui si legge che “la legge prescrive in quali casi il giudice pronuncia sentenza, ordinanza o decreto”. Integra questa norma l’art. 279 cod. proc. civ., co. 1, che prevede che “il collegio pronuncia ordinanza quando provvede soltanto su questioni relative all’istruzione della causa, senza definire il giudizio, nonché quando decide soltanto questioni di competenza”. Per contro, il collegio pronuncia sentenza nei seguenti casi: i) quando definisce il giudizio, decidendo questioni di giurisdizione”; ii) quando definisce il giudizio, decidendo questioni pregiudiziali attinenti al processo o questioni preliminari di merito”; e iii)quando definisce il giudizio, decidendo totalmente il merito”.

Nel caso in esame il decreto del Tribunale, oltre che sull’omologazione del concordato preventivo, aveva deciso anche sulla competenza internazionale.

In virtù di tale constatazione, la società francese aveva ritenuto, sin dal primo momento utile, che la vicenda fosse inficiata oltre che da un’errata interpretazione della natura del provvedimento del Tribunale, anche da un clamoroso errore di calcolo dei giorni per il reclamo da parte dei giudici della Corte d’appello, che avevano deciso per: i) la natura di decreto del provvedimento del Tribunale; ii) l’applicabilità del termine di 10 giorni per il reclamo; iii) l’ inammissibilità del reclamo perché tardivamente proposto.

In particolare, i giudici di appello avevano fondato la loro decisione sulle seguenti norme procedurali.

Al primo comma dell’art. 183 l. fall. si legge che “[c]ontro il decreto [di omologazione] del tribunale può essere proposto reclamo alla corte d’appello, la quale pronuncia in camera di consiglio”.

L’art. 742-bis cod. proc. civ., contenuto nel Capo VI intitolato “Disposizioni comuni ai procedimenti in camera di consiglio”, stabilisce che “[l]e disposizioni del presente capo si applicano a tutti i procedimenti in camera di consiglio, ancorché non regolati dai capi precedenti o che non riguardino materia di famiglia o di stato delle persone”. E tra le disposizioni di tale capo v’è l’art. 739 cod. proc. civ., ove (nella seconda parte del suo primo comma) si legge che “… [c]ontro i decreti pronunciati dal tribunale in camera di consiglio in primo grado si può proporre reclamo con ricorso alla Corte d’appello, che pronuncia anch’essa in camera di consiglio.” Inoltre, ai sensi del suo secondo comma “[i]l reclamo deve essere proposto nel termine perentorio di dieci giorni dalla comunicazione del decreto, se è dato in confronto di una sola parte, o dalla notificazione se è dato in confronto di più parti.2

Orbene, in sede di appello la società ricorrente, come già detto, aveva osservato che il provvedimento del Tribunale, costituendo una decisione sul presupposto processuale della competenza internazionale (ex art. 3 Reg. CE 1346/2000 del Consiglio del 29 maggio 2000, relativo alle procedure d’insolvenza3), avesse in realtà, e almeno per la parte riguardante la decisione su tale questione, natura di sentenza a prescindere dal nomen iuris attribuitogli. Cosicché il termine da considerare per la relativa impugnazione non fosse quello per i decreti emessi in camera di consiglio (10 giorni), bensì quello ordinario di 30 giorni previsto per l’appello avverso le sentenze ex art. 325 cod. proc. civ.

Addirittura, per andare incontro alle richieste dell’appellante e sicuri dei loro ragionamenti, i giudici di Corte d’appello avevano affrontato la questione dell’ammissibilità del reclamo anche in relazione al caso in cui si fosse preso in considerazione il termine 30 giorni per la sua proposizione. Ciononostante, a detta loro, anche in tale ipotesi il reclamo era da considerare inammissibile perché presentato il trentunesimo giorno dalla notifica del provvedimento in contestazione.

A ben riflettere però e prendendo per buono il suddetto termine, il giorno di presentazione del reclamo, ossia il 22 marzo 2010, coincideva con il trentesimo giorno utile per l’impugnazione del provvedimento. E ciò per i seguenti motivi.

Si consideri, anzitutto, che febbraio ha 28 giorni e che il 21 marzo 2010 era una domenica.

Detto ciò, ai sensi dell’art. 155, co. 4 cod. proc. civ., se il dies ad quem cade in un giorno festivo4, allora il termine va a coincidere con il primo giorno seguente non festivo.

Dunque, la Corte d’appello, ipotizzando l’applicabilità del termine di 30 giorni, era incorsa in un clamoroso errore di conteggio.

Chiusa la parentesi sul calcolo dei giorni e ritornando al tema della reale natura del provvedimento in esame, la tesi della ricorrente è in linea con l’opinione largamente diffusa sia in dottrina sia nella giurisprudenza di legittimità5, secondo cui in casi del genere deve darsi rilevanza alla sostanza (effetti giuridici) del provvedimento anziché alla sua forma (nomen iuris).

Si tratta del c.d. principio della “prevalenza della sostanza sulla forma”, che permea l’intero sistema dei provvedimenti giurisdizionali e che la giurisprudenza considera principio generale desumibile dalle norme del codice di rito e ormai consolidato6.

A tal proposito, in una sentenza delle Sezioni Unite di Cassazione si legge che “al fine di stabilire se un provvedimento abbia natura di sentenza o di ordinanza, è decisiva non già la forma ma il suo contenuto … in particolare [quando il giudice abbia affermato] la propria giurisdizione7. Si trattava, in quel caso, di un’ordinanza di rimessione degli atti alla Corte costituzionale, nella quale il giudice di prime cure aveva affermato, oltre alla sussistenza della propria giurisdizione sulla controversia (in materia di pubblico impiego), la non manifesta infondatezza delle ipotesi di legittimità costituzionale sollevate nel corso del processo. Significativamente, la Cassazione ha chiarito che il carattere puramente endoprocessuale di siffatta ordinanza di rimessione non impedisce la sua qualificazione come sentenza, “per quanto attiene alla questione sulla giurisdizione”.

A ben riflettere, sono appellabili i provvedimenti di primo grado aventi contenuto decisorio, vale a dire contenuto sostanziale di sentenza, non solo che siano stati erroneamente emessi in forma di ordinanza/decreto, ma anche che siano stati emessi sotto forma di ordinanza/decreto perché così prescritto dalla legge8.

Qualcuno potrebbe essere portato ad interpretare il suddetto principio quale non della “prevalenza della sostanza sulla forma”, bensì della “prevalenza della forma prevista dalla legge sulla forma utilizzata dal giudice”. In virtù di tale orientamento, quindi, il giudice di primo grado avrebbe correttamente operato utilizzando la forma del decreto, la quale è quella prevista dalla legge per l’omologazione del concordato preventivo.

In realtà tale interpretazione non persuade, in quanto elude la questione di fondo. Infatti, si ribadisce che, nello statuire sulle questioni ad esso sottoposte, il Tribunale aveva in realtà deciso due questioni diverse, una pregiudiziale sulla giurisdizione del giudice italiano ex art. 3 Reg. 1346/2000 e una in merito all’omologazione del concordato preventivo.

Inoltre, si possono citare casi giurisprudenziali nei quali, pur in presenza di discipline speciali in tema di termini per il reclamo contro provvedimenti emessi dall’autorità giudiziaria con rito camerale, la Cassazione ha comunque sancito l’applicazione del principio generale fondato sulla natura del provvedimento, dal quale ha fatto discendere, quale effetto naturale della presenza di un provvedimento decisorio a prescindere dal nomen, il richiamo al termine ordinario di trenta giorni per l’appello9.

Tutto ciò a dimostrazione dell’erroneità del ragionamento seguito dai giudici di secondo grado, che avevano ricavato il termine di impugnazione dall’appartenenza al rito camerale, a prescindere dalla natura decisoria del provvedimento considerato.

3. Il termine per il reclamo ex art. 183 l. fall.

L’art. 183, l. fall., prevede che “[c]ontro il decreto del tribunale può essere proposto reclamo alla corte di appello, la quale pronuncia in camera di consiglio.

Con lo stesso reclamo è impugnabile la sentenza dichiarativa di fallimento, contestualmente emessa a norma dell’articolo 180, settimo comma.10

In apertura i giudici di Piazza Cavour hanno pensato bene di riportare una parte della Relazione al D.lgs. 12 settembre 2007 n. 16911 (che ha introdotto la suddetta previsione), in cui si legge testualmente che “[i]l comma 6 [dell’art. 16 del cit. d.lgs.] sostituisce l’art. 183 del r.d.. Con l’inserimento della previsione del reclamo alla corte di appello per l’impugnazione sia del decreto, che dell’eventuale sentenza di fallimento emessi all’esito del giudizio di omologazione, serve a chiarire e razionalizzare il regime di impugnativa dei provvedimenti emessi all’esito del giudizio di omologazione, nel rispetto dei principi del “giusto processo”.

Ciò che a noi però interessa, e che gli ermellini hanno chiarito, è l’individuazione del termine applicabile ai fini del reclamo in questione, dal momento che l’art. 183 cit., come si vede, non da indicazioni a riguardo e manca univocità di vedute tra gli operatori del diritto.

Due sono le possibili soluzioni: applicare la disciplina generale dettata per i procedimenti in camera di consiglio, ai sensi del combinato disposto degli artt. 739 e 742-bis cod. proc. civ., così come fatto dai giudici di Corte d’appello nel caso di specie; o quella di carattere speciale contenuta nella legge fallimentare (i.e. art. 26 o artt. 18 e 131 concernenti il concordato preventivo).

A ben vedere, nella giurisprudenza di legittimità non si conoscono pronunce sullo specifico problema dell’individuazione del termine per il reclamo avverso il decreto del tribunale.

Si badi che è vero che l’art. 183, co. 1, l. fall., non prescrive alcun termine per il reclamo, ma non è detto che tale termine debba essere per forza di cose individuato — in relazione ai provvedimenti di natura decisoria — in 10 giorni, non fosse altro perché nel testo della Legge fallimentare esistono ipotesi di termini diversi anche nel rito camerale, come avviene ad esempio per l’art. 131 L. fall. che, pur in diverso ambito, stabilisce un termine per il reclamo pari a trenta giorni.

E difatti, secondo i giudici di Cassazione del caso in esame non v’è dubbio che si debba escludere l’operatività della normativa generale, giacché la soluzione al problema è agevolmente ricavabile da altre disposizioni della legge fallimentare medesima, come spiegato di seguito. 12

Basterebbe considerare, da un lato, il disposto di cui al secondo comma dell’art. 183 cit. e, dall’altro, i principi del giusto processo (il cui rispetto è richiesto nella citata relazione). A ben riflettere, per i giudici questi elementi “fanno ritenere che il legislatore abbia tenuto presente il “reclamo” che con lo stesso decreto legislativo era stato sostituito all’appello contro la sentenza dichiarativa di fallimento, L. Fall., ex art. 18, nonché il “reclamo” … introdotto dal medesimo decreto legislativo in materia di concordato fallimentare con il novellato, L. Fall., art. 131” , ipotesi in cui il termine per il reclamo è di 30 giorni.

In particolare, sarebbe la possibilità di impugnare la sentenza dichiarativa del fallimento “con lo stesso reclamo” proposto avverso il decreto di omologazione, ad imporre l’accoglimento della tesi del termine di 30 giorni indicato all’art. 18, l. fall. E tale dato, in effetti, varrebbe più della previsione (art. 15, co. 1, l. fall.) secondo cui il procedimento fallimentare si svolge “con le modalità dei procedimenti in camera di consiglio”.

La soluzione del termine di 30 giorni appare logica anche per l’impugnazione del solo decreto di omologazione o di suo diniego, alla luce del fatto che uno stesso termine di impugnazione non può “mutare a seconda del contenuto del provvedimento impugnato e della eventualità che contestualmente al diniego di omologazione possa o non possa (ad esempio perché non vi sono istanze di creditori) essere pronunciata “separata” ma “contestuale” sentenza di fallimento, impugnabile “con lo stesso reclamo”.

Detto ciò, gli ermellini hanno poi riscontrato, così come evidenziato dalla ricorrente (v. supra, par. 2), l’ulteriore e clamoroso errore commesso dai giudici di secondo grado in merito al calcolo dei giorni effettivamente trascorsi ai fini del reclamo.

Alla luce di quanto sopra esposto, si è insomma assistito a un passo interessante della Corte di Cassazione, se si pensa che, come detto, prima d’ora non aveva avuto modo di intervenire sul tema della durata dello specifico termine del reclamo avverso il decreto di omologazione del Tribunale, disciplinato dall’art. 183 cit. Si tratta di una sentenza destinata ad essere certamente un punto di riferimento in sede di ulteriore ed eventuale dibattito sull’argomento.

Il giudizio s’è concluso con la cassazione del provvedimento impugnato e rinvio alla Corte d’appello che, in diversa composizione, dovrà procedere a un nuovo esame della controversia.

1 Al contrario, l’ordinanza (e con essa il decreto) può essere revocata o modificata nel corso del giudizio.

2 E’ stata dichiarata “[…] manifestamente non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 739 c. p. c. che prevede il termine stesso per i reclami (in genere) contro i decreti adottati con il rito camerale, in riferimento agli art. 3 e 24 cost.”, Cass. civ., Sez. I, 2 marzo 1987, n. 2167 in Giust. civ. Mass. 1987, 3.

3 Ai sensi dell’art. 3 cit. la competenza ad iniziare una procedura di insolvenza spetta ai giudici dello Stato nel cui territorio è situato il centro degli interessi principali del debitore (“Centre of main interests” – COMI), con la presunzione legale secondo cui per le persone giuridiche tale centro coincide con la sede legale dell’impresa. Per comodità se ne riporta il testo: “sono competenti ad aprire la procedura di insolvenza i giudici dello stato membro nel cui territorio è situato il centro degli interessi principali del debitore. Per le società e le persone giuridiche si presume che il centro degli interessi principali sia, fino a prova contraria,il luogo in cui si trova la sede statutaria”.

4 Alla luce dell’art. 2, lett. f), L. 28 dicembre 2005, n. 263, festiva è considerata anche la giornata del sabato.

5 Cfr. Cass. civ., Sez. II, 22 febbraio 2010, n. 4245, in Nuova giur. civ. comm., I, 897; Cass., 12 marzo 2008, n. 6551; Cass., Sez. II, 12 novembre 2007, n. 23495 in Giust. civ. Mass. 2007, 11; Cass., Sez. Lav., 7 aprile 2006, n. 8174 in Giust. civ. Mass. 2006, 4; Cass., Sez. Un., 24 ottobre 2005, n. 20470 in Giust. civ. Mass. 2005, 10; Cass.; Cass., Sez. Un. 3 dicembre 1992, n. 12889 in Giust. civ. Mass. 1992, 12.. Con sentenza del 4 giugno 1994, n. 5431 in Foro it. 1995, I, 2948, la Cassazione statuì che i decreti camerali ex art. 333 c.c., se contengono una decisione implicita o esplicita circa la competenza, acquisiscono valore di sentenza. Contrariamente, Cass., Sez. Un., 10 giugno 1988, n. 3931 in Nuova giur. civ. comm. 1989, I, 57 e Cass., Sez. Un., 25 gennaio 2002, n. 911 in Riv. dir. internaz. priv. e proc. 2003, 159, in tema di tutela di minori, le quali prediligono la tesi secondo cui avverso i provvedimenti (decreto) limitativi della potestà genitoriale è inammissibile un ricorso in Cassazione ex art. 111 Cost., anche se fondato su motivi attinenti al rito. Partendo dalla constatazione che i suddetti provvedimenti de potestate sono privi del carattere di decisorietà, la tesi si fonda sul convincimento che “la questione di giurisdizione, come del resto quella di competenza, hanno carattere strumentale e pregiudiziale cosi intenso rispetto alla decisione sul merito, da non potersi scindere dal merito medesimo, ciò implicando la negazione della loro autonomia processuale e l’esclusione di un distinto regime d’impugnazione”, PORCARI, Provvedimenti de potestate e inammissibilità del ricorso ex art. 111 Cost.: le Sezioni Unite confermano il proprio tradizionale orientamento, in Famiglia e Diritto, 4, 2002, p. 373.

6 Ancora, si legga, a titolo di esempio, Cass. civ., Sez. Un., 24 febbraio 2005, n. 3816, in Giur. it., 2006, p. 1674 e segg. (che segue Cass. civ., Sez. III, 19 gennaio 2004, n. 709, in Giur. it. 2004, 2049 con nota di SPACCAPELO): “allorquando … il giudice, ancorché con provvedimento avente veste formale di ordinanza, abbia, senza definire il giudizio, deciso una o più delle questioni, di cui all’art. 279 cod. proc. civ., ad esso va riconosciuta natura di sentenza”. Ancora, Cass. civ., Sez. Un., 16 aprile 2007, n. 8949 in Giust. civ. Mass. 2007, 4, secondo la quale “il provvedimento – impropriamente qualificato ordinanza – con cui il giudice affermi o neghi (decidendo la relativa questione senza definire il giudizio) la propria giurisdizione, ha natura di sentenza non definitiva”. Infine, Cass. civ., Sez. Un., 9 giugno 2004, n. 10946 in Giust. civ. Mass. 2004, 6, per cui “il provvedimento … con cui il giudice … ha risolto la questione di giurisdizione, ha natura di sentenza non definitiva”.

7 Cass. civ., Sez. Un., 11 dicembre 2007, n. 25837, in Nuova giur. civ. comm., 2008, I, 721.

8 Cfr. PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 1999, 482; COMOGLIO, FERRI, TARUFFO, Lezioni sul processo civile, Bologna, 1998, 805; LIEBMAN, Manuale di diritto processuale civile, II, Milano, 1984, 298.

9 Così, ad esempio, si è ritenuto che nel procedimento di dichiarazione giudiziale di paternità, la decisione di merito, pur assunta con rito camerale, “è sentenza che, dichiarando la filiazione naturale, incide su diritti soggettivi, creando un vero e proprio status familiare, [e dunque] i termini per appellare non possono essere quelli di 10 giorni previsti dall’art. 739 co. 2 c.p.c., avverso i decreti pronunciati in camera di consiglio, ma necessariamente quelli propri delle sentenze di rito ordinario prescritti dagli art. 325, 326 e 327 c.p.c.”, Cass., Sez. Un., 19 giugno 1996, n. 5629, in Dir. fam., 1997, 529 con nota di AMBROSINI, in Giust. civ. 1996, I, 2203 con nota di GIACALONE e in Famiglia e diritto 1996, 305 con nota di TOMMASEO. Lo stesso vale, sempre a titolo di esempio, in materia di adozione internazionale. Qui la Cassazione ha escluso l’applicazione, alla dichiarazione di adozione ex art. 32 della Legge 4.5.1983, n. 184, del termine speciale previsto da altre norme della legge stessa, in quanto l’interprete non deve riferirsi in via analogica ai termini espressamente previsti, bensì rifarsi a quelli generali dipendenti dal contenuto e dunque dalla natura del provvedimento, Cass. civ., Sez. I, 25 giugno 1987, n. 5591, in Giur. it., 1988, I, 194 e in Giust. civ. Mass. 1987, 6. Si aggiunga poi, da ultimo, Cass., Sez. lav., 21 novembre 2001, n. 14669 in Giust. civ. Mass. 2001, 1977, nella quale si è stabilito che l’ordinanza di concessione di un provvedimento d’urgenza è impugnabile con appello qualora abbia anche carattere definitivo, unendo così le due fasi, quella cautelare e quella di merito.

10 Articolo sostituito dall’art. 16 del D.lgs. 12 , pubblicato in Gazz. Uff. n. 241 del 16 ottobre 2007, con effetto dal 1° gennaio 2008.

11 Pubblicato nella Gazz. Uff. n. 241 del 16 ottobre 2007 e la cui relazione è consultabile al seguente indirizzo http://www.ilcaso.it/rubriche/fallimenti/rel-correttivo.htm.

12 Per avvalorare il loro ragionamento, i giudici del caso in esame hanno poi richiamato una loro decisione, Cass. civ., Sez. I, 4 novembre 2011, n. 22932 in Dir. & Giust. 2011, 15 novembre con nota di DI GERONIMO, in cui è stato escluso che all’omologazione del concordato preventivo “possa essere applicata per analogia la particolare disciplina dettata per il concordato fallimentare (L. fall., art. 131) secondo la quale il decreto della corte d’appello è ricorribile per cassazione entro il termine di trenta giorni dal compimento delle formalità di cui alla L. fall., art. 17, in quanto il legislatore ha dettato una specifica disposizione sul punto per il concordato preventivo e non è pensabile che, nel momento in cui è intervenuto con lo stesso provvedimento (il D.Lgs. n. 169 del 2007) sia sull’art. 131 che sull’art. 183, non si sia avveduto della diversa formulazione e si sia affidato solo al richiamato canone ermeneutico per unificare i procedimenti“.

Avv. Caristena Giuseppe

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