Il TAR del Lazio invia alla consulta la mediazione obbligatoria

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La riforma della Mediazione civile e commerciale è nata sotto una cattiva stella e sta per essere sgretolata nel suo contenuto veramente innovativo e rivoluzionario, l’obbligo di esperire la mediazione in alcune materie, quale condizione di procedibilità dell’azione giudiziaria.

Il TAR del Lazio, chiamato a decidere due ricorsi avverso il Decreto ministeriale 180/2010, con particolare riferimento all’art. 4, ha ritenuto di sollevare, incidentalmente, la questione di incostituzionalità degli artt. 5 e 16 del D.lgs 28/2010.

Come è noto, il TAR ha competenza generale a decidere sui ricorsi per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge contro atti e provvedimenti degli enti pubblici non territoriali e territoriali nonché avverso atti e provvedimenti degli organi centrali e periferici dello Stato. Perché dunque nel caso di specie ha ritenuto di potersi occupare, sia pure incidentalmente, di un atto avente forza di legge quale il D.lgs 28/2010?

In sintesi, il TAR ha fatto il seguente ragionamento: la Mediazione può essere volontaria o obbligatoria; se obbligatoria l’Organismo/Mediatore deve possedere una competenza professionale di tipo giuridico. Detta professionalità non si rinviene nel decreto 180/2010 e ciò contrasta sia con la direttiva 2008/52/CE sia con l’art. 60 della legge delega n. 69/2009.

L’omissione sarebbe irrilevante/meno grave se non fosse stata introdotta la mediazione obbligatoria. Ma il D.lgs 28/2010 poteva introdurla? Per il TAR la mediazione obbligatoria, introdotta dall’art. 5, non risulta trovare una “rispondenza nella legge delega, con conseguente violazione dell’art. 77 Costituzione”.

Le conclusioni di tali sillogismi allo scrivente sembrano errate perché sono errate le premesse. Cerchiamo di ripercorrere ed approfondire questi passaggi.

Nell’ordinanze di rinvio, il TAR premette che con entrambi i gravami si “introduce lo scrutinio di legittimità del decreto 18 ottobre 2010, n. 180 adottato dal Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico, ovvero il regolamento che, in forza della previsione di cui all’art. 16 del d. lgs. 4 marzo 2010, n. 28, “Attuazione dell’art. 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali”, reca la determinazione dei criteri e delle modalità di iscrizione e tenuta del registro degli organismi di mediazione e dell’elenco dei formatori per la mediazione, nonché l’approvazione delle indennità spettanti ai suddetti organismi.”

I ricorrenti ne domandano l’annullamento di alcune partiritenendolo lesivo degli interessi della categoria forense, nonché illegittimo perché in contrasto con il precitato d. lgs. n. 28 del 2010, con la relativa legge delega ed affetto da eccesso di potere sotto vari profili.”

In pratica si ritiene che sia per la gestione degli Organismi, sia per l’esercizio della attività di mediazione è indispensabile una cultura ed una professionalità di tipo giuridico, in possesso ovviamente di giudici in pensione, notai ed avvocati. Gli stessi avvocati dovrebbero poi svolgere obbligatoriamente l’attività di consulenza.

Infatti i ricorrenti lamentano in particolare “che il decreto 180/2010 non reca alcun criterio volto a individuare e a selezionare gli organismi di mediazione in ragione dell’attività squisitamente giuridica che essi andranno ad effettuare, e che è richiesto sia dalla normativa comunitaria [laddove dispone che la mediazione “sia gestita in maniera efficace, imparziale e competente in relazione alle parti” (art. 4 direttiva 2008/52/CE)], sia dalla legge delega [art. 60, lett. b), l. n. 69 del 2009: “prevedere che la mediazione sia svolta da organismi professionali ed indipendenti, stabilmente destinati

all’erogazione del servizio di conciliazione”].”

A sostegno della censura, viene ulteriormente osservato che l’art. 4 del regolamento n. 180 del 2010, “si limita a prevedere, al comma 2, una serie di parametri di tipo amministrativo-economico-finanziario (tra cui la capacità finanziaria e organizzativa, il possesso di polizza assicurativa, la trasparenza amministrativa e contabile), poi a prescrivere, al comma 3, una verificazione di tipo “aggiuntivo” sui requisiti di qualificazione dei mediatori, che viene demandata al responsabile del procedimento (“Il responsabile verifica altresì i requisiti di qualificazione dei mediatori”), senza essere in alcun modo correlata con le competenze giuridiche oggettivamente richieste dall’attività di mediazione.

Le competenze giuridiche ritenute necessarie dai ricorrenti non sarebbero assicurate dai titoli culturali richiesti al mediatore, né dalla previsione della specifica attività di formazione e di aggiornamento biennale, regolati dall’art.. 18 del decreto 180.

Si delineerebbe, infatti, un’area generica, attinente al solo ambito della formazione culturale, “priva di quegli agganci ad una precipua qualificazione e perizia nell’ambito giuridico e processuale” senza della quale non si potrebbe svolgere l’attività di mediatore.

E ciò soprattutto considerando che “l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale, ovvero si pone come alternativa al sistema giudiziale o quale funzione stragiudiziale di soddisfazione di pretese giuridiche.”

L’assunto secondo il quale il procedimento di mediazione non può che essere

gestito da “soggetti svolgenti la professione legale” troverebbe fondamento nelle seguenti considerazioni:

– il procedimento di mediazione non positivamente concluso incide sulle spese del successivo giudizio (art. 13, d. lgs. 28/10);

– il verbale dell’accordo conclusivo del procedimento di mediazione, sottoposto ad omologazione, ha efficacia di titolo esecutivo (art. 12, d. lgs. 28/10);

– l’avvocato ha l’obbligo di informare il proprio assistito, all’atto del conferimento dell’incarico, della possibilità di avvalersi della mediazione (art. 4, comma 3, d. lgs. 28/10), nonostante lo svolgimento della relativa attività sia, poi, demandato ad altre categorie professionali.

I ricorrenti sollevano anche varie questioni di costituzionalità delle quali, secondo il Collegio, non si profilano manifestamente infondate, ai fini della decisione dei gravami avverso il decreto 189/2010, quelle che investono:

– l’art. 5 del d. lgs. n. 28 del 2010, comma 1, primo periodo (che introduce la mediazione obbligatoria in alcune materie), secondo periodo (che prevede che l’esperimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale), terzo periodo (che dispone che l’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza);

– l’art. 16 del d.lgs. n. 28 del 2010, comma 1, laddove dispone che sono abilitati a costituire organismi deputati, su istanza della parte interessata, a gestire il procedimento di mediazione gli enti pubblici e privati, che diano garanzie di serietà ed efficienza.

Secondo il Collegio, punto centrale e qualificante dell’interesse sostanziale dedotto in giudizio è la omissione, da parte dell’art. 4 dell’impugnato regolamento 180/2010, di criteri volti a delineare i requisiti attinenti alla specifica professionalità giuridico-processuale del mediatore.

L’illegittimità di siffatta omissione si può apprezzare solo in relazione alle previsioni contenute nell’art. 4 della direttiva 2008/52/CE e nell’art. 60 della l. n. 69 del 2009, che appunto prevedono, rispettivamente, che la mediazione debba essere svolta con competenza e professionalità.

Ciò in quanto l’art. 16 del d.lgs. n. 28 del 2010, di cui il regolamento costituisce attuazione, avrebbe “obliato la valenza di detti requisiti” di competenza e professionalità, sostituendoli con quelli di serietà ed efficienza, che il regolamento impugnato ha fatto propri, ma che non soddisfano, secondo i ricorrenti, le esigenze considerate dal legislatore comunitario e da quello nazionale delegante.

I ricorrenti ritengono, invece, insopprimibili tali ultime esigenze, soprattutto in considerazione che l’art 5 del D.lgs 28 rende l’esperimento della mediazione condizione di procedibilità della domanda giudiziale per un vasto ventaglio di materie.

Di fronte a tale impianto argomentativo, il Collegio non ritiene di limitarsi ad un giudizio di legittimità dell’atto governativo (decreto 180) in rapporto al decreto legislativo del quale costituisce attuazione, né di risolvere ermeneuticamente il problema semantico dei termini “competenza”, “professionalità”, “serietà” ed “efficienza”, per apprezzare se l’art. 4 del decreto 180 “presenti le caratteristiche della completezza e della congruenza”. E ciò non solo perché si sarebbe in presenza di concetti non sovrapponibili, ma soprattutto perché rimarrebbe irrisolto l’interrogativo di fondo “di quale sia il ruolo che l’ordinamento giuridico nazionale intende effettivamente affidare alla mediazione”.

Proprio tale ruolo sarebbe “imprescindibilmente pregiudiziale all’apprezzamento dei requisiti che, in via attuativa-amministrativa, è legittimo richiedere al mediatore ovvero da cui è legittimamente consentito prescindere.”

Ad avviso del Collegio sarebbe intuitivo (ed è questo uno dei tanti assiomi a base del teorema della incostituzionalità della mediazione obbligatoria), anche sotto il profilo della professionalità che in capo al mediatore l’amministrazione è tenuta a verificare, che:

– una cosa è la costruzione della mediazione obbligatoria, in un vasto ambito di materie;

– altra cosa è la costruzione della mediazione volontaria come strumento di cui lo Stato incoraggi o favorisca l’utilizzo, lasciando impregiudicata la libertà nell’apprezzamento dell’interesse del privato ad adirla ed a sopportarne i relativi effetti e costi.

In altre parole, secondo il Collegio, appare evidente che la disamina in ordine alla valutazione della fondatezza delle doglianze, in relazione alle norme del regolamento n. 180 del 2010, “non possa prescindere dall’accertamento della correttezza, in raffronto ai criteri della legge delega ed ai precetti costituzionali, e tenuto conto delle disposizioni comunitarie, delle scelte operate dal legislatore delegato laddove:

– all’art. 16, ha conformato gli organismi di conciliazione a qualità “che attengono esclusivamente ed essenzialmente all’aspetto della funzionalità generica” senza alcun riferimento a “canoni tipologici tecnici o professionali di carattere qualificatorio ovvero strutturale”;

– all’art. 5, ha configurato per varie materie la mediazione come “insopprimibile fase pre-processuale, cui altre norme del decreto assicurano effetti rinforzati, ed, in quanto tale, suscettibile, in ogni suo possibile sviluppo, o di conformare definitivamente i diritti soggettivi da essa coinvolti, o di incidervi, comunque, anche laddove ne residui la giustiziabilità nelle sedi istituzionali e si intenda adire la tutela giudiziale”. 

Secondo il Collegio nel decreto legislativo n. 28 del 2010 si rinvengono elementi che “fanno emergere due scelte di fondo che mirano, con forza cogente, l’una alla de-istituzionalizzazione e de-tecnicizzazione della giustizia civile e commerciale” e l’altra alla “enfatizzazione di un procedimento para-volontario di componimento delle controversie” che per come strutturate non risultano omogenee con l’ulteriore scelta di stabilire che l’atto che conclude la mediazione “possa acquistare efficacia di titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, per l’esecuzione in forma specifica e per l’iscrizione di ipoteca giudiziale (art. 12, d. lgs. 28/10), “rientrando, così, a pieno titolo tra gli atti aventi gli stessi effetti giuridici tipici delle statuizioni giurisdizionali”.

A fronte di queste conseguenze, secondo il Collegio, nella mediazione, ed ai sensi decreto legislativo stesso, “il profilo della competenza tecnica del mediatore sbiadisce, e, vieppiù, anche il diritto positivo viene in evidenza solo sullo sfondo, come cornice esterna” ovvero come divieto di omologare accordi contrari all’ordine pubblico o a norme imperative, art. 12 del d. lgs. n. 28 del 2010.

A questo punto, dato per dimostrato intuitivamente che la mediazione obbligatoria debba richiedere una professionalità giuridica del mediatore, professionalità che non sarebbe necessaria nella mediazione volontaria; argomentato che nel decreto legislativo 28 il profilo della competenza svanisce, il Collegio deve trovare un aggancio con l’art. 5 che istituisce la mediazione obbligatoria sia pure in alcune materie.

Forse per carenze culturali, allo scrivente sembra un volo pindarico. Il collegio, infatti afferma, con un linguaggio che si fa più criptico ed oscuro, che “per assicurare la certezza della fattibilità del descritto meccanismo, al fine di escludere che lo stesso ridondi in danno del diritto di difesa in giudizio garantito dall’art. 24 Cost., risulta insopprimibile la necessità che l’interpretazione dell’art. 16 del d. lgs. 28/2010 [propedeutica alla disamina della impugnata disposizione regolamentare dell’art. 4)] sia correlata con quanto previsto dall’art. 5 dello stesso decreto (entrambi nelle parti precisate al punto 9), il cui combinato disposto costituisce il vero perno della regolazione delegata”.

Stabilito questo collegamento, il passo successivo è di affermare che la mediazione obbligatoria, introdotta dall’art. 5, non risulta trovare una “rispondenza nella legge delega, con conseguente violazione dell’art. 77 Costituzione”.

Ripercorrendo le argomentazioni dei ricorrenti, condivise dal Collegio, vorrei evidenziare alcuni assiomi e passaggi che appaiono non convincenti:

  • il decreto 180/2010 non reca alcun criterio volto a individuare e a selezionare gli organismi di mediazione in ragione dell’attività squisitamente giuridica”.

L’Organismo svolge un servizio, gestisce amministrativamente le richieste di mediazione, organizza ed è responsabile dell’attività dei Mediatori, della loro formazione e dei loro risultati. La sua attività è di tipo organizzativo non di tipo giuridico, ovvero organizza il servizio di mediazione la quale è gestita dai mediatori. L’Organismo sta al Mediatore, come il tribunale e il suo apparato sta ai giudici. 

  • L’art. 4 del decreto 180 prevede “una verificazione di tipo “aggiuntivo” sui requisiti di qualificazione dei mediatori, che viene demandata al responsabile del procedimento (“Il responsabile verifica altresì i requisiti di qualificazione dei mediatori”), senza essere in alcun modo correlata con le competenze giuridiche oggettivamente richieste dall’attività di mediazione.

ll trucco sta proprio in questa apodittica affermazione che vuol far passare come oggettiva una personalissima e discutibile visione dell’attività di mediazione.

Il mediatore non è un giudice o un arbitro, non decide ma svolge una funzione maieutica, aiuta le parti ad autodeterminarsi. Anche quando redige la proposta, non solo può chiedere l’aiuto di un esperto, ma può proporre soluzioni che esulano da un tecnicismo giuridico che deve guidare, invece, l’attività del giudice.

La competenza giuridica non è richiesta né dalla direttiva comunitaria, nè dall’art. 60, che conferisce un’ampia delega al Governo per introdurre anche in Italia la cultura della mediazione come strumento “di composizione amichevole delle vertenze”.

Proprio perché la direttiva e la legge delega pensano al mediatore come ad una figura professionale diversa dal giudice e dall’avvocato, insistono sull’attività di formazione. Se avessero colto nella figura dell’avvocato le qualità per svolgere l’attività di mediazione, specialmente in Italia, l’attività di formazione sarebbe stata del tutto non necessaria e la mediazione avrebbe potuto trovare attuazione immediatamente, considerato il gran numero di avvocati e giuristi a disposizione.

V’è di più. L’art. 3, lettera b), della Direttiva comunitaria afferma che per «mediatore» si intende qualunque terzo cui è chiesto di condurre la mediazione in modo efficace, imparziale e competente, indipendentemente dalla denominazione o dalla professione”.
Quale compito è chiamato a svolgere il mediatore? La Direttiva nello stesso articola, alla lettera a) recita: “per «mediazione» si intende un procedimento strutturato,… dove due o più parti di una controversia tentano esse stesse, su base volontaria, di raggiungere un accordo sulla risoluzione della medesima con l’assistenza di un mediatore.” Dunque il mediatore non giudica ma assiste, aiuta a riprendere la comunicazione, a trovare una via d’uscita, una soluzione creativa al problema ricucendo, se possibile, la relazione.

Per tali ruolo la competenza giuridica (diversa dalla professionalità) è solo una delle tante qualità, e nemmeno la più importante, richiesta al mediatore.

Per gli aspetti tecnici il mediatore può essere affiancato o da altro mediatore o da un consulente. Di contro le dinamiche che deve gestire direttamente sono di ordine psicologico e relazione; deve saper ascoltare, capire i bisogni e gli interessi, saper riannodare la relazione interrotta; deve essere un comunicatore ed un creativo. Sì creativo perché spesso la soluzione alla controversia si trova fuori, oltre l’oggetto dedotto nella domanda di mediazione.

Per tali motivi la mediazione non sostituisce il giudizio, ma è uno strumento aggiuntivo e complementare, sia pure obbligatorio per alcune materie, offerto ai cittadini sia per evitare l’ingolfamento del contenzioso e spese insostenibili a carico della Comunità, sia per favorire la pace sociale e la dinamica dei rapporti commerciali che hanno una valenza pubblica. .
L’accordo può fondarsi anche su elementi meta giuridici, tenere conto di interessi e di elementi non regolamentati dal diritto che guarda al passato e non al futuro. La mediazione non è un duplicato del giudizio, e gli Organismi non sono dei Tribunali.

  • L’art. 16 del d. lgs. n. 28 del 2010, di cui il regolamento costituisce attuazione avrebbe “obliato la valenza di detti requisiti” di competenza e professionalità, sostituendoli con quelli di serietà ed efficienza.
    L’art. 16, ha conformato gli organismi di conciliazione a qualità “che attengono esclusivamente ed essenzialmente all’aspetto della funzionalità generica” senza alcun riferimento a “canoni tipologici tecnici o professionali di carattere qualificatorio ovvero strutturale”

Sia i ricorrenti che il Collegio riferiscono i termini “competenza, professionalità, serietà ed efficienza” indifferentemente ora agli Organismi ora alla figura del Mediatore. Questo è un errore vistoso di metodo e di merito.

Non sfuggire, infatti, che la legge delega parla di “organismi professionali e indipendenti” e non di mediatori, là dove l’erogazione del “servizio di conciliazione” non può che essere erogato con i requisiti della “serietà e dell’efficienza” secondo i canoni della moderna scienza dell’organizzazione. Ciò in quanto solo un servizio efficiente può essere efficace ed economicamente sostenibile.

Anche dal punto di vista semantico “professionale” significa attinente alla professione, svolto con serietà. La professionalità è data da un mix di competenza, capacità e atteggiamenti; qualità necessarie per svolgere il servizio con efficienza che significa fare le cose nel migliore modo possibile.

La professionalità, anche dalla direttiva europea, unitamente alla efficacia (questa parolina magica non appare nell’ordinanza) deve qualificare l’attività dei mediatori.

Per garantire competenza, conoscenze e comportamento professionale il legislatore europeo e nazionale prevede l’unico strumento possibile: la formazione permanente. Come verificare se la formazione si traduce in comportamenti efficaci? L’unico strumento veramente valido ed oggettivo è il controllo dei risultati. Ciò avviene con l’omologa da parte del Presidente del Tribunale competente (la mancata omologazione deve essere segnalata al Ministero) e con la verifica e l’analisi dei risultati a cui è chiamato il responsabile ministeriale.

Tale controllo può sfociare in pesanti sanzioni verso l’Organismo che è responsabile, a sua volta della scelta del mediatore per la singola controversia e della attività complessiva.

Il titolo, di studio o l’iscrizione in un albo, non è uno strumento che può offrire sufficienti e generalizzate garanzie di capacità nella gestione della mediazione.

  • Secondo il Collegio dal decreto legislativo n. 28 del 2010 emergono “due scelte di fondo che mirano, con forza cogente, l’una alla de-istituzionalizzazione e de-tecnicizzazione della giustizia civile e commerciale” e l’altra alla “enfatizzazione di un procedimento para-volontario di componimento delle controversie” che non risultano omogenee con l’ulteriore scelta di stabilire che l’atto che conclude la mediazione “possa acquistare efficacia di titolo esecutivo”(art. 12, d. lgs. 28/10), “rientrando, così, a pieno titolo tra gli atti aventi gli stessi effetti giuridici tipici delle statuizioni giurisdizionali”.

Questo rilievo allo scrivente appare privo di pregio per una serie di considerazioni:

– l’assenza/essenzialità di formalismi e la semplificazione delle procedure costituiscono l’essenza, il distintivo del processo di mediazione. Ciò non equivale ad assenza di tecnicismo (direi tecnica, perché gli ismi sono sempre pericolosi), non di tecnica processuale o strettamente giuridica, bensì di tecnica della comunicazione, di tecnica della creatività, di tecnica della gestione del conflitto, … Ancor di più semplificare non significa porre fuori delle istituzioni la mediazione.

– appare singolare la presunta contraddizione tra la snellezza del processo di mediazione e l’efficacia di titolo esecutivo che il verbale di accordo può acquistare con l’omologazione da parte del Presidente del Tribunale competente per territorio. Ciò farebbe rientrare l’atto conclusivo della mediazione tra gli atti tipici delle statuizioni giurisdizionali.

Questa conclusione non appare corretta. Invero nel nostro ordinamento il titolo esecutivo può formarsi anche fuori dal processo. In questo caso si parla di titolo stragiudiziale. Sono titoli esecutivi stragiudiziali (art 474 cpc), la cambiale e gli altri titoli di credito, (ad esempio l’assegno bancario o circolare), le scritture private autenticate limitatamente alla sola obbligazione di denaro in essa contenuta, l’atto ricevuto da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato dalla legge a riceverli (art. 474 cpc).

Si evidenzia, inoltre, che:

  • dal 1° gennaio 2011, come previsto dall’art. 30 del Dl n° 78/2010 (conv. L. n° 122/2010) la riscossione delle somme dovute all’INPS viene effettuata attraverso la notifica all’interessato di un “avviso di addebito” che ha valore di titolo esecutivo nei confronti del debitore;

  • in materia di lavoro, l’esecutività del verbale di conciliazione è conferita ex lege espressamente ex art. 66 comma 5 D.Lgs. n. 165/2001;

  • anche il verbale di separazione consensuale dei coniugi (che non necessita di assistenza legale), ritualmente omologato, costituisce titolo esecutivo in ordine alle obbligazioni nel medesimo fissate (Cass. 9 marzo 1978 n. 1188)

Peraltro secondo il TAR per la Calabria (n. 141/08 Reg. Ric.) l’art. 474, secondo comma, n. 1., c.p.c. equipara alle sentenze «i provvedimenti e gli altri atti ai quali la legge attribuisce espressamente efficacia esecutiva». Tuttavia tale equiparazione, avendo valenza soltanto formale limitata all’ambito del giudizio di esecuzione in cui la stessa è posta, consente all’interessato unicamente di potere ricorrere al giudice ordinario dell’esecuzione nei modi e nei limiti contemplati nel libro terzo del codice di procedura civile.

Per quanto evidenziato l’accordo non viene elevato al rango di atto giurisdizionale, resta un atto di libera disposizione tra le parti, che acquisire valore esecutivi necessita della omologazione del Presidente del Tribunale.

  • L’introduzione della mediazione obbligatoria, introdotta dall’art. 5, non risulta trovare una “rispondenza nella legge delega, con conseguente violazione dell’art. 77 Cost

Come argomenta il Collegio, senza trarne le giuste e logiche conclusioni, la delega per normare l’istituto della mediazione, di cui all’art. 60, “non è inserito nella legge comunitaria annuale bensì in un corpus normativo per “lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile”, sia la dizione utilizzata dal comma 2 dello stesso articolo, che qualifica la delega conferita al Governo ai sensi del comma 1 che lo precede (“in materia di mediazione e di conciliazione in ambito civile e commerciale”) quale “riforma”.

Ed allora si pone la domanda: la mediazione facoltativa, peraltro già presente nel nostro ordinamento, poteva essere qualificata come riforma? Quali effetti avrebbe avuto sul processo civile che si voleva riformare?

Ma v’è di più. Se la legge delega il Governo a disciplinare solo la mediazione volontaria e delegata dal giudice, perché raccomanda di non impedire “alle parti di esercitare il diritto di accesso al sistema giudiziario” (art. 5, par. 2, direttiva n. 2008/52/CE)?

Sarebbe una raccomandazione priva di senso. Di contro evidenzia che il legislatore vuole introdurre nel nostro ordinamento qualcosa di innovativo, la mediazione obbligatoria in alcune materie. Ciò per diffondere la cultura della mediazione anche in Italia, per i fini più volte richiamati.

A questo punto non resta che attendere, speranzosi, il giudizio della Corte Costituzionale .

Ci conforta il costatare che il TAR non se l’è sentita di sospendere l’applicazione del decreto 180 e che pertanto, nelle more della decisione della Corte, resta in vigore e operante.

A noi il compito di impegnarsi per dimostrare che la mediazione è uno strumento valido per i cittadini e per la giustizia in senso lato.

Dott. Vita Ettore

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