Il sottile confine tra possesso a non domino ex art. 1153 c.c. e la ricettazione ex art 648 del c.p.

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Nell’analisi attenta del corpus del codice civile, ci si imbatte in un articolo in particolare: il 1153.
Gran parte della dottrina analizza in modo specifico il medesimo. Lo stesso Trabucchi dedicandogli un capitolo passa a definire i caratteri che lo qualificano e lo rendono del tutto particolare.
Anche se limitato all’ambito di applicazione dei beni mobili, il Legislatore protegge il principio supremo della circolazione dei beni.
Il “possesso a non domino” permette l’acquisizione a titolo originario della proprietà di un bene mobile con la sola sussistenza di 3 fattori, il possesso, un titolo meramente (apparentemente) valido, e la buona fede.
Considerando che il possesso è, in questo caso, non solo una apprensione fisica dell’oggetto medesimo bensì anche uno status mentale che ingenera la convinzione di esserne i proprietari (condizione agevolmente provabile), che un titolo meramente valido possa essere prodotto abbastanza facilmente da chiunque e che la buona fede sia sempre presunta, ci si pone il dubbio su quale possa essere il reale discrimen con l’istituto in ambito penale della ricettazione.
Ed è proprio nella buona fede che il Legislatore individua la differenza tra le due norme ma l’onere della prova subisce un’inversione tanto che il danneggiato è tenuto a provare la malafede del suddetto possessore.
Certo è che l’esigua differenza con fattispecie individuate nell’ambito penale ha portato spesso la giurisprudenza ad elaborare artificiose sentenze che permettessero la sopravvivenza del 1153.
E’ il caso della sentenza della Cassazione 01/1997, che era stata chiamata a pronunciarsi sul ricorso proposto dal legale rappresentante della Metalsa s.r.l. avverso l’ordinanza della Corte di appello di Milano, con la quale era stata respinta la richiesta, avanzata nelle forme dell’incidente di esecuzione, di restituzione di un quantitativo di alluminio sottoposto a confisca all’esito di un procedimento penale per contrabbando svoltosi nei confronti di un altro soggetto ed al quale la Metalsa s.r.l. era rimasta estranea.
La stessa corte aveva dichiarato non condivisibili le argomentazioni svolte dall’Avvocatura dello Stato, secondo cui, poiché il fine della repressione penale del contrabbando consisterebbe nell’impedire la circolazione nel territorio nazionale di beni per i quali siano stati evasi i tributi doganali, il sacrificio imposto, mediante la misura della confisca, anche al terzo di buona fede sarebbe giustificato dall’esigenza di tutelare il preminente interesse pubblico sotteso alla previsione dell’illecito.
Un simile sacrificio, infatti, non può essere inflitto al terzo di buona fede: altro sono le attività illecite dell’autore del contrabbando, dei suoi eventuali concorrenti, di coloro che siano incorsi nei reati di ricettazione o di incauto acquisto, altra la posizione del terzo che abbia compiuto il suo acquisto in buona fede e senza che esistessero elementi idonei a far sorgere sospetti circa la provenienza del bene.
Tale posizione è da ritenere protetta dal principio della tutela dell’affidamento incolpevole, che permea di sé ogni ambito dell’ordinamento giuridico e dal quale scaturisce anche la regola generale di circolazione dei beni mobili nel nostro sistema di mercato (cfr. art. 1153 del codice civile).
Si può anzi dire che, secondo l’ordinamento civilistico, lo stato di buona fede nell’acquisto di beni mobili, salve le deroghe positivamente previste, possiede una così accentuata rilevanza da interrompere qualunque legame del bene con i precedenti possessori e da determinare un acquisto a titolo originario, sicché la pretesa sanzionatoria dello Stato di aggredire con il provvedimento di confisca il bene del terzo, negandogli persino la possibilità di dimostrare la propria buona fede nell’acquisto, è priva di qualsiasi collegamento con una sua condotta suscettibile di riprovazione e si pone irrimediabilmente in contrasto con il principio della personalità della responsabilità penale.
Nella sentenza 408/00 si ricorda, inoltre, che, la sentenza n. 702 del 1988 ha precisato che, mentre nell’ordinamento del codice civile del 1865 le norme denunziate (già stabilite dalla legge n. 169 del 1898 e dal r.d. n. 185 del 1899) avevano carattere eccezionale, in quello del nuovo codice che ha soppresso la distinzione tra perdita volontaria ed involontaria del possesso da parte del rivendicante ed ha ammesso la tutela immediata della buona fede del terzo anche nel caso di provenienza delle cose da furto (salvo l’art. 1154) – tali norme sono divenute una applicazione specifica della regola generale (fissata dall’art. 1153, terzo comma, c.c.) secondo cui il "possesso in buona fede vale titolo".
Altrettanto fondamentale si dimostra la sentenza a ruolo n° 733 decisa dal Tribunale di Nola il 2 aprile 2007. Nella stessa si ribadisce che nell’acquisto di beni mobili la buona fede si presume.
 E’ questo il caso di un soggetto compratore che avendo acquistato da un venditore apparente non abbia ricevuto i documenti necessari per l’iscrizione al PRA del proprio caravan.
Nonostante possano essere considerati documenti attestanti la vendita, il tribunale di Nola ha ritenuto che già il contratto di compravendita fosse sufficiente ad avverare la condizione posta dal predetto articolo della necessità di un titolo astrattamente valido.
In sostanza si è deciso che la mancata consegna dei documenti necessari all’uso del bene (in questo caso la carta di ciroclazione o il cosiddetto foglio complementare) non esclude la buona fede dell’acquirente.
Si delinea così l’orientamento giurisprudenziale che conferma appieno l’esiguo confine tra i due istituti presi in esame, puntualmente rappresentato e rimarcato più che dalla buona fede, dall’opportunità o dalla capacità di provarne il contrario.
Poco considerato è il valore affettivo di cui un bene mobile possa essere dotato.
Qualora lo stesso venga, a norma del 1153, acquisito in buona fede nonostante provenga da furto, il possessore a non domino sarebbe legittimato a non restituirlo.
Scarsamente se non assolutamente tutelata, in questo caso, sarebbe la posizione dell’eventuale rivendicante che si vedrebbe rigettare la domanda per riottenere il bene.
In generale si conviene affermare che l’interesse del singolo viene, dal Legislatore, sacrificato per il più generale e già citato interesse generale della libera circolazione dei beni.
Lo Smith avrebbe certamente esultato, vedendo nello stesso articolo l’enunciazione più pratica del suo: “laissez faire, laissez passaire” ma la verità risiede nell’estremo desiderio del Legislatore di assicurare sicurezza negli scambi e di sussurrare al cittadino che “chi compra, compra bene”.
 
 
Stefano Di Matteo

Avv. Di Matteo Stefano

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