Il sequestro di persona a scopo di estorsione nei confronti di Giuseppe Soffiantini e l’omicidio dell’ispettore Samuele Donatoni: tra incertezze e impunità

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A proposito della lezione di Armando Macrillò, nell’ambito del Corso di Alta Formazione di Diritto Penale Avanzato nel Dipartimento di Scienze Giuridiche della European School of Economics diretto da Giuseppe Cassano

Il processo penale si fonda sulla ricostruzione del fatto storico ed implica una serie di giudizi di valore, compito talvolta arduo per gli “attori” del processo che se ne occupano.

La funzione cognitiva del processo penale, infatti, deve spesso fare i conti con il carattere probabilistico dell’accertamento probatorio e con la logica inferenziale di tipo induttivo che fonda la decisione giudiziale.

Emblematica, in tal senso, è la lunga vicenda processuale legata al sequestro dell’imprenditore bresciano, Giuseppe Soffiantini, uno dei più brutali sequestri di persona a scopo di estorsione degli anni Novanta, durato ben 237 giorni di prigionia e rimasto impresso nell’opinione pubblica per il susseguirsi di colpi di scena.

L’iter giudiziale, approfondito – nell’ambito del corso di alta formazione di diritto penale avanzato presso la European School of Economics – dall’Avv. Prof. Armando Macrillò che si è occupato in prima persona del caso, si è concentrato non solo sul delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione nei confronti di Giuseppe Soffiantini e sui reati cd. “satellite”, ma anche e soprattutto sull’omicidio dell’Ispettore dei NOCS, Samuele Donatoni, morto durante un conflitto a fuoco tra la Polizia di Stato e i sequestratori.

Prima, tuttavia, di scandagliare la vicenda processuale e mettere in luce alcuni aspetti critici, è necessario ripercorrere brevemente le tappe del sequestro.

Il fatto

La mattina del 18.06.1997 l’imprenditore, Giuseppe Soffiantini, venne rapito presso la sua villa nel Comune di Manerbio e privato della libertà personale. La moglie, Adele Mosconi, venne trovata dalla collaboratrice domestica “incaprettata” nella cantina dell’abitazione e fu la stessa a denunciare subito l’accaduto, riferendo di tre individui che, introdottisi nell’abitazione, armati di pistola e con viso nascosto da passamontagna, la legavano e chiudevano nella cantina, portando via il coniuge.

Seguirono, poi, una serie di missive da parte dei sequestratori al fine di ottenere il pagamento del riscatto, sempre indirizzate ad un conoscente del Soffiantini e provenienti da un ufficio postale diverso. In particolare, la prima, rivolta al Sacerdote del Comune di Manerbio, dove Giuseppe Soffiantini risiedeva, conteneva la richiesta di riscatto iniziale di lire 20 miliardi, poi ridotta – al termine delle trattative – in lire 10 miliardi.

Dalla quarta missiva in poi vennero anche fornite indicazioni sul percorso da seguire per raggiungere il posto, rimasto imprecisato fino al momento dell’incontro, dove i sequestratori avrebbero incontrato gli emissari della famiglia per il pagamento del riscatto.

Durante le trattative, una fonte confidenziale rivelò alla Polizia di Stato che dietro il sequestro di Giuseppe Soffiantini vi era la banda di Mario Moro. Cosicché venne disposta la perquisizione dell’abitazione di Moro e ivi venne rinvenuto un apparato cellulare con una scheda prepagata intestata a Gianpaolo Guerra. Questo elemento si rivelò importante per le investigazioni, in quando successivamente venne intercettata una telefonata proveniente dalla cabina telefonica del servizio di Monte Velino Sud – da cui partivano le telefonate dei sequestratori – indirizzata ad un’utenza intestata sempre a Giampaolo Guerra, e così si comprese che nella zona abruzzese erano presenti alcuni dei sequestratori che avrebbero incontrato gli emissari della famiglia per ottenere il riscatto.

Il percorso individuato per il pagamento di quanto richiesto si sviluppava lungo la Strada Statale Tiburtina Veleria parallela a quella dell’Autostrada A24 ed il segnale luminoso venne individuato in prossimità dell’uscita Carsoli, dove si trova il cimitero di Riofreddo. Lì si svolse un conflitto a fuoco tra i sequestratori e i NOCS durante il quale venne ucciso l’Ispettore Samuele Donatoni.

Successivamente, al fine di esercitare pressione sui familiari, i sequestratori asportarono un frammento di lobo auricolare al sequestrato, cagionandogli lesioni gravissime, metodica questa caratteristica dei sequestratori sia di origine calabrese che di origine sarda come nel caso di specie. Il sequestrato venne, poi, liberato dietro il pagamento controllato del riscatto – disposto ed eseguito ai sensi dell’art. 1, co. 7 l. n. 82/91 – di lire 5 miliardi, convertiti in dollari USA.

L’iter processuale che ne seguì, incardinato dinanzi alla Corte d’Assise di Roma (N. 14766/97 R.G.N.R., N. 27-28/98 R.G. Assise), si concentrò non solo sull’accertamento dei responsabili del sequestro a scopo di estorsione ai danni di Giuseppe Soffiantini e degli altri reati cd. “satellite”, ma soprattutto sulla responsabilità per l’omicidio dell’Ispettore Samuele Donatoni.

Rilevante, in ordine all’individuazione dei responsabili per il reato di cui all’art. 630 c.p., fu il ruolo di Mastio Agostino, il quale fu fermato nella zona prossima al luogo ove si svolse il conflitto a fuoco con la Polizia di Stato e gli venne trovato addosso un bigliettino con un numero di telefono intestato a Giampaolo Guerra ma in uso a Mario Moro. Venne così convinto a collaborare con la giustizia e contribuì alla cattura dei correi, tra cui proprio quella di Moro, che, ferito durante un conflitto a fuoco con la Polizia di Stato, venne portato presso l’Ospedale di Avezzano, dove morì in circostanze mai chiarite.

La scelta, pertanto, di collaborare con la giustizia di Mastio e, poi, successivamente quella di Sergio Giorgio – che, tuttavia, si rivelò essere interessata – contribuirono alla ricostruzione in sede processuale dei ruoli svolti dagli imputati in relazione al sequestro estorsivo ai danni dell’imprenditore bresciano.

Al contrario, molto complesso risultò l’accertamento probatorio in ordine alla responsabilità per l’omicidio dell’Ispettore Donatoni, il cui ferimento mortale venne inizialmente attribuito al fucile mitragliatore Kalashnikov AK 47 in uso a Mario Moro.

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La sentenza

Prova centrale, nell’ambito del procedimento dinanzi alla I Sezione della Corte d’Assise di Roma, in relazione al reato di omicidio fu la consulenza balistica del Dott. Torre, nominato dal Pubblico Ministero, secondo il quale il colpo che causò la morte sarebbe stato determinato da un proiettile montato su Kalashnikov. Anche la consulenza del Dott. Fenici, nominato dal fratello e dalla madre dell’Ispettore Donatoni, costituitisi parte civile nel processo tramite l’Avv. Armando Macrillò, confermò tale ricostruzione, aggiungendo ulteriori elementi, quali la posizione dello sparatore e quella in cui si sarebbe dovuto trovare l’Ispettore Donatoni, tanto è vero che, durante l’esame testimoniale, venne chiesto al Dott. Fenici di alzarsi in piedi per far vedere plasticamente la posizione in cui si sarebbe dovuto trovare l’Ispettore Donatoni, aspetto intorno al quale rimase più di qualche dubbio.

Altro elemento di incertezza venne rappresentato dal rinvenimento dell’ogiva a distanza di giorni e ad opera di un giornalista, sebbene nell’immediato venne effettuata una perquisizione accurata e non venne rinvenuto alcun bussolotto.

La presenza, tuttavia, sul giubbotto tattico, indossato l’Ispettore Donatoni, di particelle chimiche di antimonio, essendo compatibili con la cartuccia dell’AK 47, contribuì a comprovare l’impianto accusatorio.

Nonostante, comunque, alcune incertezze, la I Sezione della Corte d’Assise di Roma, condividendo la consulenza del Dott. Torre, ritenne che a uccidere l’Ispettore Donatoni fosse stato proprio il Kalashnikov di Mario Moro.

Così con la sentenza del 12.04.2000, la I Sezione della Corte d’Assise di Roma condannò: Cubeddu Attilio (latitante durante tutto il processo), Broccoli Osvaldo, Sergio Giorgio per i delitti di sequestro di persona a scopo di estorsione, omicidio pluriaggravato in pregiudizio di Samuele Donatoni, lesioni gravissime aggravate consistite nel taglio del lobo auricolare in pregiudizio di Giuseppe Soffiantini e altri reati satellite, quali detenzione di armi e danneggiamento, alla pena il primo dell’ergastolo con isolamento diurno di un anno e gli altri di anni 25 di reclusione.

Vennero, inoltre, condannati Pisano Tommaso per il delitto di tentata estorsione aggravata ad anni tre di reclusione, Zizi Francesco per il delitto di procurata inosservanza di pena alla pena di anni 3 e lire 1.500.000 di multa, Ligas Luciano per il delitto di riciclaggio delle somme di denaro, provento del delitto di cui all’art. 630 c.p., alla pena di anni 3 e lire 1.500.000 di multa.

La maggior parte degli imputati, tuttavia, non furono giudicati dalla I Sezione della Corte d’Assise di Roma, ma dalla II Sezione in quanto scelsero il rito abbreviato.

La sentenza in questione venne confermata in toto in data 20.04.2001 dalla Corte d’Assise d’Appello di Roma (Sez. I – Pres. Cappiello), la quale si limitò a rettificare l’errore materiale in cui era incorso il Giudice di prime cure nel quantificare la pena per l’imputato Pisano che venne fissata in anni 2. Successivamente la Corte di Cassazione rigettò i ricorsi e la sentenza divenne irrevocabile.

Sulla stessa vicenda si aprì, poi, un altro procedimento (N. 22/00 R.G. Assise) davanti alla IV Sezione, istituita ad hoc, della Corte d’Assise di Roma nei soli confronti di Farina Giovanni, il quale, mentre veniva celebrato il processo nei confronti degli altri imputati, si trovava in Australia con il nome di “Valiante”, dove venne individuato grazie al tracciamento di dollari 20.000, arrestato e attinto da richiesta di estradizione.

La I Sezione della Corte d’Assise di Roma separò la posizione a carico del Farina in conseguenza del suo stato di detenzione in Australia. A seguito dell’accoglimento della richiesta di astensione, presentata dai componenti togati della I Sezione della Corte d’Assise, che conoscevano la materia del contendere, il procedimento venne trasmesso alla III Sezione della medesima Corte. Farina giunse in Italia in stato di detenzione, solo a seguito dell’accoglimento della richiesta di estradizione, concessa inizialmente per il reato di sequestro, cosicché la III Sezione sollecitò l’applicazione dell’art. 17 del Trattato di Estradizione (sottoscritto tra Italia e Australia in data 26.08.1985 ed entrato in vigore l’1.08.1990), la quale, nel momento in cui venne concessa l’estradizione anche per altri reati di cui Farina era imputato, divenne incompatibile e venne costituita una sezione ad hoc.

La IV Sezione, dinanzi alla quale si celebrò il processo a carico di Farina, nominò un collegio peritale – costituito da un medico legale, un perito balistico e un esperto in materia di tramiti intracorporei – con lo scopo di acquisire una nuova prova in ordine al ferimento mortale dell’Ispettore Donatoni. I periti accertarono che il colpo fu sparato ad una distanza di 40-60 cm da una pistola Beretta cal. 9 in dotazione ai NOCS e questo venne comprovato dal tipo di bruciature rinvenute sul giubbotto tattico dell’Ispettore Donatoni. La valenza probatoria di tale accertamento non venne minimamente inficiata dai consulenti nominati dal Pubblico Ministero nell’ambito del medesimo processo e trovò avallo in una serie di altre emergenze istruttorie, quali la registrazione delle comunicazioni via radio tra gli agenti operatori e le macchie di sangue rivenute nella zona dove l’Ispettore Donatoni fu ferito mortalmente.

Vennero anche esaminati nuovamente come teste davanti alla IV Sezione i NOCS, che parteciparono all’operazione, i quali caddero in contradizione in maniera evidente.

La sentenza della IV Sezione della Corte d’Assise di Roma ribaltò così completamente la decisione emessa nell’ambito del precedente procedimento, attribuendo il ferimento mortale alla pistola Beretta in dotazione alle forze dell’ordine.

Il dato più inquietante – si legge nella sentenza della IV Sezione della Corte d’Assise di Roma – emerso dai nuovi accertamenti, con riferimento alla precisa volontà di nascondere la verità fin dal momento in cui Donatoni venne colpito, è costituito dal comportamento dell’autore dello sparo, che, evidentemente, si allontanò immediatamente dal posto omettendo di soccorrere il compagno da lui colpito e costringendo, forse con la complicità di chi altro gli stesse vicino, gli altri NOCS ad una ricerca del corpo di Donatoni che durò (…) circa 15 lunghissimi minuti”.

Di conseguenza, la IV Sezione della Corte d’Assise di Roma, in data 14.12.2005, condannò Farina Giovanni per il delitto di sequestro della moglie di Soffiantini e per le lesioni inflitte al marito (taglio del lobo dell’orecchio) alla pena di anni 12 di reclusione, mentre venne assolto per il delitto di concorso in omicidio dell’Ispettore Donatoni per non aver commesso il fatto; dichiarò, infine, non doversi procedere per i delitti in materia di armi e per quello di danneggiamento di un’autovettura usata per il sequestro per difetto di estradizione.

La sentenza in questione venne confermata dalla Corte di Assise di Appello di Roma (II Sezione) in data 16.11.2007 e il ricorso per Cassazione venne rigettato. La sentenza in oggetto divenne, perciò, irrevocabile, con conseguente contrasto col precedente giudicato.

Successivamente si aprirono due procedimenti per revisione davanti alla Corte d’Appello di Perugia, in seguito alle domande presentate da Osvaldo Broccoli e Attilio Cubeddu. Con le sentenze N. 1547/12 e N. 1713/17, la Corte di Appello di Perugia ridusse la pena inflitta a Osvaldo Broccoli in anni 22 di reclusione per il solo sequestro di persona a scopo di estorsione e in anni 30 per Attilio Cubeddu in ordine al medesimo delitto.

La conseguenza più rilevante cui diede luogo la ricostruzione operata dalla IV Sezione della Corte d’Assise di Roma in ordine al ferimento mortale dell’Ispettore Donatoni fu l’iscrizione nel 2007 del procedimento N. 42137/07 R.G.N.R nei confronti di Miscali Stefano per il reato di omicidio colposo, cui si assommavano le contestazioni nei confronti di Clemente Claudio Filipponi Vittorio, Simone Nello, D’Alfonso Alfonso per il reato di cui all’art. 372 c.p. e nei confronti di Montagna Paola per il reato di violazione della pubblica custodia di cose di cui all’art. 351 c.p.

Il Pubblico Ministero, tuttavia, non coltivò le indagini e i delitti di omicidio colposo e taluni episodi di falsa testimonianza si prescrissero, mentre venne presentata per gli altri reati richiesta di archiviazione. A seguito di tale richiesta, il Giudice per le Indagini Preliminari dispose lo svolgimento di ulteriori indagini alla Procura (Dott. Ceniccola e Amelio), al termine delle quali chiese ed ottenne il rinvio a giudizio di Stefano Miscali per i delitti –  non ancora prescritti – di calunnia pluriaggravata ex art. 368 co. 1, 2 e 3 seconda ipotesi e 61 n. 2 c.p. e di falsa testimonianza aggravata ex artt. 372 e 375 terza ipotesi, 61 n. 2 c.p.   Questo processo è tuttora pendente innanzi la V Sezione del Tribunale di Roma (Pres. Finiti) e la sentenza è prevista per il 30.04.20.

Emerge, quindi, chiaramente come le difficoltà probatorie di ricostruzione del fatto, acuite dall’attività di depistaggio posta in essere dagli agenti di Polizia, abbiano dato luogo ad un lungo iter giudiziario che ha reso impossibile l’accertamento in ordine alla responsabilità per il reato di omicidio colposo, lasciando impuniti i colpevoli.

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Link alla intervista

https://www.ese.ac.uk/it/ese-roma-alta-formazione-giuridica-in-diritto-penale-avanzato-3

 

Federica Maritati

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