Il rispetto del principio del contraddittorio nel procedimento disciplinare a carico degli appartenenti alle Forze di Polizia e le cause di “legittimo impedimento”

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Il caso

Ad un appartenente alla Polizia di Stato, veniva irrogata la sanzione disciplinare della sospensione dal servizio per la durata di mesi due per non aver consegnato la patente ministeriale ed aver utilizzato affermazioni irriguardose nei confronti del Dirigente del Compartimento Polizia Ferroviaria per il Lazio, mantenendo così un comportamento scorretto.

Il ricorrente, ritenendo la sanzione del tutto illegittima, denunciava, tra l’altro, violazione del diritto di difesa in quanto l’Amministrazione avrebbe illegittimamente trascurato la sussistenza del “legittimo impedimento” del medesimo a comparire alla riunione del Consiglio di Disciplina.

Il Tribunale Amministrativo adito accoglieva il ricorso e condannava il Ministero dell’ Interno al pagamento in favore del ricorrente alla somma di € 1.000,00, (Mille/00) per le spese di giudizio.

Il principio espresso dalla sentenza

La sussistenza di patologie a carattere “neuro-psichico” e di un accertamento sanitario “particolarmente affidabile” come quello effettuato dalla competente “Commissione Medica Ospedaliera” comporta – nell’ottica del rispetto del principio del contraddittorio – il determinarsi di una causa di “legittimo impedimento”, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 13 e 20, comma 2 del D.p.r. n. 737/81, che obbliga l’Amministrazione a rinviare l’udienza avanti all’organo collegiale preposto alla decisione.

La normativa

L’art. 13 del D.p.r. n. 737/81 (“Sanzioni disciplinari per il personale dell’Amministrazione di pubblica sicurezza e regolamentazione dei relativi procedimenti”) si occupa di enucleare le modalità con cui devono essere irrogate le sanzioni disciplinari per gli appartenenti al Corpo della polizia di stato sancendo, in particolare che: “Nello svolgimento del procedimento deve essere garantito il contraddittorio.”.

L’art. 20, comma 2 della medesima normativa disciplina i procedimenti avanti al Consiglio Centrale o Provinciale di disciplina statuendo espressamente che: “il segretario, appena terminata la prima riunione, notifica per iscritto all’inquisito che dovrà presentarsi al consiglio di disciplina nel giorno e nell’ ora fissati, avvertendolo che ha facoltà di prendere visione degli atti dell’inchiesta o di chiederne copia entro dieci giorni e di farsi assistere da un difensore appartenente all’ Amministrazione della pubblica sicurezza, comunicandone il nominativo entro tre giorni; lo avverte inoltre che, se non si presenterà, né darà notizia di essere legittimamente impedito, si procederà in sua assenza.”.

Brevi cenni sul principio del contraddittorio nel procedimento amministrativo

La legge n. 241/1990 ha introdotto il «principio del giusto procedimento», in virtù del quale la determinazione del pubblico interesse si deve realizzare (anche) attraverso il contraddittorio con i portatori dei contrapposti interessi coinvolti dall’esercizio del potere pubblico.

Prima dell’avvento della citata normativa il riconoscimento a livello costituzionale del principio suddetto incontrava forti ostacoli soprattutto da parte della giurisprudenza, che interpretava l’art. 24 Cost. come riferentesi esclusivamente ai procedimenti giurisdizionali e, pertanto, non estensibile al giusto procedimento amministrativo, nemmeno se a carattere contenzioso – quale segnatamente quello disciplinare – e l’art. 97 Cost . inteso per lo più come mera parità di trattamento dei casi eguali in attuazione concreta del principio di uguaglianza.

Viceversa la dottrina più illustre1 ne ammetteva la derivazione costituzionale sulla base, prevalentemente, del principio di imparzialità.

Un mutamento di prospettiva inizia ad aversi quando la Corte Costituzionale riconosce l’estensione del “giusto procedimento”, sub specie di diritto al contraddittorio, ai procedimenti amministrativi a carattere contenzioso, facendo appello “al principio di proporzionalità nella sanzione”, quindi ad una garanzia sostanziale, ed all’esigenza di “salvaguardare un nucleo essenziale di valori inerenti ai diritti inviolabili della persona”.2

Nell’ottica del collegamento con il diritto alla difesa ex art. 24, comma 2 Cost. si inizia ad indirizzare anche la dottrina3.

In realtà nella partecipazione al procedimento si possono ravvisare due finalità diverse: da un lato, una funzione di tutela della propria posizione giuridica soggettiva (la c.d. partecipazione difensiva), che è volta a consentire all’interessato di far valere le proprie ragioni, a procedimento ancora in corso e prima che sia emanato il provvedimento; dall’altro, invece, una funzione più prettamente collaborativa, dato che, attraverso le osservazioni e le informazioni fornite dal soggetto privato, l’amministrazione può meglio conoscere ogni elemento utile per la più idonea valutazione del caso concreto.

Si è andata così affermando la distinzione tra principio del giusto procedimento (due process of law), che vale essenzialmente per i procedimenti e i provvedimenti che producono effetti restrittivi della sfera giuridica soggettiva dei privati, e principio di partecipazione, che ha un ambito di applicazione più ampio e che assegna ai privati che intervengono nel procedimento un ruolo prevalentemente collaborativo riferita alla completezza della fase istruttoria e al miglioramento dei risultati della funzione.

Anche in assenza di una disciplina normativa generale del procedimento amministrativo l’elaborazione giurisprudenziale compiuta dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con particolare riferimento all’art. 6 della CEDU4 di cui è stato tramutato il carattere da norma esclusivamente processuale a norma anche di diritto sostanziale estensibile, pertanto, anche al procedimento amministrativo5, ha individuato i connotati essenziali del principio del giusto procedimento.

In seguito l’art 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2001, ne ha ben definito il contenuto sostanziale rappresentato dal rispetto del diritto “di ogni individuo – nei confronti delle istituzioni- di essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale che gli rechi pregiudizio6.

Tale enunciato rappresenta un corollario fondamentale di un “diritto ad una buona amministrazione” del cittadino europeo soprattutto in merito al rispetto del dovere di imparzialità nella trattazione delle questioni che lo riguardano e sulla necessaria partecipazione e contraddittorio in relazione quantomeno ai provvedimenti a contenuto sfavorevole.

Un basilare principio, sostanziale e processuale, concretizzatesi nel diritto dell’incolpato di potersi difendere, venendo sentito o producendo prove e documenti, prima che l’organo titolare di potestà sanzionatoria adotti misure afflittive.

 

La sentenza della Corte Costituzionale n. 182/08

La Consulta chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’art. 20 del D.p.r. n. 737/81, con riguardo agli artt. 3 e 24 della Costituzione, nella parte in cui consente al dipendente dell’amministrazione di pubblica sicurezza, sottoposto a procedimento disciplinare, di essere assistito esclusivamente da un difensore appartenente all’amministrazione medesima, precisa alcune caratteristiche del diritto di difesa in relazione al procedimento disciplinare.

In primo luogo la Corte evidenzia come la piena garanzia del diritto di difesa (di cui all’art. 24 Cost.) è circoscritta al procedimento giurisdizionale e non può quindi essere invocata in materia di procedimento disciplinare che, viceversa, ha natura amministrativa e sfocia in un provvedimento non giurisdizionale (così sentenze nn. 289 del 1992, 122 e 32 del 1974).

La stessa Corte ha d’altro canto sottolineato che “l’art. 24 Cost. si dispiega nella pienezza del suo valore prescrittivo solo con riferimento ai procedimenti giurisdizionali, non mancando tuttavia di riflettersi in maniera più attenuata sui procedimenti amministrativi, in relazione ai quali, in compenso, si impongono al più alto grado le garanzie di imparzialità e di trasparenza che circondano l’agire amministrativo” (in questo senso si vedano le sentenze nn. 460 del 2000 e 505 del 1995).

Con specifico riferimento al caso di specie, il Giudice delle leggi rileva che un procedimento disciplinare, ove si concluda con la destituzione, “tocca le condizioni di vita della persona”, incidendo sulla sua sfera lavorativa, e “richiede perciò il rispetto di garanzie procedurali per la contestazione degli addebiti e per la partecipazione dell’interessato al procedimento”.
In tale ambito, secondo i principi che ispirano la disciplina del “patrimonio costituzionale comune” relativo al procedimento amministrativo (così sentenza n. 104 del 2006), desumibili dagli obblighi internazionali, dall’ordinamento comunitario e dalla legislazione nazionale (di cui all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali), vanno garantiti all’interessato alcuni essenziali strumenti di difesa, quali la conoscenza degli atti che lo riguardano, la partecipazione alla formazione dei medesimi e la facoltà di contestarne il fondamento e di difendersi dagli addebiti (sentenze nn. 460 del 2000, 505 e 126 del 1995).

Nello stesso senso, secondo l’interpretazione della Corte di giustizia delle Comunità europee, il diritto di difesa “impone che i destinatari di decisioni che pregiudichino in maniera sensibile i loro interessi siano messi in condizione di far conoscere utilmente il loro punto di vista” (Corte di giustizia, sentenza 24 ottobre 1996, C-32/95 P., Commissione Comunità europea c. Lisrestal).
Con particolare riferimento al procedimento disciplinare relativo ai dipendenti delle forze armate, la Corte costituzionale aveva in precedenza ribadito che “deve essere salvaguardata una possibilità di contraddittorio che garantisca il nucleo essenziale di valori inerenti ai diritti inviolabili della persona […] quando possono derivare per essa sanzioni che incidono su beni, quale il mantenimento del rapporto di servizio o di lavoro, che hanno rilievo costituzionale” (sentenza n. 356 del 1995).
Dunque il diritto di difesa, secondo l’interpretazione della Consulta, non ha un’applicazione piena nell’ambito dei procedimenti amministrativi.

La decisione, tuttavia, ne riconosce una valenza “attenuata” partendo proprio dal presupposto costituito dall’art. 6 della CEDU e richiamando, nel caso di procedimento disciplinare comportante una sanzione espulsiva, la salvaguardia di beni collegati aventi rilievo costituzionale.

Il “legittimo impedimento” a comparire durante il procedimento disciplinare

Sulla base di tali principi si muove la decisione del T.a.r. Lazio che riconosce come il non aver tenuto conto della sussistenza di una patologia “neuro-psichica”, testimoniata da un accertamento sanitario particolarmente qualificato effettuato dalla C.M.O., come causa dell’assenza all’udienza di decisione, avanti l’organo collegiale di disciplina, configuri una violazione del diritto di difesa dell’incolpato.

Occorre tener presente che, come ricordato anche da un recente parere del Consiglio di Stato7, il diritto di difesa ed il contraddittorio si atteggiano in modo diverso a seconda che ineriscano alla fase istruttoria o a quella c.d. decisoria del procedimento disciplinare.

Nella fase istruttoria, diretta a raccogliere e ad ordinare tutta la documentazione probatoria, la fisica presenza dell’incolpato deve ricondursi all’esercizio di una mera facoltà di essere ascoltato poiché tutte le disposizioni relative a questa fase fanno riferimento ad una partecipazione collaborativa da svolgersi in forma scritta.

Non può trascurarsi che tutta la fase istruttoria deve svolgersi secondo precisi termini, che solo in taluni casi specificamente determinati possono essere prorogati: e ciò a garanzia non solo dell’incolpato, che ha diritto a vedere al più presto risolta le proprie pendenze di carattere disciplinare, ma anche dell’Amministrazione, che ha interesse ad applicare o meno la sanzione disciplinare con speditezza e rapidità al fine di eventualmente ristabilire celermente l’ordine disciplinare violato.

Alla luce di tali considerazioni il Consiglio di Stato stabilisce che un eventuale impedimento per malattia dell’incolpato che chieda di essere sentito personalmente in deroga all’ordinaria forma scritta, in questa fase, non può determinare una sospensione del procedimento disciplinare né una lesione del diritto di difesa.

Tale argomentazione vale, a maggior ragione, secondo i giudici di Palazzo Spada, ove il funzionario istruttore, titolare dell’inchiesta, reputi che sia sufficiente, ai fini dell’esercizio del diritto di difesa, la produzione di memorie difensive scritte – non potendo venire dall’audizione alcun elemento nuovo che giovi all’inchiesta – ovvero constati che un eventuale rinvio determinerebbe il rischio di una violazione del termine assegnato per lo svolgimento dell’attività istruttoria.

La richiesta di audizione personale, durante la fase istruttoria, lascia impregiudicato da un lato un certo margine di valutazione da parte del funzionario istruttore e, dall’altro, mantiene inalterata l’operatività dell’art. 120 del D.p.r. n. 3/57, per cui non può determinare una sospensione del termine di 90 giorni tra un atto e l’altro, previsto dalla normativa citata.

Discorso diverso occorre fare, secondo il parere citato, ove ci si trovi nella fase decisoria in cui la presenza dell’inquisito è necessaria, ferma restando la sua facoltà di non presentarsi nella consapevolezza delle relative conseguenze di legge ( prosecuzione in contumacia).

In tale situazione i giudici amministrativi precisano che la sussistenza di un legittimo impedimento, debitamente provato ed in ordine al quale l’Amministrazione dovrà e potrà compiere tutti gli accertamenti suggeriti da un loro precedente parere8, avrà l’effetto di sospendere tale fase del procedimento.

Tuttavia la deliberazione dell’organo giudicante che ammettesse e giustificasse l’assenza dell’incolpato – su richiesta di quest’ultimo – per un legittimo impedimento, essendo atto a natura ricettizia, sarebbe idoneo a determinare l’interruzione del termine di 90 giorni previsto dall’art. 120 del D.p.r. n. 3/57.

In precedenza il medesimo Consiglio di Stato con l’altro parere sopra richiamato aveva stabilito, in relazione all’art. 74, comma 1 della L. n. 54/1999 che riguarda il procedimento disciplinare per i militari ma che non differisce sostanzialmente – in parte qua – da quanto previsto per il procedimento disciplinare per gli appartenenti alla polizia di stato o alla polizia penitenziaria, che i Consigli o le Commissioni di disciplina non possono in alcun modo pronunciarsi qualora l’interessato abbia comprovato la sussistenza di un impedimento alla partecipazione alle sedute dovuto a motivi di salute.

Riguardo a tale impedimento, tuttavia, evidenziava che deve consistere in una vera e

propria impossibilità a partecipare alla seduta, non potendosi ritenere sufficiente un qualsiasi stato di infermità, indipendentemente dalla sua natura e dalle sue effettive conseguenze.

L’onere della prova della sussistenza di un siffatto impedimento è, secondo i princìpi generali, a carico di chi invoca a suo favore detta circostanza (e cioè l’inquisito), sicché il medesimo deve produrre una certificazione medica che non si limiti ad attestare la sussistenza di una infermità, ma che precisi in modo chiaro ed espresso, qualora ciò non risulti evidente secondo comuni regole di esperienza (fermo restando che l’organo disciplinare non è competente ad effettuare valutazioni di ordine medico), che l’infermità stessa comporta l’impossibilità a partecipare alla seduta.

Di conseguenza, in assenza di una certificazione del genere deve ritenersi che manchi un legittimo impedimento e che pertanto l’organo giudicante possa pronunciarsi anche senza aver sentito l’interessato.

In tale ottica si pronunciavano anche due seguenti sentenze del Consiglio di Stato9 che evidenziavano in particolare come l’art. 74, primo comma della legge 31 luglio 1954, n. 599, lascia all’amministrazione militare un ampio margine nella valutazione della causa che legittima il differimento della seduta disciplinare con la conseguenza che: a) l’impedimento deve consistere in una vera e propria impossibilità oggettiva a partecipare alla seduta, non potendosi ritenere sufficiente un qualsiasi stato di infermità; b) l’incolpato è onerato della prova della sussistenza di un impedimento di tal fatta, essendo insufficiente allo scopo l’esibizione di un certificato da cui non risulti in modo univoco, qualora ciò non sia evidente secondo comuni regole di esperienza, che l’infermità stessa comporti l’impossibilità di partecipare alla seduta disciplinare.

In altra pronuncia i Giudici di Palazzo Spada10(riguardante in questo caso proprio un appartenente al Corpo della polizia di stato) hanno sottolineato come la mera certificazione medica per disturbi ansioso-depressivi, priva dell’espressa menzione dell’ impedimento a comparire per difendersi in sede decisoria, non è idonea a configurare un “legittimo impedimento” a comparire non potendosi irrazionalmente porre a repentaglio la speditezza dell’azione amministrativa in una materia irta di delicate implicazioni come quella disciplinare, naturalmente foriera di un certo grado di apprensività.

Si è sostenuto11 che gli unici casi che possono legittimare la sospensione ovvero l’archiviazione del procedimento dovranno essere esclusivamente quelli in cui la temporanea o definitiva incapacità psicologica del soggetto sia effettivamente eccezionale e consista in una vera e propria “impossibilità” che, con riferimento alle patologie psichiche ed in analogia con gli altri rami del diritto, può essere ravvisata nella incapacità di intendere e di volere intesa in senso “legale” e, dunque, disciplinata dagli artt. 414 e ss. c.c. ovvero in caso di una patologia fisica che impedisca materialmente all’inquisito di prendere parte all’accertamento, sempre che – naturalmente – non si tratti di un impedimento la cui risoluzione è prevedibile in tempi brevi e, quindi, nel contesto dei termini normalmente previsti per lo svolgimento dell’accertamento.

Secondo tale opinione al fine di garantire la celerità e la speditezza dei procedimenti amministrativi, finalità che va a contemperarsi con le esigenze connesse al diritto di difesa, in mancanza di specifiche norme amministrative in materia, deve pertanto farsi riferimento alle previsioni in campo civilistico nonché in quello processuale penale laddove la disciplina della sospensione si riferisce non ad una generica alterazione psichica del soggetto bensì al “concetto legale” di incapacità di intendere e di volere, di cui ai citati artt. 414 e segg. c.c..

A parte le considerazioni da svolgersi sull’introduzione del nuovo istituto dell’amministrazione di sostegno e sulla sua possibile influenza su tale ricostruzione è necessario sottolineare che l’argomentazione sopra citata, ripresa dalle difese dell’Amministrazione nel caso che si annota, non è stata avallata dai giudici amministrativi.

Il caso deciso

I giudici del T.a.r. Lazio sostengono, infatti, che: nel caso di specie, l’inquisito, ossia il ricorrente, ha addotto di trovarsi in una situazione di legittimo impedimento, inibitoria della sua partecipazione alla riunione del 20 dicembre 2010, certificata dal verbale della Commissione medica ospedaliera datato 23 novembre 2010 (dal quale risulta che, a causa di “disturbo umore con distrofia, aspetti atipici ed ansia”, il predetto è stato giudicato “temporalmente non idoneo al servizio di istituto per giorni sessanta (60) a decorrere dalla data odierna”), ed il Consiglio di Disciplina non ne ha tenuto conto;

– ciò detto, appare evidente che il Consiglio di Disciplina ha operato in violazione delle prescrizioni di cui sopra, specie ove si considerino: – la particolare natura della patologia riscontrata, da ricondurre ai problemi di carattere “neuro-psichico” (come, tra l’altro, riconosciuto anche nella nota riservata dell’Amministrazione del 13 settembre 2010) e, dunque, inequivocabilmente atta ad incidere sulla corretta capacità di autodeterminazione dell’interessato; – la sussistenza – al riguardo – di un accertamento sanitario “particolarmente affidabile” (cfr., in tal senso, C.d.S., Sez. IV, 7 settembre 2004, n. 5796); non valgono a condurre ad una diversa conclusione le considerazioni dell’Amministrazione (….), secondo le quali il legittimo impedimento sarebbe riconoscibile esclusivamente nei casi di avvio dell’iter “volto a far luogo all’inabilitazione … o all’interdizione”, atteso che le predette considerazioni, oltre a non trovare riscontro nella legge, si rivelano idonee a vanificare le esigenze di tutela dell’inquisito, che hanno ispirato il legislatore, le quali non possono che prescindere da valutazioni di carattere assoluto, dando spazio alla varietà delle situazioni e, dunque, imponendo l’esame di ogni singolo caso in relazione al diritto di difesa del dipendente…”.

Come evidenziato il diritto di difesa ex art. 24 Cost. non ha, nei procedimenti amministrativi e in particolare in quello disciplinare, una valenza piena come nei procedimenti giurisdizionali.

Il diritto al contraddittorio, di conseguenza, gode di tutela diversa a seconda della fase del procedimento disciplinare in cui si deve esplicare.

Nella fase istruttoria la produzione di memorie difensive scritte – come partecipazione alla formazione degli atti del procedimento – soddisfa e garantisce il menzionato diritto.

Di conseguenza un eventuale impedimento per malattia dell’incolpato non è idoneo a determinare una sospensione dei termini assegnati per l’istruttoria e quello previsto dall’art. 120 del D.p.r. n. 3/57.

Nella fase c.d. decisoria avanti agli organi collegiali, viceversa, il diritto al contraddittorio deve esplicarsi con la necessaria presenza dell’interessato e le esigenze dell’azione amministrativa cedono il passo alle garanzie connesse al diritto di difesa.

In quest’ultimo caso la particolare patologia da cui risulti affetto l’incolpato, accompagnato da un accertamento sanitario “particolarmente qualificato” realizzano un “legittimo impedimento”, avanti al quale l’organo decisorio ha l’obbligo di rinviare l’udienza fissata.

Il riconoscimento del “legittimo impedimento” per malattia, tuttavia, è atto idoneo ad interrompere il termine previsto dall’art. 120 del D.p.r. n. 3/57.

A parere di chi scrive rimangono ancora delle “zone oscure” da esaminare in relazione alla problematica.

Non si può non sottolineare, preliminarmente, prescindendo dal caso specifico, come sia ipotesi abbastanza frequente che nel corso del procedimento disciplinare, in caso di patologie psichiche e nei casi in cui il giudizio di temporaneità all’inidoneità a svolgere il servizio d’Istituto si tramuti in definitivo, gli interessati propongano istanza per il passaggio ad altri ruoli all’interno dell’Amministrazione competente ovvero ad altre Amministrazioni dello Stato con la possibile conseguenza di un “passaggio” anche in tema di competenza ad irrogare la sanzione.

Ipotesi che potrebbe legittimare richieste “subdole” atte ad evitare le conseguenze “tout court” del procedimento disciplinare instaurato o, perlomeno, a mitigarle.

La distinzione tra fase istruttoria e fase decisoria del procedimento se assume notevolissimo rilievo nell’ipotesi in cui venga in questione la necessità della presenza fisica dell’interessato non chiarisce la circostanza in cui la patologia psichica precluda, addirittura, la produzione scritta delle memorie difensive nella fase istruttoria.

In ossequio ai principi enucleati dalla Corte Costituzionale e dalla Corte di Giustizia Europea non sembra possa prescindersi, in questa ipotesi, dal garantire all’interessato la possibilità di contestare consapevolmente il fondamento delle accuse rivoltegli e, di conseguenza, di riconoscere il “legittimo impedimento”, con la correlata sospensione dei termini.

Occorre poi valutare se effettivamente l’accertamento “qualificato” condotto dalla C.M.O. sia idoneo ad escludere la capacità di autodeterminazione e di difesa dell’interessato.

Preme ribadire, preliminarmente, come affermato dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, che né il funzionario istruttore né l’organo decisorio sono in grado di effettuare delle valutazioni di natura medica, soprattutto, in tema di patologie psichiche.

Pur non volendo riproporre la tesi della necessità di un giudizio di incapacità di intendere e di volere e ricondurre le stesse sotto le categorie civilistiche assolutistiche dell’interdizione o dell’inabilitazione appare però dubitabile che l’accertamento della C.M.O. sull’inidoneità, temporanea o definitiva, allo svolgimento dei compiti istituzionali possa costituire ex se un accertamento “particolarmente qualificato” da costituire un legittimo impedimento alla consapevole e cosciente partecipazione al procedimento disciplinare.

Da questo punto di vista appare necessario sottolineare, infatti, come l’accertamento all’idoneità della C.M.O. sia rivolto, esclusivamente, ad accertare in modo temporaneo o definitivo l’idoneità del soggetto a svolgere i propri compiti istituzionali, ma nulla esprima in ordine alla capacità o meno dello stesso di partecipare consapevolmente ad un procedimento amministrativo che lo riguardi.

Né si può sostenere che il giudizio di inidoneità, per motivi psichici, formulato dalla C.M.O. ricomprenda in sé la valutazione sulla incapacità alla partecipazione procedimentale.

Il giudizio di idoneità al servizio nei Corpi di polizia deve tenere conto, infatti, dei delicati compiti istituzionali propri delle Forze dell’Ordine tant’è che una eventuale inidoneità definitiva allo svolgimento degli stessi può non precludere la trasformazione del rapporto lavorativo nei ruoli civili delle Amministrazioni interessate.

Tale conclusione è avvalorata anche dal dato normativo che dal combinato disposto dell’art. 15, comma 2 e 6, comma 6 del D.p.r. n.461/01 (Regolamento recante semplificazione dei procedimenti per il riconoscimento della dipendenza delle infermità da causa di servizio, per la concessione della pensione privilegiata ordinaria e dell’equo indennizzo, nonché per il funzionamento e la composizione del comitato per le pensioni privilegiate) prevede che la Commissione medica possa accertare “…l’idoneità al servizio e altre forme di inabilità…”.

Evidentemente il richiamo ad “altre forme di inabilità” può rivelarsi idoneo a legittimare un pronunciamento dell’organo medico, su una eventuale incapacità del soggetto alla cosciente partecipazione procedimentale che prescinda dalla valutazione sulla sua idoneità al servizio.

Una possibile chiave di lettura potrebbe allora rinvenirsi, anche mutuando i principi di cui all’art. 70 c.p.p., richiedendo che la certificazione sanitaria dimostri che l’assenza del dipendente ovvero la sua impossibilità a produrre delle difese scritte derivi da una patologia che ne impedisca una partecipazione cosciente al procedimento e tale da assicurarne un’adeguata difesa.

E’ stato osservato12 che la nozione di impossibilità di una cosciente partecipazione al procedimento, ex art. 70, comma 1 c.p.p., abbraccia un ambito di situazioni più vasto rispetto a quanto non facesse l’art. 88, comma 1, c.p.p. 1930 con il riferimento al criterio sostanzialistico dell’incapacità di intendere o di volere: altro è siffatta completa privazione delle proprie facoltà intellettive o volitive, altro è il non saper comprendere il significato degli atti procedimentali ed adeguare, consapevolmente e volontariamente, ai medesimi la propria, susseguente, condotta; insomma, ai fini della capacità, l’art. 70, comma 1 c.p.p.. esige un quid pluris di quanto non si faccia agli effetti della imputabilità di diritto sostanziale.

In realtà più che di un “qualcosa in più” occorrerebbe parlare di un “qualcosa di diverso”.

Come è stato acutamente osservato13, infatti, le regole del nuovo processo penale considerano l’imputato come possibile agonista e non è detto che patologie classicamente diagnosticate dalla nosografia psichiatrica vadano ad inficiarne la possibilità ad assumere questo nuovo ruolo: una moderata paranoia, ad esempio, potrebbe acuire l’estro autodifensivo.

Come sottolineato recentemente anche dalla Consulta 14: “…la preclusione allo svolgimento del procedimento nei confronti di chi, per il suo stato di mente, non è in grado di parteciparvi in modo cosciente «ha un obiettivo di protezione di natura prettamente processuale, mirando alla salvaguardia del diritto di difesa (art. 24, secondo comma, Cost.), nel particolare aspetto della difesa personale o autodifesa…”.

La suddetta ipotesi interpretativa appare aderente all’estensione, effettuata dalla giurisprudenza europea e dalla Corte Costituzionale, dei principi penali dell’equo processo ex art. 6 della CEDU al procedimento amministrativo ed è sovrapponibile, per quanto concerne la difesa personale, anche al procedimento disciplinare ove l’autodifesa è la regola generale e la difesa tecnica una mera facoltà rimessa all’interessato.

E’ evidente che, nell’ottica di contemperare le esigenze di celerità e di speditezza dell’azione amministrativa con il diritto di difesa dell’interessato, nell’ambito del procedimento amministrativo ha una rilevanza attenuata, dovranno essere prese in considerazione non tutte quelle facoltà sottese all’autodifesa penalistica, ma unicamente quelle della partecipazione procedimentale essenziali come il diritto a produrre delle giustificazioni in forma scritta e il diritto a partecipare alla fase decisoria.

Tale certificazione dovrà necessariamente essere rilasciata da una struttura pubblica ovvero risultare da un accertamento specifico in tal senso della C.M.O..

A tal fine la regola generale prevede l’onere della prova a carico dell’interessato15, tuttavia vi potranno essere casi – ove vi siano indizi che lascino presumere in cui il funzionario istruttore, direttamente in sede istruttoria, ovvero investito dall’organo decisorio in sede di supplemento istruttorio possa richiedere alla C.M.O. competente di esprimersi sulla capacità del soggetto a partecipare coscientemente e consapevolmente – esercitando adeguatamente il proprio diritto di difesa – al procedimento disciplinare.

Dovrà restare fermo, in ogni caso, l’assunto che tali incombenti – essendo posti a garanzia del diritto di difesa dell’inquisito – determineranno una legittima interruzione dei termini previsti dall’art. 120 del D.p.r. n. 3/57 e degli altri termini previsti dalla normativa vigente per l’avvio e la conclusione del procedimento disciplinare.

 

1 F. BENVENUTI, Contraddittorio, in Enc. Dir., Milano, 1961, ad vocem, secondo il quale “il contraddittorio costituisce un principio giuridico generale di carattere costituzionale che si manifesta ogni qual volta la funzione svolta sia retta dalla ragione di imparzialità”.

2 Corte cost., sent. n. 151 del 1986, in Giur. cost., 1986, p. 1029 ss.; Corte cost., sent. n. 220 del 1995, in Giur. cost., 1995, p. 1647 ss. e su di essa A. CERRI, Dalla garanzia del “giusto procedimento” in sede disciplinare al criterio della “proporzionalità”: spunti problematici e riflessioni a partire da un’interessante sentenza della Corte, ivi, 1995, pp. 1648-9.

3 L. DE LUCIA, Procedimento amministrativo e interessi materiali, in Diritto amministrativo, n. 1/2005, pp. 119-20, note 86-7.

4 Diritto ad un equo processo: Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti. La sentenza deve essere resa pubblicamente, ma l’accesso alla sala d’udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell’interesse della morale, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita privata delle parti in causa, o, nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità possa portare pregiudizio agli interessi della giustizia.

Ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata.

In particolare, ogni accusato ha diritto di:

a) essere informato, nel più breve tempo possibile, in una lingua a lui comprensibile e in modo dettagliato, della natura e dei motivi dell’accusa formulata a suo carico;

b) disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare la sua difesa;

c) difendersi personalmente o avere l’assistenza di un difensore di sua scelta e, se non ha i mezzi per retribuire un difensore, poter essere assistito gratuitamente da un avvocato d’ufficio, quando lo esigono gli interessi della giustizia;

d) esaminare o far esaminare i testimoni a carico e ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico;

e) farsi assistere gratuitamente da un interprete se non comprende o non parla la lingua usata in udienza.

5 S. CASSESE “Le basi costituzionali” in Trattato di diritto amministrativo a cura di S.CASSESE Tomo I Giuffrè 2003

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7 Sezione seconda, num. 03871/2011 del 21.10.2011 (richiesto dal Ministero della Giustizia per il procedimento disciplinare a carico degli appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria analogo a quello relativo agli appartenenti al Corpo della polizia di stato)

8 Sezione terza, num. 598 del 24 aprile 2001

9 Sezione quarta, num. 1851 del 19 aprile 2005 e num. 4630 del 15 luglio 2008

10 Sezione sesta, num. 2624 del 31 gennaio 2006

11 P. BURLA, G. FRACCASTORO, C. SCARSELLETTA, La sospensione del procedimento disciplinare secondo le regole dettate dal legislatore e dalla giurisprudenza amministrativa, in Rivista della Guardia di Finanza n. 4/2004, 1259

12 C. Lorè – P. Moscarini, La valutazione relativa alla incapacita’ processuale dell’imputato per infermita’ di mente, in Rivista Italiana di Medicina Legale, 2, 375, 1999

13 B.A. Perinetti, La capacità di stare in giudizio: l’evoluzione del concetto, la realtà italiana e la proposta di uno strumento specifico per la sua valutazione, in Psicologia e giustizia, anno 4 n. 2, pag. 6 in cui viene citato Cordero, 2000, pag. 238-239

15 Da ultimo si vedano Cons. St., sez. IV, n. 8289/2010; T.a.r. Puglia Lecce, sez. III, n. 657/2008

Lancioni Davide

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