Il reato di maltrattamenti in famiglia in danno di minore

Gaetana Crisci 26/05/20
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SOMMARIO: 1.Aspetti sociologici. 2. Il reato di maltrattamenti in famiglia su minori alla luce del nuovo codice rosso: aspetti sostanziali. 3. Il reato di maltrattamenti in famiglia e l’istigazione al suicidio del minore. Connessioni.

1.Aspetti sociologici

La famiglia moderna viene definita non solo come gruppo di persone legate da vincoli di parentela, all’interno del quale i membri adulti hanno la responsabilità di allevare i minori [1], ma come unione di persone fra le quali, per intime relazioni e consuetudini di vita, si riconoscono legami di reciproca assistenza e protezione. Mentre fino a qualche generazione fa, essere padri e madri era considerato un automatismo del vincolo matrimoniale, oggi il divenire genitori si configura come una scelta di autodeterminazione della coppia. La famiglia deve impegnarsi a promuovere e sostenere lo sviluppo della prole. Invece, molto spesso, i genitori riversano sui figli le proprie paure, i propri fallimenti, le precarie condizioni socio- economiche, la loro irritabilità di base e forme depressive di cui soffrono. I minori diventano valvola di sfogo di violenze non solo fisiche, ma anche psicologiche che talvolta possono portarli a compiere gesti estremi. Questa riflessione, senza pretese di completezza, cerca di affrontare il tema della responsabilità genitoriale in ipotesi suicidarie e di maltrattamenti. Nei reati endofamiliari, così come per altre ipotesi delittuose ove esiste una relazione di affettività tra il soggetto agente e la vittima, ci si deve sempre confrontare con il cosiddetto “numero oscuro”, ovvero quella parte sommersa di reati non denunciata o per i quali resta ignoto l’autore. Tra i fattori che ostacolano la denuncia dei maltrattamenti subiti, rientra certamente la paura di perdere il legame affettivo, anche se labile, con l’aggressore. L’esistenza del legame affettivo fa sì che spesso la violenza non venga percepita come tale dalla vittima, che tende per contro a considerarla come un fatto normale. E nel caso dei minori determinate condotte vessatorie vengono inconsciamente accettate alla stregua di ogni altro metodo educativo. Se a questo aggiungiamo il retaggio culturale che tende a giustificare comportamenti lesivi come semplici conflitti familiari consumati all’interno di mura domestiche e aggiungiamo altresì la difficoltà di reperire i mezzi di prova a sostegno di denunce di violenze subite,  è indubbia la difficoltà  per la vittima, di ribellarsi a condotte che offendono la propria dignità fisica e psichica.

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2.Il reato di maltrattamenti in famiglia su minori alla luce del nuovo codice rosso: aspetti sostanziali.

L’art. 572 c.p. disciplina il reato di maltrattamenti in famiglia e individua la condotta di chi pone in essere una molteplicità di fatti che producono sofferenze fisiche e/o morali in colui che li subisce[2]. La legge n. 69 del 2019 nota come “Codice Rosso”, si propone come obiettivo quello di assicurare una maggiore tutela alle vittime di violenza domestica e di genere. La normativa anche nel caso del delitto di maltrattamenti familiari  prevede pene più severe per il soggetto agente e qualifica il minore quale persona offesa dal reato. Passando alla disamina della fattispecie criminosa di cui sopra, è opportuno precisare che si tratta di un reato proprio in quanto può essere soggetto attivo soltanto chi sia legato a quello passivo da una relazione di tipo familiare, di convivenza oppure di autorità o affidamento, nonché da rapporti di cura o custodia.

La condotta lesiva si sostanzia nel perpetrare maltrattamenti in danno alla persona con cui stabilmente si convive o si ha un rapporto di familiarità, con la consapevolezza di arrecare danno alla sua integrità fisica e morale[3]. La condotta può essere sia attiva sia omissiva purchè abbia il requisito della idonea offensività rispetto al bene giuridico protetto. Qualificandosi, quale reato abituale, non sono sufficienti singoli e sporadici episodi censurabili, ma i comportamenti fattuali devono essere tra loro collegati da un nesso di abitualità e devono conseguentemente portare un avvilimento della personalità della vittima. L’elemento psicologico del reato si sostanzia nella coscienza e volontà di sottoporre abitualmente il soggetto passivo a sofferenze fisiche e/o morali, indipendentemente dal verificarsi di un evento, quale conseguenza della propria azione o omissione.

Il reato di maltrattamenti in famiglia è un reato plurioffensivo e tra i beni oggetto della tutela penale assume un rilievo significativo il minore poiché la norma lo tutela non solo nella qualità di persona soggetta alla vigilanza e alla custodia di qualcuno, ma come categoria giuridica che per sua stessa natura si rende meritevole di protezione. Il minore, infatti, avendo una personalità ancora da costruire, una fragilità emotiva e lati del carattere non del tutto definiti è un soggetto debole che necessita di una particolare attenzione da parte del sistema giuridico. Situazioni di vessazione fisica e morale possono  indurre ad uno sviluppo distorto  sua personalità con conseguenti, irreversibili, danni psichici[4] e in alcuni casi possono sviluppare intenti suicidari o comportamenti autolesivi.

3.Il reato di maltrattamenti in famiglia e l’istigazione al suicidio del minore. Connessioni

I motivi per cui un minore può pensare al suicidio sono diversi. Molto spesso si matura l’idea di togliersi la vita a causa di esperienze traumatiche, abusi o conflitti familiari. Non è raro imbattersi infatti in casi in cui soprattutto gli adolescenti, maturano l’idea di farsi del male a seguito di significativi mutamenti nella loro ordinaria quotidianità, come il cambio di residenza e dunque difficoltà di integrarsi in un nuovo contesto sociale, divorzio dei genitori, fine di una relazione sentimentale, perdita o allontanamento di una persona cara, ma anche la convivenza in un contesto familiare precario e violento.  Il genitore ha l’obbligo di «mantenere, istruire ed educare la prole tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli», se, per contro, l’adulto, si disinteressa al minore e alle sue esigenze incorre nella responsabilità di generare o aggravare una condizione di abituale e persistente sofferenza, che il minore, da solo non ha possibilità di risolvere. Oggi vengono riconosciuti nuovi diritti del minore che tengono conto della qualità della vita e del suo benessere generale. Non basta garantire ai figli la tranquillità economica e i beni materiali, ma occorre essere disponibili all’ascolto delle loro esigenze[5]. È necessario cogliere, oggi più che mai, i disagi del minore proprio al fine di scongiurare propositi di autolesionismo.

Venendo alla connessione tra il reato di maltrattamenti in famiglia e l’istigazione al suicidio, occorre ricordare che il legislatore non punisce il suicidio perché il bene “vita” è indisponibile , ma condanna, ritenendolo responsabile collaterale ,chi “determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito suicidario o ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione…[6]. Mentre inizialmente, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che il reato di istigazione al suicidio previsto dall’art 580 cod. pen. si concretizzasse, sotto il profilo dell’elemento soggettivo, quando l’attività dell’agente fosse rivolta ad istigare o a rafforzare l’altrui proposito suicida e ha escluso l’ipotesi delittuosa se l’azione o omissione del soggetto agente fosse diretta solo a maltrattare e quindi a provocare sofferenze materiali e morali del soggetto passivo[7], successivamente ci si è soffermati con più rigore sul nesso di causalità tra la  condotta e l’ evento[8] ,al fine di stabilire se fosse possibile attribuire al soggetto già colpevole del reato di maltrattamenti, una ulteriore responsabilità in conseguenza dell’avvenuto suicidio. A tal proposito si è ritenuto doveroso accertare se il soggetto agente mirasse o meno a determinare il suicidio stesso. E si è arrivati a riconoscere che, qualora non vi fosse l’intenzione di determinare con proprie azioni o omissioni l’intenzione suicidaria nella vittima, si dovesse applicare l’aggravante prevista dallo stesso art. 572 c.p., integrando l’ipotesi di morte derivata come conseguenza non voluta.  Nel caso in cui invece l’attività del responsabile dei maltrattamenti fosse diretta ad istigare il proposito suicida della vittima si dovrebbe applicare l’art. 580 c.p. in concorso con l’art. 572 c.p. [9].  È tuttavia opinione consolidata ribadire la punibilità in capo a chi maltratta, salvo che non siano riscontrabili ulteriori cause, autonome e successive rispetto ai maltrattamenti, che siano per loro stessa natura eccezionali, atipiche ed imprevedibili[10]. È necessario dunque, ai fini della imputabilità del soggetto agente che il giudice, attraverso un giudizio prognostico abbia a rilevare se, l’evento più grave, possa essere qualificato come conseguenza prevedibile del reato presupposto, o se, invece, rappresenti il risultato di una decisione della vittima del tutto imprevista ed imprevedibile.

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Note

[1]A. Giddens, “Fondamenti di sociologia”, Il Mulino, 2000. L’Autore, riprendendo l’analisi di Lawrence Stone, sostiene che  la famiglia tra il XVI e il XIX secolo, abbia attraversato tre fasi distinte. Inizialmente la famiglia era vista come una piccola comunità la cui finalità era quella della riproduzione. In una fase successiva il nucleo familiare si sarebbe separato dall’ambiente sociale circostante e sarebbero diventati rilevanti i rapporti anche affettivi tra i coniugi. Nel Novecento invece ruolo predominante assumeva, nella costituzione della famiglia, l’amore tra i coniugi e il nucleo era poco permeabile alle influenze esterne. I questo momento storico furono riconosciuti i diritti extraconiugali delle donne, la libertà sessuale e i diritti dell’infanzia.

[2] Art. 572 c.p. Maltrattamenti contro familiari e conviventi:

Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da tre a sette anni.

La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore, di donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità come definita ai sensi dell’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero se il fatto è commesso con armi.

abrogato (d.l. 14 agosto 2013, n. 93, convertito con modificazioni dalla l. 15 ottobre 2013, n. 119).

Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni.

Il minore di anni diciotto che assiste ai maltrattamenti di cui al presente articolo si considera persona offesa dal reato.

Alla luce della nuova legge del 19 luglio 2019, n. 69, nota come Codice Rosso, il concetto di “familiare” tradizionalmente circoscritto ai coniugi, consanguinei, affini, adottati e adottanti, è stato esteso a tutti i soggetti legati da qualsiasi rapporto di parentela, compresi i domestici, a patto che vi sia convivenza. Si tratta di un requisito molto importante perché rende ammissibili anche reati in danno del convivente more uxorio. La novella normativa ha inasprito le pene per il delitto di maltrattamento commesso in presenza o in danno di minore, di donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità prevendendo un aumento della pena fino alla metà. Inoltre, il delitto di cui all’art. 572 c.p. è stato inserito nell’elenco dei delitti che consentono, nei confronti degli indiziati, l’applicazione di misure di prevenzione.

[3] Cfr Cass. Pen. Sez. VI, sentenza n. 22915 del 27 maggio 2013, per cui il delitto di maltrattamenti è configurabile anche se con la vittima degli abusi vi sia un rapporto familiare di mero fatto, desumibile, anche in assenza di una stabile convivenza, dalla messa in atto di un progetto di vita basato sulla reciproca solidarietà ed assistenza.

[4] Pujia G. – Nardone R., “La violenza nelle relazioni familiari”, Rass. pen.1/2010.

[5] In particolare la Convenzione di New York sui diritti dell’infanzia del 20 dicembre 1989 (resa esecutiva in Italia con legge n. 176/91) all’art. 12 stabilisce i criteri generali di ascolto del minore in relazione alle procedure penali, civili ed amministrative.

[6] Fiandaca – Musco, Diritto penale, Parte generale, Bologna, 2009, secondo cui la condotta di agevolazione o istigazione assume rilievo ai fini dell’applicazione dell’art. 580 c.p. soltanto nel caso in cui essa si traduca in un contributo causale alla realizzazione dell’altrui volontà suicidaria. Occorrerà pertanto accertare, di volta in volta, se tra evento (suicidio o tentato suicidio) e le condotte partecipative sussista un nesso causale penalmente rilevante.

[7] Cfr. Cass. Pen. Sez. 1, Sentenza n. 1560 del 28/10/1964.

[8] Nella sentenza n. 8405 del 19 febbraio 1990, la Cassazione ha affermato che “sussiste l’aggravante della morte derivata dal fatto dei maltrattamenti in famiglia, prevista dall’art. 572 c.p., qualora il suicidio del soggetto passivo, benché non voluto, sia collegato ai ripetuti e gravi episodi di maltrattamenti per effetto dei quali lo stato di prostrazione indotto dalla vittima sia da identificarsi quale vero e proprio trauma fisico e morale che la determinarono a darsi la morte”.

[9] Cfr. Cass. Pen., sez. VI, 29 novembre 2007. In particolare il giudice di legittimità ha ritenuto il gesto suicidario una causa sopravvenuta non sufficiente da sola a determinare l’evento, ma concorrente a produrre lo stesso, potenziando l’efficienza causale dei maltrattamenti.

[10] Cfr. Cass. Pen., sez. VI, 19 novembre 2009, n. 44492.

Gaetana Crisci

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