Il pubblico ministero e il diritto di informazione. La figura innovativa dell’addetto stampa o del portavoce delle procure.

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Il pubblico ministero e il diritto di informazione. La figura innovativa dell’addetto stampa o del portavoce delle procure.
Il  decreto legislativo n. 106 del 21/03/2006, fissa le norme (in vigore dal 18 giugno 2006) in materia di riorganizzazione dell’Ufficio del Pubblico Ministero a norma della delega derivante dalla legge n. 150 del 25 luglio 2005. Si tratta di disposizioni molto importanti e di non lieve incidenza sull’assetto complessivo del nuovo ordinamento giudiziario.
In particolare, si segnalano per delicatezza le norme in materia di attribuzioni del procuratore della repubblica; di titolarità dell’azione penale, di prerogative del procuratore capo in materia di misure cautelari; di rapporti, infine, con gli organi di informazione.
Il disegno organizzativo che deriva da questa ristrutturazione giudiziaria è con chiarezza permeata da un’idea-guida: il rafforzamento del controllo gerarchico del capo dell’ufficio sui sostituti. Ed è un orientamento – non è superfluo sottolinearlo, alla luce delle aspre polemiche, al limite dello scontro istituzionale, che hanno seguito l’esordio del nuovo sistema giudiziario – che non ha dato adito ad osservazioni critiche da parte del presidente della repubblica, richiamando, peraltro, una sentenza del 1976 della corte costituzionale.
Di grande rilievo innovativo sotto il profilo “materiale” – anche se, in apparenza, relegata in una parte secondaria della disciplina – è la norma sui rapporti delle procure con la stampa.
Innanzi tutto (art. 5), è il procuratore – capo che deve tenere, in via esclusiva, ovvero tramite un suo espresso delegato, i rapporti con gli organi di informazione. Lo scopo perseguito è quello di mettere argine alla prassi dei canali preferenziali tra giornali e singoli sostituti. Inoltre, ed ancora con più incisività, si stabilisce che tutte le informazioni sull’attività degli uffici di procura vengano riferite “impersonalmente” allo stesso ufficio. Così da impedire che le indagini possano essere “personalizzate”, risultando all’esterno come il frutto di un’attività individuale, ma anche assicurando alla fine una maggiore tutela al singolo magistrato che la svolge.
Si tratta, dunque, del tentativo di colpire la cosiddetta spettacolarizzazione delle indagini. Anche se molti lo ritengono, tuttavia, ancora insufficiente, pur se apprezzabile nelle intenzioni, in quanto non inserito in un sistema organizzativo organico di regole e sanzioni.
Dedicare alcune disposizioni in materia di rapporti con la stampa nell’ambito della riorganizzazione di un ufficio come quello del P.M. è una grande novità nel nostro ordinamento. Evidenzia almeno l’acquisita consapevolezza della dimensione non esclusivamente giuridica dell’organizzazione della giustizia, che, al contrario, deve fare appello ad altre discipline  e specializzazioni (scienza dell’organizzazione, sociologia giuridica) per poter dare risposte adeguate alla nuova e più complessa domanda di giustizia, pur senza toccare la sacralità del principio dell’indipendenza dei giudici e nella distinzione precisa tra funzione giustizia (intangibile) e servizio giustizia (riformabile).
In Italia questa consapevolezza ha tardato ad affermarsi e, su questo specifico aspetto dei rapporti con la stampa, ha preso d’anticipo persino la pionieristica scuola italiana sui sistemi giudiziari, che per la diffusione di quella consapevolezza ha dato e continua a dare un notevole contributo.
Non appare, dunque, inutile tentare un approccio comparativo con l’unico caso in Europa che la letteratura in materia ha conosciuto di istituzione di un organico e complesso ufficio addetto precipuamente al gestione dei rapporti di comunicazione esterna tra ufficio inquirente e stampa: il magistrato addetto-stampa dell’ordinamento belga.
L’ordinamento belga, addirittura già con una circolare ministeriale dal 1965, prevede l’istituzione e l’azione del portavoce della Procura. Lo scopo era ed è quello di assicurare un’informazione precisa e corretta, sul presupposto che l’amministrazione della giustizia non si esplica nella solitudine e nel silenzio della giurisdizione, esistendo, anzi, un interesse pubblico dei cittadini ad essere informati su vicende giudiziarie di forte impatto sociale. Il portavoce della Procura ha assunto anche uno status giuridico con l’individuazione – ai sensi dell’art. 28 quinquies del codice di procedura penale del 1998 – di una specifica competenza di comunicazione esterna rispetto alle indagini penali, attribuita al procuratore del re, il quale può anche delegarla, ad eccezione di alcuni reati particolari (ad esempio, in materia sessuale, ovvero se coinvolgono minori), alla polizia giudiziaria, previo accordo con il giudice istruttore dell’indagine medesima.
Il procuratore capo, inoltre, può delegare, anche in via permanente, la funzione di portavoce ad uno o più sostituti. Ed è di particolare rilievo che lo stesso codice di procedura penale – con una norma, dunque, non ordinamentale, ma addirittura processuale – riconosca l’esistenza di un’ “esigenza pubblica” da contemperare con i diritti del sospettato, dell’imputato, della vittima e dei terzi.
Una circolare del 1999 ha fornito ulteriori chiarimenti intorno a questa disposizione, precisando che una “appropriata circolazione delle informazioni aiuta ad accrescere la fiducia del cittadino nelle istituzioni.”
Negli altri settori della giustizia, compresi gli aspetti organizzativi relativi a ruoli, funzionamento e regolamenti, invece, la figura dell’incaricato di gestire i rapporti con la stampa è stata introdotta progressivamente su base volontaria, prevista da un altro atto interno ministeriale del 1996. E’ sorto così il “giudice addetto all’ufficio stampa”, assistito da un funzionario amministrativo e affiancato da un cancelliere addetto stampa.
Ciò che emerge con evidenza da questo accenno di studio comparato è che nel sistema belga le affermazioni di principio e le previsioni normative circa la comunicazione esterna e i rapporti con la stampa sono andati di pari passo con una forte consapevolezza della necessità di dare contenuto tecnico a questa attività, individuando con precisione competenze, regole, ruoli e limiti.
Già nella prima circolare ministeriale sulla gestione dei rapporti con la stampa da parte delle procure (addirittura risalente al 1953), non ci si limita ad affermazioni generiche e di principio, ma si distingue tra “informazioni passive”, fornite a richiesta, e “informazioni attive”, promosse dall’ufficio giudiziario anche allo scopo di valorizzare l’amministrazione della giustizia; si individuavano con precisione le responsabilità del capo della procura e i diritti privati da tutelare in contrappeso al diritto di informazione.
Una circolare ministeriale del 1999 fornisce un quadro esemplare di consapevolezza professionale e precisione normativa in questa materia. Essa, infatti, disciplina nel dettaglio le informazioni giudiziarie, distinguendo quelle cui possono attingere i giornalisti professionisti e quelle cui possono accedere anche pubblicisti accreditati. In particolare, viene fissato un vero e proprio protocollo di comportamento della procura rispetto a: comunicazione “on the record”, in cui il portavoce può solo essere citato; “off the record”, si può dare la notizia senza citare la fonte; “background”, che prevede l’intesa circa il rinvio nella diffusione di una notizia; il “silenzio-stampa”, assoluto, che può essere superato solo dal procuratore capo.
Il presupposto giuridico di questa innovativa disciplina è una sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, singolarmente non recente, del 1979 (Sunday Times contro Regno Unito), dove si legge che “accanto alla tutela della funzione giudiziaria va affermata la tutela del diritto ad un’informazione corretta ed adeguata sulla giustizia.”
In conclusione l’opportunità della comunicazione di notizie e il contenuto delle stesse devono comunque essere valutate in funzione dell’interesse pubblico, come risulta dal bilanciamento, che solo la procura può fare, tra gli interessi della buona amministrazione della giustizia e gli interessi di una corretta ed affidabile diffusione dell’informazione.
E’ probabile che questo accenno all’informazione giudiziaria, reso necessario dalla norma in vigore da giugno, possa stonare alle orecchie di chi considera la funzione giurisdizionale come chiusa in una torre d’avorio. La stessa CEDU già nel 1979 affermava che “l’idea che i tribunali non possano funzionare nel vuoto è in genere condivisa. Il loro compito è quello di comporre le controversie, ma nulla vieta che esse non possano prima dar luogo a dibattiti in altra sede (…).”
Al contrario, proprio la consapevolezza di ciò doveva già da tempo imporre all’attenzione del legislatore italiano la necessità di regole in questa materia, per tutelare, da un lato, l’indipendenza della giustizia, contemperata con il diritto di informazione, ma, dall’altro, contro un uso strumentale ed invasivo della informazioni giudiziarie in ambiti della vita civile separati ma altrettanto delicati.
Tutti hanno sotto gli occhi la delicatezza assunta in questi anni dalle questioni toccate dall’incontro di informazione e giustizia. Ed è proprio questa sovraesposizione a rendere necessarie regole precise e non derogabili, così da distendere i rapporti tra i poteri dello Stato e della società.
La normativa in discorso, dunque, è un primo, anche se non completo, passo in questa direzione. Si attende anche, tuttavia, che questa materia così cruciale possa incontrare l’interesse degli studiosi di sistemi giudiziari alla ricerca di soluzioni adeguate al modello italiano.
 
Pasquale Vitagliano

Vitagliano Pasquale

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