Il processo penale tra esigenze di difesa sociale e garanzie della persona: l’esperienza italiana

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Sommario: §1. Cenni sul contraddittorio e sul diritto di difesa nel codice di procedura penale del 1930: caratteristiche di un sistema di stampo “inquisitorio”. – §2. L’entrata in vigore della Costituzione repubblicana e le nuove prospettive “garantistiche” per l’imputato. – §3. Il codice di procedura penale del 1988: caratteristiche di un nuovo sistema tendenzialmente “accusatorio”. – §4. La crisi del nuovo sistema accusatorio: a) genesi della “controriforma”. – §5. Segue: b) la sentenza n. 255/92 e l’affermazione del principio di “non dispersione delle prove”. – §6. Il superamento del conflitto tra potere legislativo e Corte costituzionale: la riforma del giusto processo.

1. Cenni sul contraddittorio e sul diritto di difesa nel codice di procedura penale del 1930: caratteristiche di un sistema di stampo “inquisitorio”.

Non è facile avviare una riflessione storica sul processo penale italiano (1), tanto più in una fase di grande instabilità normativa come quella che ha contraddistinto gli ultimi decenni, e in special modo il periodo precedente alla riforma sulla “costituzionalizzazione” del “giusto processo” o, più specificamente, del “contraddittorio come regola di giudizio” (2).

La molteplicità dei dettagli tecnici cui dovrebbe farsi riferimento è tale che, ai nostri fini, appare preferibile un ragionamento che abbracci i periodi più significativi dell’evoluzione legislativa italiana in campo processuale, prendendo le mosse dalla disamina delle caratteristiche fondamentali del codice di procedura penale sopravvissuto alla caduta del fascismo.

Nella sua accezione più ampia, il principio del contraddittorio è tradizionalmente riassumibile nel postulato secondo cui le decisioni assunte dal giudice nel processo, anche se solo incidentali, debbano essere adottate “audita altera parte”. Così inteso, il principio si prospetta come un’opportuna applicazione di quell’elementare regola di buon senso, secondo cui non pare ragionevole che qualsivoglia lite insorta tra due soggetti si risolva senza la previa audizione, ad opera di un soggetto terzo, delle ragioni di entrambe le parti in contrasto.

Tuttavia come rimarcava la dottrina più attenta alle esigenze di protezione dei diritti dell’individuo, il principio in esame finiva per scontrarsi con un’interpretazione giurisprudenziale particolarmente restrittiva, generata dalla logica “inquisitoria” di cui era intrisa la legislazione processuale penale italiana del primo dopoguerra.

Il codice di procedura penale del 1930 (cd. codice Rocco) (3), in vero, avendo ricevuto un’impronta di matrice autoritaria (siamo in pieno periodo fascista), finiva per riservare al diritto di difesa e, conseguentemente, al contraddittorio, una posizione sostanzialmente marginale, consistente nella sola possibilità, per le parti stesse, di “essere sentite” prima della decisione del giudice.

Al fine di comprendere meglio l’ambito in cui si esprimevano i diritti dell’imputato, è opportuno richiamare brevemente i tratti più rappresentativi (4) del modello processuale tipicamente “inquisitorio” (5), cui si è ispirata la legislazione penale italiana del primo dopoguerra:

  • L’iniziativa processuale d’ufficio. L’iniziativa del processo penale spettava al giudice, poiché era considerato il solo depositario del “vero” e del “giusto”; egli non doveva essere ostacolato dall’inattività delle parti.

  • L’iniziativa probatoria d’ufficio. La ricerca delle prove non spettava alle parti, bensì al giudice stesso, perché, avendo più poteri, meglio di loro poteva conoscere il “vero” e il “giusto”.

  • Il segreto. L’inquisitore era una persona (o un organo) che ricercava la verità non passando attraverso la contrapposizione dialettica tra le parti. Assumeva le deposizioni in segreto e non era tenuto a confrontare la sua ricostruzione della verità con le posizioni dell’accusa e della difesa dell’imputato. Costoro, limitandone i suoi poteri, avrebbero potuto soltanto ostacolare la ricerca del “vero”.

  • La scrittura. Delle deposizioni raccolte dall’inquisitore, era redatto un apposito verbale. Questo riportava la sola interpretazione che l’inquisitore dava alle frasi pronunciate. Si riteneva accettabile che non fossero riportate le parole effettive, bensì la versione data dall’inquirente, perché soltanto lui era in grado di comprenderne il vero significato.

  • Nessun limite all’ammissibilità delle prove. Quello che contava era il risultato da raggiungere, e cioè la verità, e non il metodo con cui la si perseguiva. Pertanto ogni modalità di ricerca era ammessa; anche la tortura dell’imputato (6).

  • La presunzione di reità. Era sufficiente aver raccolto alcuni indizi contro un imputato, o anche soltanto una denuncia anonima, perché questi fosse chiamato a discolparsi. In questo sistema, dunque, doveva essere l’imputato a dimostrare la sua innocenza mediante prove; se non vi riusciva, doveva essere condannato.

  • La carcerazione preventiva. Poiché l’imputato era “presunto colpevole”, in mancanza di prove d’innocenza poteva essere sottoposto a custodia preventiva in carcere. Il sistema inquisitorio faceva ampio uso di tale strumento; è comunemente denominato carcerazione “preventiva” perché costituisce l’anticipazione di quella sanzione, che poi era irrogata a seguito della decisione. In attesa di questa, l’imputato poteva trovarsi in carcere senza che fossero portate a sua conoscenza né l’accusa formulata, né le prove raccolte.

  • La molteplicità delle impugnazioni. Come visto, il sistema inquisitorio attribuiva ampi poteri al giudice; nel momento in cui egli li esercitava, non poteva essere controllato dalle parti, pena la sconfessione del postulato fondante il sistema. Una volta pronunciata la sentenza, il sistema stesso teneva conto del fatto che anche il giudice era un uomo e che, come tale, potesse sbagliare. E allora il regime permetteva alle parti la presentazione d’impugnazioni, sulle quali decideva un giudice superiore dotato dei medesimi poteri inquisitori concessi al primo giudice.

Ulteriori e significative disposizioni dettate espressamente dal codice Rocco in tema di prove erano: l’art. 299 c.p.p. 1930, che prescriveva “l’obbligo di compiere tutti e soltanto gli atti necessari all’accertamento della verità”; l’art. 368 c.p.p. 1930, che ribadiva detto obbligo nell’imporre di investigare su fatti e circostanze idonee a condurre all’accertamento della verità; l’art. 420 c.p.p. 1930, che contemplava il potere del presidente o del pretore di ridurre le liste testimoniali sovrabbondanti o di eliminare le testimonianze non pertinenti all’oggetto del giudizio.

Si trattava, come rilevato a più riprese dalla dottrina processualpenalistica, di un diritto alla mera prospettazione di una “proposta di valutazione della prova, che non consentiva una completa esplicazione del diritto di difesa delle parti e non assicurava al giudice un panorama conoscitivo soddisfacente ai fini della “giusta” definizione del processo. A ciò si aggiunga che le prove utilizzabili ai fini della formazione del libero convincimento dell’organo giudicante erano assunte in segreto, d’ufficio, unilateralmente dal solo pubblico ministero o dal giudice istruttore, con la conseguenza che la partecipazione “contemporanea e contrapposta” delle parti al processo si verificava solo nella fase del giudizio, e si risolveva essenzialmente nell’analisi critica e nella discussione di prove già formate e acquisite nel fascicolo processuale del giudice investito della causa (7). Si consideri, a titolo esemplificativo, la disciplina riservata dal codice di procedura penale del 1930 agli istituti dell’esame dibattimentale dell’imputato e del testimone: il compimento dell’atto era, di regola, preceduto dalla previa lettura dei verbali delle dichiarazioni rese dagli stessi soggetti nella fase istruttoria, e il relativo contenuto doveva essere confermato dalla persona chiamata a deporre prima dell’interrogatorio; in caso contrario il dichiarante era tenuto a fornire spiegazioni circa i motivi dell’eventuale ritrattazione.

Dunque il giudice e le parti (mai direttamente, ma sempre tramite l’autorità giudicante) sulla base di quanto già dichiarato dalla fonte di prova, potevano proporre ulteriori domande e chiedere tutte le precisazioni necessarie.

Ben presto, però, la dottrina più attenta si rese conto che la nozione tradizionale di contraddittorio non era esauriente (8), poiché ritenuta ancora incompleta e, pertanto, inidonea a soddisfare l’esigenza di salvaguardare il diritto dell’imputato a ottenere una decisione comprensiva di tutte le possibili prospettazioni del fatto-reato così come potenzialmente ed effettivamente proponibili da tutte le parti in causa (9). In tale contesto il diritto di difesa era semplicemente definibile come un insieme di poteri di “resistenza”, ancora privo, cioè, di connotati “diretti” e “partecipativi” rispetto alle vicende che avrebbero condotto il giudice alla formazione del suo libero convincimento e alla conseguente definizione del giudizio (10).

Si ritenne, dunque, a ragione, che il fine ineludibile di un siffatto modello processuale fosse solo quello di ottenere la confessione dell’imputato, considerata la “regina delle prove”; il tutto in linea con un principio di autorità, secondo il quale l’accertamento della verità è direttamente proporzionale al potere destinato al soggetto inquirente (il giudice), sul quale dovevano necessariamente accentrarsi tutte le funzioni processuali. Seguendo tale ordine concettuale tipico del modello, il giudice si rappresenta come “il signore del processo e delle prove”: quanto più estesi sono i poteri anche coercitivi concessigli dal codice di rito, tanto più l’accertamento della verità assoluta avrebbe trovato soddisfazione (11).

2. L’entrata in vigore della Costituzione Repubblicana e le nuove prospettive “garantistiche” per l’imputato.

Può ritenersi pacifico che l’entrata in vigore della Costituzione Repubblicana (12) ha rappresentato una svolta evidente nell’ambito della legislazione processuale penale poiché, introducendo in chiave di principio una serie di garanzie fondamentali per il soggetto sottoposto al processo, ha tradotto in termini normativi (e al più alto grado della gerarchia delle fonti dell’ordinamento giuridico) le prospettazioni ideologiche della dottrina processualpenalistica maggioritaria dell’epoca.

A tal proposito va sottolineato come l’assemblea costituente, mossa da nuove prospettive “liberali” e “democratiche” nella stessa e rinnovata concezione politica dello Stato (13), intervenne introducendo una serie di garanzie fondamentali che riguardavano i punti “nevralgici” del processo penale. Si considerino, innanzitutto, le norme costituzionali che introducono la separazione dei poteri dello Stato, riaffermata con particolare enfasi a garanzia dell’ordine giudiziario. Al medesimo orientamento possono ricondursi quelle disposizioni che sanciscono la separazione delle funzioni tra gli organi giurisdizionali nell’ambito del processo penale: il diritto di difesa, sancito come “inviolabile in ogni stato e grado del procedimento” (art. 24, comma 2); l’azione penale “obbligatoria spettante al magistrato del pubblico ministero (art. 112); il principio del “giudice naturale precostituito per legge (art. 25, comma 1).

Come può notarsi l’insieme di queste norme dimostra in modo chiaro che il costituente ha ritenuto che le attività relative al processo penale dovessero far capo a organi distinti.

Ai diritti dell’imputato più nello specifico si ricollegano le disposizioni che riconoscono i “diritti inviolabili della persona umana” (art. 2). L’elenco è dettagliato: tutela della libertà personale (art. 13); tutela della libertà di domicilio (art. 14); tutela della libertà di corrispondenza (art. 15); tutela della libertà di circolazione (art. 16); presunzione di non colpevolezza fino a sentenza di condanna divenuta definitiva (art. 27 comma 2). Infine, tale orientamento “solidaristico” trova la sua consacrazione negli articoli 2 e 3 della Costituzione (14). A esso possono ricondursi tutte le norme che tendono a rimuovere gli ostacoli di carattere economico che impediscono l’eguaglianza sostanziale: l’art. 24, comma 3 (“sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione”); l’art. 24, comma 4 (“la legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari”); l’art. 112, che, nel prevedere come obbligatoria l’azione penale, garantisce, comunque, che l’iniziativa del processo prescinda dalle condizioni economiche svantaggiate della persona offesa dal reato.

3. Il Codice di Procedura Penale del 1988: caratteristiche di un nuovo sistema tendenzialmente “accusatorio”.

La riforma – alla fine degli anni ‘80 – del codice di procedura penale realizzò un’opera rivoluzionaria nella misura in cui determinò la netta rottura con una tradizione ultracentenaria di continuità inquisitoria.

Con la legge-delega del 16 febbraio 1987 n. 81 il Parlamento italiano precisò i criteri direttivi, riconducibili a tre indirizzi fondamentali, che il Governo avrebbe dovuto seguire nell’elaborazione del nuovo codice di procedura penale:

  1. dare piena attuazione ai principi introdotti dalla Costituzione e riferibili in modo diretto al processo penale;

  2. adeguare la legislazione processuale penale vigente alle Convenzioni internazionali, ratificate dall’Italia e relative ai diritti della persona (15);

  3. attuare i caratteri del sistema accusatorio” secondo i principi direttivi enunciati nella legge-delega stessa.

Il nuovo codice del 1988 (16), dunque, prende vita sulla scia di un’esigenza di modernizzazione della legislazione processuale penale, ancora troppo ancorata a logiche inquisitorie ormai comunemente considerate inaccettabili in un contesto normativo e ideologico definitivamente avviatosi, a livello internazionale, verso una concezione “garantistica” dei diritti fondamentali della persona umana e, conseguentemente, dell’imputato. Il ricorso esplicito a un modello a tendenza “accusatoria” ne è la chiara dimostrazione, considerate quelle che sono le sue caratteristiche principali (17), ossia:

L’iniziativa processuale di parte. L’iniziativa del processo penale deve spettare soltanto alle parti, non al giudice che, determinando l’oggetto del processo, si dimostrerebbe parziale. E’ proprio la presenza di un “accusatore” (il magistrato del pubblico ministero, per i reati perseguibili d’ufficio) che conferisce il nome a questo sistema processuale.

L’iniziativa probatoria di parte. E’, con tutta probabilità, uno dei tratti differenziali più marcati rispetto a un regime probatorio di stampo inquisitorio. In particolare, i poteri di ricerca, ammissione e valutazione della prova non possono essere attribuiti a un unico soggetto (sia esso il giudice o lo stesso accusatore), bensì suddivisi e ripartiti in modo omogeneo tra il giudice, l’accusa e la difesa, evitando a priori possibili abusi unilaterali. Colui che accusa (il magistrato del pubblico ministero) ha l’onere di ricercare le prove e di convincere il giudice della colpevolezza dell’imputato. Colui che si difende deve avere la possibilità di ricercare le prove in base alle quali possa, viceversa, convincere il giudice della sua “non colpevolezza”. Il giudice, dal canto suo, deve soltanto decidere, in linea con le disposizioni di legge, se ammettere o no il mezzo di prova richiesto, verificandone, altresì, la pertinenza e la rilevanza ai fini dell’accertamento che deve compiere (18).

Il contraddittorio. E’ il principio direttamente e immediatamente conseguente al nuovo regime probatorio così come introdotto dal codice di procedura penale del 1988, in linea con il modello accusatorio d’ispirazione e punto di riferimento essenziale nell’ambito della formazione della prova. Adempie due funzioni fondamentali:

  1. tutelare i diritti di ciascuna parte, garantendo la possibilità di contribuire in modo diretto alla ricostruzione, per ciascuna di esse preferibile, del fatto per cui si procede;

  2. costituire una tecnica più efficace di accertamento dei fatti, che solo attraverso la contrapposizione dialettica dei soggetti in causa (cd. metodo “dialogico”) possono aspirare a rappresentare la realtà. Ne consegue che maggiore è il tasso di contraddittorio garantito in giudizio, tanto meglio potrà essere accertata la verità (19).

L’oralità. E’ una delle caratteristiche peculiari del contraddittorio, diremmo la modalità preferibile attraverso la quale si garantisce una sua compiuta esplicazione. L’oralità consente, nel frattempo, di valutare la credibilità e l’attendibilità di un testimone (o di altro dichiarante).

La presunzione d’innocenza. Espressamente sancita dall’art. 27 comma 2 della Costituzione, si traduce in una serie di disposizioni codicistiche volte a garantire la presunzione di non colpevolezza del soggetto sottoposto al processo fino a che intervenga, eventualmente, nei suoi confronti una sentenza di condanna divenuta definitiva. Ne consegue che chiunque accusi una persona della commissione di un reato deve convincere il giudice, terzo e imparziale, adducendo le relative “prove a carico”, della sua colpevolezza; l’organo giudicante, d’altro canto, può condannare l’imputato soltanto qualora l’accusa abbia dimostrato la reità del soggetto oltre ogni ragionevole dubbio (20).

Tuttavia è opportuno considerare che alcune delle caratteristiche peculiari del nuovo modello processuale accusatorio non trovavano ancora un preciso e compiuto riscontro, in linea di principio, nella Costituzione Repubblicana (si pensi, su tutte, proprio al contraddittorio nella formazione della prova dibattimentale, specialmente nell’accezione di “contraddittorio come regola di giudizio”). La Carta costituzionale, infatti, nella sua originaria formulazione, si limitava a sancire l’obbligo di motivazione per tutti i provvedimenti giurisdizionali a carattere decisorio (vecchio art. 111 Costituzione, comma 1) e la possibilità di ricorrere in Cassazione (per soli motivi di legittimità) avverso le sentenze e i provvedimenti incidenti sulla libertà personale dell’imputato (vecchio art. 111 Costituzione, comma 2).

Con il tempo, dunque, divenne evidente e sentita la necessità di elevare al rango di “principio” fondamentale dell’ordinamento giuridico italiano quel complesso di garanzie più strettamente processuali riconosciute e affermate in modo sempre più pressante dalla giurisprudenza e dalla dottrina processualpenalistica (21).

4. La crisi del nuovo sistema accusatorio: a) genesi della “controriforma”.

Il ventennio di applicazione del primo codice di procedura penale dell’Italia repubblicana, ci consegna un quadro di forte instabilità normativa, contraddistinto da molteplici revisioni della legge processuale: la riforma diviene ben presto terreno di scontro, anche politico, tra quanti l’avevano fortemente sostenuta coltivando l’ambizione di completarla in senso garantistico e, quanti, invece, l’avevano avversata ritenendola poca efficace nella lotta contro il crimine.

In tale contesto hanno origine i numerosi tentativi, molti dei quali riusciti, di attuare la “riforma della riforma”, mediante interventi disorganici, non ispirati a un comune sistema di valori e spesso dettati da logiche emergenziali.

Superata la fase sperimentale di applicazione del nuovo codice (22), contraddistinta da provvedimenti legislativi scarsamente rilevanti sul piano sistematico, prende sempre più corpo il confronto – destinato a trasformarsi ben presto in conflitto – tra i soggetti del processo penale i cui rapporti di forza il nuovo codice aveva profondamente modificato. In particolare è la Magistratura inquirente ad avversare aspramente il principio di separazione tra fase delle indagini e fase del giudizio, ritenendolo irragionevole e foriero di limiti (divieti) probatori in grado di vanificare l’utile esercizio dell’azione penale.

E fu proprio l’intolleranza verso la distinzione tra procedimento (per le indagini) e processo (per il giudizio) a costituire la matrice “culturale” di plurime questioni di illegittimità costituzionale che indussero i Giudici della Consulta, sul finire del cd. triennio sperimentale del nuovo codice, a emanare tre pronunzie sostanzialmente “corrosive” dell’impianto originario del nuovo codice:

  1. la sentenza n. 24 del 31/1/92, che dichiarò costituzionalmente illegittimo il comma 4° dell’art. 195 c.p.p., per violazione dell’art. 3 Cost.: la Corte rilevò, in particolare, che la suddetta norma introduceva una “irragionevole differenza di trattamento” tra l’agente o l’ufficiale di polizia giudiziaria e un qualunque altro teste;

  2. la sentenza n. 254 del 3/6/1992, con cui fu dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 513 comma 2 del c.p.p. nella parte in cui non prevedeva che, qualora il coimputato di reato connesso in processo separato si fosse avvalso della facoltà di non rispondere, si potesse dare lettura (e quindi utilizzare ai fini della decisione) delle dichiarazioni rese dal medesimo in sede d’indagine;

  3. la sentenza n. 255 del 3/6/92, con cui fu dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 500, commi 3 e 4, c.p.p., nella parte in cui non prevedevano l’acquisizione al fascicolo del dibattimento (e quindi la possibilità di utilizzarli ai fini della decisione) delle dichiarazioni rese dal teste in sede d’indagini oggetto di contestazione nel corso dell’esame.

La pronuncia da ultimo indicata, richiamando anche le due precedenti, argomentava nel senso che nel sistema processuale introdotto dal codice d’ispirazione accusatoria, il principio del contraddittorio e, quindi, dell’oralità (e dell’immediatezza) nell’assunzione della prova dichiarativa dovesse convivere, nel contempo, con il principio di “non dispersione (o conservazione) della prova”, quest’ultimo volto a garantire che i materiali antecedentemente raccolti nella fase delle indagini preliminari non venissero del tutto vanificati nei casi in cui non si fosse riuscito, per specifici motivi indicati nello stesso codice (casi di c.d. “irripetibilità dell’atto”, originaria o sopravvenuta), a riprodurre la prova in dibattimento. Solo attraverso il corretto bilanciamento dei principi del contraddittorio, dell’oralità e dell’immediatezza col principio di “non dispersione della prova”, sarebbe stato possibile garantire il perseguimento del “… fine primario ed ineludibile del processo penale che non può non rimanere quello della ricerca della verità”.

5. Segue: b) la sentenza n. 255/92 e l’affermazione del principio di “non dispersione delle prove”.

Come accennato, l’esigenza di salvaguardare la “completezza” degli elementi a disposizione dell’organo giudicante ai fini di una corretta definizione del processo ha indotto la giurisprudenza costituzionale a sottolineare ripetutamente la potenziale dannosità sull’accertamento del “vero” di una dispersione del materiale probatorio individuato e assicurato nelle fasi antecedenti al dibattimento. In quest’ottica appare proficuo soffermare la nostra attenzione sulla sentenza della Corte Costituzionale n. 255 del 3 Giugno 1992, che, quasi contestualmente alla sentenza n. 254/1992, dichiarò, come detto, l’illegittimità costituzionale dell’art. 500 commi 3 e 4 c.p.p. nella parte in cui non prevedeva l’acquisizione al fascicolo per il dibattimento delle dichiarazioni precedentemente rese dal testimone e contenute nel fascicolo del P.M., laddove fossero state utilizzate per le contestazioni previste dai commi 1 e 2 del medesimo articolo. La formulazione originaria dell’art. 500 c.p.p., infatti, sanciva un netto “sbarramento” tra fase investigativa e fase dibattimentale, prevedendo il divieto assoluto di considerare come prova dei fatti in essa affermati la dichiarazione utilizzata per la contestazione che poteva essere valutata dal giudice del dibattimento soltanto per stabilire la credibilità del teste. “In tal modo, la disposizione costituiva il fulcro di un sistema che privilegia la netta distinzione funzionale fra le fasi del processo: la inutilizzabilità fisiologica degli atti di indagine rappresenta la radicale distinzione tra azione e giudizio e, quindi, tra procedimento per l’azione e processo” (23). La previsione costituiva uno dei pilastri a sostegno del principio di formazione orale e dibattimentale della prova. Erano disciplinate due ipotesi distinte: la contestazione “senza allegazione” e quella “con allegazione”. La prima (comma 1) prevedeva che, nel corso dell’esame testimoniale in dibattimento, si potesse contestare e leggere la dichiarazione precedentemente resa dal teste e inserita nel fascicolo del pubblico ministero. La dichiarazione contestata non poteva costituire prova dei fatti in precedenza riferiti (e il relativo verbale non era allegabile al fascicolo per il dibattimento), ma era valutabile dal giudice unicamente per stabilire la credibilità della persona esaminata; il giudice, cioè, poteva servirsene, ai fini della decisione, soltanto per ritenere non credibile la difforme dichiarazione resa in dibattimento o addirittura per ritenere inattendibile l’intera deposizione (comma 3). L’eccezione (o contestazione “con allegazione”) era prevista solo per le dichiarazioni assunte dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria nel corso delle perquisizioni ovvero sul luogo o nell’immediatezza del fatto (art. 500, comma 4, c.p.p.), in situazioni, cioè, di “particolare e assoluta irripetibilità del contesto storico e ambientale”: tali dichiarazioni, ove utilizzate per le contestazioni nel corso dell’esame testimoniale, erano acquisite al fascicolo per il dibattimento e, una volta lette o specificamente dichiarate utilizzabili, costituivano prova dei fatti in esse affermati, con conseguente deroga all’oralità e al contraddittorio in sede di formazione della prova.

La contestazione “senza allegazione”, che finiva per vulnerare gravemente il principio del libero convincimento, poneva il giudice in una situazione molto difficile: da un lato, non poteva utilizzare come prova la dichiarazione precedentemente resa; dall’altro, doveva valutare se la deposizione dibattimentale, alla luce della contraddizione riscontrata, fosse o no credibile. La conseguenza era che, in non pochi casi, il giudice non poteva utilizzare né la prima dichiarazione (non avente efficacia di prova) né la seconda, astrattamente valida sotto il profilo probatorio ma inficiata di scarsa o nulla credibilità. Quando si trattava di deposizione determinante, eventualmente nell’ambito di un processo per gravissimi reati, la ritrattazione dibattimentale, avvenuta magari in seguito a intimidazioni o lusinghe, poteva pregiudicare l’esito del processo stesso.

Dunque, con la sentenza n. 255/92 la Consulta, nel sancire l’illegittimità costituzionale dei commi 3 e 4 dell’art. 500 c.p.p., per la prima volta e in modo assolutamente chiaro e inequivocabile, fondò le proprie argomentazioni sul cd. “principio di non dispersione della prova”, ponendo l’accento sull’irragionevolezza di un sistema che prevedeva la possibilità che si contestassero al testimone le sue dichiarazioni contenute nel fascicolo del pubblico ministero e, al tempo stesso, che tali dichiarazioni dovessero essere valutate solo per stabilire l’attendibilità del dichiarante. In questa prospettiva la Corte, pur riconoscendo all’oralità il ruolo di principio ispiratore del nuovo codice di rito del 1988, sostenne, tuttavia, che il metodo orale non costituisse affatto il veicolo “esclusivo” di formazione della prova in dibattimento, e “ (…) ciò perché fine primario e ineludibile del processo penale non può che rimanere quello della ricerca della verità (…), di guisa che in taluni casi in cui la prova non possa, di fatto, prodursi oralmente è dato rilievo, nei limiti e alle condizioni di volta in volta indicate, ad atti formatisi prima ed al di fuori del dibattimento (…)”.

Ancor più incisivamente si sostenne che il sistema accusatorio aveva certamente prescelto la dialettica del contraddittorio dibattimentale quale criterio maggiormente rispondente all’esigenza di ricerca della verità; ma accanto al principio dell’oralità sarebbe stato presente “(…) nel nuovo sistema processuale, il principio di non dispersione degli elementi di prova non compiutamente (o non genuinamente) acquisibili col metodo orale (…)”. Proprio sotto questo profilo la norma impugnata appariva priva di giustificazione, ponendo in essere un’irragionevole preclusione nella ricerca della verità: “non (risponderebbe) a logica che tutte le altre dichiarazioni rese dal testimone durante le indagini preliminari (al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria) o addirittura avanti il giudice dell’udienza preliminare, e già entrate nel contraddittorio dibattimentale attraverso il veicolo delle contestazioni, non potessero essere compiutamente utilizzate dall’organo giudicante, al fine dell’accertamento dei fatti, nemmeno quando questi le consideri pienamente veritiere da dover disattendere la difforme deposizione resa in dibattimento (…)”.

Può, quindi, conclusivamente affermarsi che con la sentenza n. 255 del 1992 (ed ancor prima con quella n. 254 del 1992) la Corte Costituzionale demolì l’impalcatura del nuovo codice di procedura penale, ancorata ai principi del contraddittorio, della separazione delle fasi e della inutilizzabilità cd. “fisiologica” degli atti d’indagine e, più in generale, di tutte le dichiarazioni assunte senza la partecipazione difensiva.

Non può stupire, quindi, che da tali pronunce prese nuovamente vita uno spirito probatorio di antica memoria inquisitoria cui la maggior parte della dottrina mosse severe critiche, non potendosi ammettere, da un lato, che la Corte avesse contrapposto il principio di “non dispersione della prova” all’oralità invece che al contraddittorio (come avrebbe dovuto essere) e, dall’altro, che avesse ritenuto il metodo dialogico in contrasto con l’esigenza di accertare la verità dell’enunciato contenuto nell’imputazione.

Tale inammissibile contrapposizione (contraddittorio – ricerca della verità) costituirà uno dei temi principali della successiva giurisprudenza e delle riflessioni sul futuro del processo da parte della dottrina processualpenalistica.

6. Il superamento del conflitto tra potere legislativo e Corte costituzionale: la riforma del giusto processo.

Il rinnovato contesto normativo introdotto dalla “controriforma” fu, dunque, alla base dello squilibrio fra le parti processuali che determinò l’insorgere di un conflitto patologico tra accusa e difesa, destinato presto a trasformarsi da contrapposizione funzionale (magistratura/avvocatura) in vero e proprio conflitto istituzionale (ANM/Camere penali), in quanto, venute meno le esigenze general-preventive preordinate alla tutela della collettività, l’opinione pubblica sarebbe stata meno incline ad assecondare limitazioni dei “diritti processuali dell’individuo” suscettibili di deprimere immotivatamente le ragioni del garantismo.

Fu in tale contesto di vero e proprio scontro ideologico che videro la luce due rilevanti iniziative legislative preordinate, la prima (legge n. 532/1995), ad accrescere il ruolo della difesa nella fase delle indagini preliminari e, in particolare, nel procedimento per l’applicazione delle misure cautelari (l. 532/1995); la seconda (legge n. 267/1997), a recuperare il diritto dell’accusato al confronto dibattimentale con i testimoni a carico, in aperto contrasto con lo spirito della “controriforma” attuata dalla Corte Costituzionale nel 1992 e con la finalità di recuperare il senso della nuova procedura penale introdotta nel 1988.

L’effetto fu “dirompente”: il nuovo testo normativo divenne oggetto di molteplici eccezioni d’illegittimità costituzionale ed il giudice delle leggi, accogliendo le obiezioni sollevate dalla magistratura, emise una decisione (sent. n. 361/1998) che, a distanza di pochi mesi dall’entrata in vigore della novella, ebbe l’effetto di paralizzarne la portata garantista, ponendo le basi per un conflitto tra Parlamento e Corte Costituzionale che sarà all’origine della revisione dell’art. 111 della Costituzione attuata, a distanza di un anno, con la cd. riforma del “giusto processo” (l. cost. 2/1999).

Introdotta per ricondurre nell’alveo costituzionale la clausola del dovuto processo legale (due process of law close) di cui all’art. 6 CEDU, la modifica della norma fondamentale in materia di giurisdizione si segnala anche per la presenza di due riferimenti inediti nella disposizione transnazionale:

  1. il divieto per il giudice di pervenire all’accertamento della colpevolezza sulla base di dichiarazioni rese “da chi, per libera scelta, si sia sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato”;

  2. la disciplina analitica delle deroghe alla regola del contraddittorio nella formazione della prova.

Previsioni, queste ultime, resesi necessarie per rimuovere definitivamente le plurime stratificazioni inserite sul tessuto originario del codice di rito del 1989 dagli innumerevoli interventi della Corte di Cassazione, della Corte Costituzionale e del Legislatore, tutti ispirati alla “logica comune” di consentire, attraverso il superamento del principio di separazione delle fasi ed in nome della realizzazione dello scopo ineludibile del processo – la ricerca della verità -, il recupero dibattimentale, in funzione probatoria, di atti delle indagini preliminari.

Emblematica, sul punto, la riflessione del Legislatore nella Relazione al disegno di legge costituzionale approvato dal Senato della Repubblica il 24 febbraio 1999: “il nuovo codice era ispirato ai princìpi del processo accusatorio, ponendo al centro dell’intero procedimento la fase dibattimentale. Il dibattimento, in condizioni di assoluta parità tra accusa e difesa, era, secondo l’intenzione del legislatore, il luogo ed il momento di formazione della prova e, pertanto, di assoluta garanzia per le parti. Gli interventi legislativi successivi, ma soprattutto le sentenze della Corte costituzionale hanno, di fatto, scardinato l’intero impianto codicistico, trasformando nei fatti una riforma garantista in un vero e proprio strumento inquisitorio e coercitivo nei confronti degli imputati ed il dibattimento in una fase puramente formale e quasi inutile, volta solo a ratificare le tesi precostituite dall’accusa nella fase d’indagine preliminare“.

In questa prospettiva, la nuova formulazione dell’art. 111 Cost., introdotta mediante la legge 1 marzo 2001, n. 63, ha previsto che:

  1. nel processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato … abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico … ” (comma 3);

  2. il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova. La colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore (comma 4);

  3. la legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell’imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita” (comma 5).

Il contraddittorio, quindi, da sempre considerato estrinsecazione del diritto di difesa sancito dall’art. 24 della Costituzione, assurge ad autonomo principio cardine del sistema proprio attraverso la modifica della norma fondamentale in materia di giurisdizione, che ne rafforza la dimensione costituzionale in una duplice prospettiva: assicurare alla persona accusata di un reato il diritto a “contra dicere“; garantire che la “regola di giudizio” utilizzabile per affermare la colpevolezza dell’imputato sia inscindibilmente ancorata al metodo dialogico nella formazione della prova.

 

Bibliografia

AMODIO E., “Libertà e legalità della prova nella disciplina della testimonianza”, in Riv. It. Dir. Proc. pen., 1973, p. 321e ss.

BARGI A., “Procedimento probatorio e giusto processo”, Napoli, 1990

CORDERO F., “Procedura Penale”, VI ed., Milano, 2001

MARTINES T., “Diritto Costituzionale”, Milano, 2000.

RICCIO G. – SPANGHER G., “La procedura penale”, Napoli, 2002.

TONINI P., “La prova penale”, IV ed., Padova, 2000.

TONINI P., “Diritto processuale penale”, Milano, 2008.

2Testo elaborato per il Convegno LA TUTELA PENALE DELLA DIGNITA’ UMANA NELL’ERA DELLA GLOBALIZZAZIONE, 11-13 settembre 2010, Prishtina, Kosova.

3 Il primo codice contenente una regolamentazione organica del processo penale in Italia fu emanato nel 1865 e sostituito da una nuova codificazione della materia nel 1913 e, nuovamente, nel 1930 dal codice di procedura penale conosciuto anche come “codice Rocco“, dal nome del Ministro della Giustizia dell’epoca, Alfredo Rocco.

4 P. TONINI, “Diritto processuale penale”, Milano, 2008.

5 Il modello “inquisitorio” raggiunge l’acme in Francia, nell’ “Ordonnance criminelle” del 1670. “De facto, è un sistema legalmente amorfo; il segreto, quel metodo introspettivo e l’impegno ideologico degli operatori escludono vincoli, forme, termini; conta l’esito. Fiorisce una retorica apologetica i cui argomenti risuonano, tali e quali, in luoghi e tempi diversi” (F. CORDERO, “Procedura Penale”, VI ed., Milano, 2001 p. 21).

6L’imputato diviene (…) un mero oggetto-strumento con il quale soddisfare i fini repressivi dello Stato. L’inquisito concentra attorno a sé l’intera attenzione e subisce in maniera passiva la conduzione della “notizia criminis” attraverso la tartassante applicazione del modello: responsabile o meno, ha l’obbligo di rendere la verità dei fatti, a lui noti, certamente e senza condizioni”.

7 G. RICCIO – G. SPANGHER, “La procedura penale”, Napoli, 2002.

8 In tale contesto fu, infatti, sottolineata la necessità di una “razionalizzazione del fenomeno probatorio penale, sottraendolo al pericoloso soggettivismo imposto dal principio del libero convincimento, nella riscoperta delle regole probatorie legali come congegni volti a limitare in senso negativo il potere del giudice anche sul piano valutativo nell’ambito di un sistema probatorio flessibile e mediante limiti all’ammissione e all’assunzione della prova e, più in generale, mediante regole probatorie legali negative, operanti in rapporto a determinati contesti dell’accertamento giudiziario.” (E. AMODIO, “Libertà e legalità della prova nella disciplina della testimonianza”, in Riv. It. Dir. Proc. pen., 1973, p. 321e ss.)

9 Già durante la vigenza del codice Rocco, come può notarsi, iniziano ad emergere con chiarezza posizioni dottrinali che anticipano quella che sarà la matrice di ispirazione della successiva legislazione processuale penale italiana; si pongono, cioè, le basi per il nuovo modello “accusatorio” cui si ispirerà il successivo codice di procedura penale, secondo il quale “il migliore strumento attraverso cui il giudice possa formarsi il suo libero convincimento è rappresentato dalla dialettica tra le parti” (cit. G. RICCIO – G. SPANGHER, “La procedura penale”, Napoli, 2002).

10 In tale sistema “la dottrina della libera prova giustifica l’esistenza di un giudice totalmente affrancato dai diritti della difesa” (A. BARGI, “Procedimento probatorio e giusto processo”, Napoli, 1990).

11 P. TONINI, “La prova penale”, IV ed., Padova, 2000.

12 La Costituzione della Repubblica italiana fu approvata dall’Assemblea Costituente il 22 dicembre 1947 e promulgata dal capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola il 27 dicembre 1947. Fu pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n. 298, edizione straordinaria, del 27 dicembre 1947 ed entrò in vigore il 1º gennaio 1948.

13 In tal senso, T. MARTINES, “Diritto Costituzionale”, Milano, 2000.

14 Costituzione, “Principi fondamentali”, art. 2 “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo (…)”; art. 3 “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge (…)”.

15 In particolare, la “Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” (o CEDU) firmata a Roma il 4 novembre 1950 ed entrata in vigore il 3 settembre 1953, ed il cd. “Patto internazionale sui diritti civili e politici” firmato a New York il 16 dicembre 1966 ed entrato in vigore il 23 marzo 1976.

16 Definito “codice Vassalli”, dal nome dell’allora Ministro di Grazia e Giustizia, Giuliano Vassalli, cui si deve la riforma del codice di procedura penale del 1930, il nuovo codice fu emanato con decreto del Presidente della Repubblica n. 447 del 22 settembre 1988 ed entrò in vigore il 24 ottobre 1989.

17 P. TONINI, “Diritto processuale penale”, Milano, 2008.

18 In tal senso l’art. 190, comma 1, c.p.p., per cui “Le prove sono ammesse a richiesta di parte. Il giudice provvede senza ritardo con ordinanza escludendo le prove vietate dalla legge e quelle che manifestamente sono superflue o irrilevanti”. Si introduce, dunque, un vero e proprio “diritto alla prova” spettante alle parti, “comprimibile” solo in casi eccezionali e tassativamente previsti dalla legge.

19 Si consideri, su tutti, l’art. 498 c.p.p., che introduce nell’ambito dell’istruzione dibattimentale la cd. “cross examination” o “esame incrociato” dei testimoni; si tratta dello strumento più emblematico a garanzia del contraddittorio nella formazione della prova orale in dibattimento.

20Oggetto di prova, nel processo di tipo accusatorio, è non l’innocenza dell’imputato, bensì la sua colpevolezza in relazione a quel fatto che è descritto nell’imputazione. Se l’accusa non riesce a convincere il giudice della reità dell’imputato “al di là di ogni ragionevole dubbio”, questi deve essere semplicemente dichiarato “non colpevole” (P. TONINI, “Diritto processuale penale”, Milano, 2008).

21 Una siffatta tendenza culturale fu affidata a due “slogans”, che, a distanza di tempo, rappresentano ancora oggi l’“humus” della cultura giuridica contemporanea : “una nuova struttura per i diritti procedurali” e “contraddittorio per la prova, non sulla prova”. Come da più parti affermato, le suddette formule costituirono, allora, la sintesi del passaggio dal diritto ai diritti e la premessa ontologica e pre-giuridica del progressivo accantonamento del “processo con istruzione” (G. RICCIO, “Relazione”, § 1, “La genesi della riforma in senso accusatorio del Codice di Procedura penale”).

22 Il triennio previsto dall’art. 7 della legge-delega del 1987 che attribuiva al Governo il potere di emanare norme integrative e correttive, nel rispetto dei principi e criteri direttivi fissati dagli artt. 2 e 3.

23 G. RICCIO – G. SPANGHER, La procedura penale”, Napoli, 2002.

Saccone Giuseppe

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