Il Processo nella ragione morale “assolutista”

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Il Processo definito da Satta un mistero, è l’arena entro cui risolvere ritualmente la conflittualità nata a livello sociale e personale, è uno specchio dei limiti dell’umanità ma anche delle capacità dell’uomo di guardare a se stesso  (S. Satta, Il mistero del processo, Piccola Biblioteca Adelphi ed., 2013), nella conflittualità che in esso si sviluppa, tra il giostrare delle parti entro confini di spazio e tempo secondo procedure che ne dovrebbero limitare l’arbitrio, si pone il problema della decisione quale misto di interpretazione, giudizio e sentire, la quale di per sé interviene quale atto finale di una procedura che è manifestazione di una violenza rituale necessaria al suo contenimento nella dinamica sociale che contiene già in sé elementi di violenza .

Nagel  rileva esservi nell’individuo due categorie di ragioni morali che possono chiamarsi “ utilitariste” e “assolutiste”, nel primo caso prevale l’interesse per quello che “accadrà”, nel secondo caso l’interesse prevalente è per quello che “si fa”, nella realtà è difficile che la scelta avvenga tra risultati totali, le intuizioni morali sono più sfumate a meno che non prevalgano ragioni dottrinarie, deve comunque sempre considerarsi il rischio della creazione di un precedente con possibili effetti disastrosi a lungo termine, in questo dilemma il sistema giudiziario è programmato sull’assolutismo ossia sulla procedura di quello che si fa, non vi è una considerazione per quello che  accadrà, per i risultati complessivi, esso giocando sull’imparzialità viene a superare la considerazione   per i risultati nel loro insieme che è propria dell’azione pubblica (T. Nagel, Questioni mortali, Il Saggiatore, 2015).

Il concentrarsi del sistema giudiziario sulla categoria morale “assolutista” in un gioco di forze contrapposte, può avere un effetto stabilizzante tale da fare perdere la plasticità al sistema, vi è una neutralizzazione antagonistica dove si ha una perdita di presa sul mondo reale con la conseguente pura astrazione delle idee ed una stabilizzazione sclerotica delle stesse (F. C. Pappato, “C’è ancora una macchia qui”. Il tempo del male, in La plurivocità del male, a cura di A. Maccariello, Aracne ed., 2009), questo rientra tuttavia nella tecnicità, ovvero nella prevedibilità weberiana della decisione che la società tecnologica, l’economia moderna richiede, è il rapporto che certezza e divenire ricercano attraverso la modifica giurisprudenziale oltre che normativa a divenire difficile, quantificare la violenza che la società della misurazione richiede.

L’aggressività è parte della specie umana che può essere canalizzata nel processo di socializzazione (Dollard e Miller), deterrenti quali rappresaglie sociali e il potenziale potere delle vittime ne favoriscono il contenimento (Bandura e Walters), come al contrario ne potenzia l’impulso aggressivo la “de individualizzazione” (Zimbardo) o la stessa partecipazione all’aggressività sociale in cui vi è un feedback, l’aggressività  tuttavia è anche e soprattutto una risposta presa in cui le potenzialità della specie vengono affinate dall’osservazione dei benefici che se ne possono godere, “l’aggressività paga” (Buss e Bandura ), vi è pertanto la necessità sociale del processo quale atto violento che contenga in sé la catarsi sociale, specchio di un impedimento alla tendenza, reale o presunta, socialmente distruttiva dell’individuo (Olweus).

Già Satta si lamentava della dissociazione tra diritto e processo, “con la fatale conseguenza che il processo non ci appare più in funzione del diritto, ma il diritto in funzione del processo,  e il processo ormai come l’unica sconsolata realtà nella quale si risolve quella vana astrazione che si chiama diritto” (62, cit.), tanto “che il processo può dar diritti a chi non ne ha e toglierne a chi ne possiede” (63, cit.), il prevalere esclusivo delle ragioni morali “assolutiste”, concentrate prevalentemente sul che si fa, conducono alla tanto temuta dissociazione tra diritto e processo, all’impossibilità della trasformazione della lex in jus ossia dalle fredde parole al calore delle idee, come ci ricorda, relativamente alla Carta costituzionale Zagrebelsky, la riflessione deve primariamente avvenire in se stessi e non nell’oggetto (Hume), se si vuole contemperare le due categorie di ragioni morali indicate da Nagel  (R. De Monticelli, Al di qua del bene e del male, Einaudi, 2015), perché è facile limitarsi agli aspetti tecnici ma non si dovrebbe mai dimenticare anche delle conseguenze del “che si fa”.

Dott. Sabetta Sergio Benedetto

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