Il principio di colpevolezza e le condizioni obiettive di punibilità

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Il principio di colpevolezza impone che la responsabilità penale di un soggetto sia fondata, oltre che dal nesso di causalità materiale che lega la condotta all’evento, anche da un coefficiente soggettivo. La colpevolezza ricomprende, quindi, l’insieme delle condizioni psicologiche necessarie per fondare una imputazione personale del fatto al suo autore.

Concetti distinti dalla colpevolezza sono la coscienza e la volontà con cui il soggetto compie l’azione, che dimostrano l’appartenenza materiale della condotta allo stesso e l’imputabilità del reo, che si basa sulla sua capacità di intendere e di volere nel momento in cui ha commesso il fatto.

La colpevolezza è stata oggetto di due interpretazioni. Secondo una prima tesi interpretativa, è da intendersi in una accezione psicologica in base alla quale essa rappresenterebbe il nesso psichico che lega l’autore al fatto. In questa prospettiva la colpevolezza è uguale per tutti i fatti, per cui riuscirebbe a fondare la responsabilità del soggetto e dunque a stabilire l’an della responsabilità penale, ma non sarebbe in grado di differenziare il quantum della pena.

Altro orientamento individua la colpevolezza secondo un’accezione normativa, che esprime il rapporto di contraddizione esistente tra la volontà del soggetto e la norma penale.

Questa tesi, oltre a fondare la responsabilità penale, è in grado di determinare il quantum della pena sulla base della maggiore o minore anti doverosità della condotta.

Le forme di colpevolezza sono descritte dalle disposizioni codicistiche ex artt. 42 e 43 del Codice Penale. Una forma di colpevolezza è rappresentata dal dolo che sussiste tutte le volte in cui un evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del reato, è dall’agente preveduto o voluto come conseguenza della propria azione o omissione.

Ulteriori forme di colpevolezza sono la colpa e la preterintenzione. La prima sussiste quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di legge, regolamenti, ordini o discipline. Il suo accertamento necessita di una doppia valutazione: la misura oggettiva della colpa consistente nella violazione della regola di cautela e la misura soggettiva consistente nella connessione psicologia della condotta all’agente.

La preterintenzione, infine, sussiste nelle ipotesi in cui l’azione o l’omissione dell’agente va oltre la sua intenzione determinando un evento più grave di quello voluto.

Il principio di colpevolezza trova piena compatibilità con la funzione rieducativa della pena. Se la sanzione penale serve a rieducare il soggetto è necessario che questi, oltre a commettere materialmente il fatto sia rimproverato sotto il profilo soggettivo. Diversamente la pena svolgerebbe la funzione, opposta, diseducativa.

Inoltre la ratio del principio in esame, ossia di rendere il rischio penale prevedibile e calcolabile, è la medesima di quella posta a fondamento di altri principi costituzionali quali, ad esempio, il principio di riserva di legge.

Tuttavia, si potrebbe osservare che la funzione general-preventiva della pena, che mira a dissuadere dalla commissione di ulteriori reati, è pienamente compatibile con una responsabilità oggettiva, disattendendo così il principio di colpevolezza.

Tali conclusioni non possono ammettersi vigendo nel nostro ordinamento costituzionale il principio personalistico che pone al centro la persona umana rendendo recessive le ulteriori finalità di politica criminale.

Inoltre, il principio di colpevolezza in seguito alle due note sentenze della Corte Costituzionale del 1988[1], può dirsi consacrato all’interno della carta costituzionale. L’art. 27 della Costituzione, nell’affermare che la responsabilità penale è personale, non si limita a vietare la responsabilità penale altrui, ma sancisce che, perché si realizzi una responsabilità penale oltre alla materiale realizzazione del fatto illecito sia necessario un coefficiente psicologico soggettivo.

La giurisprudenza di legittimità ha precisato che il principio di colpevolezza è riferito ai soli elementi significativi della fattispecie escludendo che gli altri debbano sottostare a questo principio.

Per elementi significativi della fattispecie si intendono quelli che contribuiscono a formare l’offesa del reato, ossia che incidono sull’an e sul quantum della pena.

Il principio di colpevolezza trova il suo fondamento anche nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Una pronuncia della Corte EDU[2], nel condannare l’Italia per aver applicato la confisca urbanistica in assenza di condanna non sussistendo il fatto per assenza dell’elemento soggettivo, ha affermato che l’articolo 7 CEDU, oltre a consacrare il principio di legalità e irretroattività, positivizza il principio di colpevolezza.

Sebbene, alla luce di quanto affermato, il principio di colpevolezza potesse trovare il suo fondamento, ancor prima della pronuncia della Corte Costituzionale, attraverso una valutazione complessiva della norma costituzionale, l’impianto tradizionale del codice Rocco non è apparso particolarmente compatibile con tale principio.

Innumerevoli risultavano essere le fattispecie penali che punivano il soggetto per il solo fatto di commettere materialmente l’illecito.

Le norme, tradizionalmente intese di aberratio ictus e  di aberratio delicti, ovvero il caso in cui si commette un delitto diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti o ne muta il titolo di reato, sono tutte ipotesi in cui il soggetto agente veniva punito come se il reato fosse doloso e, in alcune ipotesi colposo, seppur ontologicamente fossero ipotesi di responsabilità oggettiva, mancando qualsiasi coefficiente soggettivo che legasse l’autore con l’evento.

In seguito all’intervento della Corte Costituzionale nel 1988, tali interpretazioni non potevano essere più condivise.

Nel valorizzare il principio di colpevolezza, la commissione ministeriale per la riforma del codice penale, sia nella Relazione conclusa nel 1999, che nel Progetto preliminare di riforma della Parte Generale del Codice Penale, ha affermato la necessità di conformazione delle Codice al principio fondamentale e Costituzionale di colpevolezza.

Numerose furono, infatti, le sentenze interpretative di rigetto pronunciate negli anni successivi e volte a interpretare la tradizionale ipotesi di responsabilità oggettiva in forma Costituzionalmente orientata.

La Giurisprudenza, nell’individuare un requisito soggettivo minimo idoneo a fondare una responsabilità personale del colpevole, ha legittimato la possibilità che si venisse a realizzare una discordanza tra il coefficiente soggettivo presente e la sanzione applicabile.

Il principio di colpevolezza è estraneo alle logiche sanzionatorie che, al contrario, devono risultare rispettose del principio di offensività e meritevolezza della pena.

Tra le pronunce giurisprudenziali volte a conformare il Codice Penale al principio di colpevolezza, significativa appare quella avente ad oggetto l’articolo 609 sexies del Codice Penale[3].

La disposizione rubricata “ignoranza dell’età della persona” letteralmente prevede che, se i delitti di natura sessuale di cui agli articoli 609 bis, 609 ter, 609 quater, 609 quinquies e 609 octies sono commessi in danno di persona minore di anni quattordici, il colpevole non può invocare l’ignoranza dell’età della persona offesa.

Interpretata quale ipotesi di responsabilità oggettiva, la disposizione in esame derogava sia la regola generale secondo cui, ove l’età rappresenti un elemento tipico del fatto, l’agente è punito solo in presenza del coefficiente doloso, sia la regola di cui all’articolo 59 comma 2 c.p. come modificata con la legge n. 19 del 1990, in base alla quale, ove l’età della vittima si configuri come circostanza aggravante, essa è applicabile solo se conosciuta o conoscibile dal colpevole.

La pronuncia della Consulta, interpretando la norma secondo Costituzione, ha chiarito come il soggetto agente, perché possa dirsi responsabile penalmente ed essere punito come se avesse commesso un illecito doloso, è necessario che ignori l’età colpevolmente.

È, dunque, colpevole colui che conosceva o avrebbe potuto conoscere l’età del minore.

Così interpretata la disposizione continua a derogare  la regola generale in base alla quale, ove l’età rappresenti un elemento tipico del fatto, il soggetto dovrebbe andare esente da responsabilità anche nell’ipotesi di condotta colposa, mentre si pone in piena compatibilità con l’art. 59 comma 2 codice penale.

Altra ipotesi di sentenza interpretativa di rigetto si ha con riferimento all’aberratio ictus ex art. 82 codice penale.

La fattispecie, prima della consacrazione in Costituzione del principio di colpevolezza, era oggetto di due differenti interpretazioni dottrinali.

Secondo una prima minoritaria dottrina, ove il soggetto per errore durante la fase esecutiva dell’illecito avesse colpito altro soggetto , si sarebbe delineato un delitto doloso.

Il dolo, con cui l’agente avrebbe dovuto colpire la vittima designata, sarebbe traslato nell’illecito commesso verso la vittima effettiva.

Questa tesi si fondava sulla convinzione che l’elemento soggettivo doloso si accertasse in astratto, ovverosia considerando un evento di genere e non hic et nunc.

Altro orientamento dottrinario, al contrario , interpretava la fattispecie come ipotesi di responsabilità oggettiva in cui il reo veniva punito come se il reato fosse doloso.

Alla luce del principio di colpevolezza, la Corte Costituzionale ha escluso che possa realizzarsi una responsabilità priva di coefficiente psicologico minimo.

L’agente è penalmente rimproverabile come se avesse commesso il reato in danno della persona che voleva offendere, ove si accerti che l’evento concretamente connesso sia prevedibile.

Anche la successiva fattispecie riferita all’aberratio delicti è stata oggetto di interpretazione costituzionalmente orientata.

Seppure, già prima della sentenza del 1988 parte della dottrina riconduceva la stessa ad una ipotesi di responsabilità soggettiva colposa, l’orientamento prevalente, nell’interpretare la locuzione  “a titolo di colpa” di cui all’art. 83 c.p., configurava l’aberratio delicti come ipotesi di responsabilità ontologicamente oggettiva punita come se fosse colposa.

Oggi questa ultima tesi non può condividersi. Sarà , dunque, opportuno giustificare la responsabilità penale accertando il nesso soggettivo colposo.

La costituzionalizzazione del principio di colpevolezza ha portato a riflettere in merito alla natura giuridica da attribuire alla forma di colpevolezza preterintenzionale. In passato parte della dottrina riconduceva la preterintenzione ad una forma di colpevolezza  complessa di dolo misto a responsabilità oggettiva. Mentre l’evento voluto era sorretto da un coefficiente soggettivo doloso, l’evento più grave si attribuiva all’agente senza la necessità che si accertasse alcun nesso soggettivo.

Oggi, le tesi maggiormente avallate in dottrina e in giurisprudenza riconducevano la preterintenzione nella forma complessa di dolo misto a colpa, ovvero quale forma di colpevolezza autonoma.

Secondo la prima, l’evento realizzato e non voluto deve essere sorretto da un coefficiente psicologico soggettivo da accertarsi in concreto. Secondo la seconda, l’elemento psicologico del reato preterintenzionale è unico perché ad esso corrisponde un solo evento progressivo, da cui dipende l’esistenza del reato.

Il principio di colpevolezza pone delicati problemi di compatibilità con le condizioni obiettive di punibilità.

Queste sono previste all’articolo 44 codice penale in base al quale quando per la punibilità del reato, la legge richiede il verificarsi di una condizione, il colpevole risponde del reato anche se l’evento , da cui dipende il verificarsi della condizione, non è da lui voluto.

La disposizione codicistica non offre alcuna nozione della stessa.

Un ruolo fondamentale è stato assunto dalla dottrina che ha proposto due diverse definizioni.

Secondo un primo orientamento, le condizioni obiettive di punibilità rappresentano degli elementi concomitanti o successivi al reato, estranei ad esso, che delimitano la risposta penale per ragioni di opportunità.

In base a questa prospettiva, avremmo un reato perfetto non punibile fino a che non si verifichi un dato evento estraneo. Si realizza, quindi, una scissione tra punibilità e reato.

Altra tesi, invece, muovendo dal fatto che non possa realizzarsi una scissione tra reato e punibilità, sostiene che la condizione obiettiva di punibilità sia quell’elemento futuro e incerto necessario per integrare il reato.

Quanto alla ratio sottesa a questa categoria , a fronte di chi ritiene che serva per neutralizzare le istanze di colpevolezza nei casi in cui l’accertamento del coefficiente soggettivo risulti eccessivamente difficoltoso, si oppongono coloro che giustificano tale istituto sulla fase del principio dell’obbligatorietà della azione penale.

In questa prospettiva, mentre in passato il giudice avrebbe potuto discrezionalmente individuare le ipotesi non meritevoli di punibilità, in seguito alla consacrazione dell’obbligatorietà dell’azione penale la pena viene irrogata in ogni caso.

Alla luce di questo orientamento il legislatore, quindi, avrebbe introdotto alcune ipotesi tassative  di esclusione della  punibilità, non ritenendole meritevoli di pena, se non al verificarsi delle condizioni obiettive.

Le condizioni obiettive di punibilità si distinguono in intrinseche ed estrinseche. Le prime , dette anche improprie, contribuiscono a determinare l’offesa del reato, formandola progressivamente o aggravandola.

Le seconde sono estranee all’offesa del reato e ne delimitano la risposta penale per ragioni estrinseche di opportunità.

Queste ultime non pongono articolari problemi con il principio di colpevolezza. La stessa Corte Costituzionale nel 1988 ha escluso che gli elementi della fattispecie estranei alla offesa  di reato dovessero sottostare al principio di colpevolezza, legittimando le condizioni  obiettive di punibilità estrinseche.

Al contrario ove si considerino le condizioni di punibilità c.d. intrinseche, si pongono delicati problemi di compatibilità con il principio di colpevolezza, aggravati dalla difficoltà che si pone nel distinguerli dagli eventi del reato.

Le condizioni di punibilità legittimano la rimproverabilità penale seppure l’evento da cui derivano non è imputabile soggettivamente all’agente.

Già prima dell’intervento della Consulta del 1988, parte della dottrina ha affermato la necessità che le condizioni c.d. intrinseche fossero sorrette da un coefficiente minimo colposo che le legasse al soggetto agente. Sottoponendo le stesse al principio di colpevolezza risultava meno preoccupante, sul versante pratico, la difficoltà  esistente nel distinguere queste ultime dagli elementi costitutivi del reato. Non avendo il legislatore dettato alcun criterio discretivo, si è lasciato ampio margine interpretativo alla dottrina.

Tra gli orientamenti sviluppatesi è venuto  in primo luogo in considerazione il dato letterale. Tutte le volte in cui la legge attribuisca la punibilità di un certo fatto al verificarsi di una determinata circostanza, ciò rappresenterebbe un indizio a favore delle condizioni obiettive di punibilità. Tuttavia non risultò sufficiente.

La condizione obiettiva di punibilità sussisterebbe solo quando il suo verificarsi delinei un piano di interessi diverso oppure più grave , rispetto all’offesa contenuta nel reato.

Successivamente alla consacrazione del principio di colpevolezza nell’art. 27 Costituzione, l’art 44 c.p. è stato necessariamente riletto in chiave Costituzionale.

Con la sentenza della Corte Costituzionale del 1988, la Giurisprudenza ha espressamente escluso che le condizioni obiettive di punibilità c.d. intrinseche possano ritenersi conformi a Costituzione.

Deve, dunque, escludersi che possano esistere condizioni intrinseche di punibilità, ammettendosi solo quelle condizioni che si presentano come elementi concomitanti o successivi al reato che delineano la risposta penale sulla base di ragioni di estrinseca opportunità.

Il criterio distintivo da utilizzare è di tipo sostanziale – funzionale: ogni evento in qualsiasi forma collegato da un nesso eziologico alla condotta tipica o all’offesa rientra negli elementi costitutivi del reato.

In dottrina si è segnalato , che la stessa Corte Costituzionale si sarebbe contraddetta in materia di condizioni di punibilità intrinseche nella pronuncia[4] da essa emanata ad un anno di distanza rispetto a quella esaminata.

Nella specie la Corte , in materia di frode fiscale, ha ricondotto l’alterazione rilevante del risultato della dichiarazione dei redditi nella categoria delle condizioni obiettive di punibilità.

Ammesso che l’alterazione rilevante del risultato della dichiarazione dei redditi abbia natura di condizioni obiettive di punibilità, parrebbe corretto qualificarla come condizione intrinseca data la sua incidenza sul piano dell’offesa.

Eppure, la Corte Costituzionale ha assunto che il disvalore del reato in questione si esaurisca nell’offesa alla trasparenza fiscale, ritenendo che l’alterazione in misura rilevante del risultato della dichiarazione dei redditi svolga una funzione di selezione per mere ragioni di opportunità.

In considerazione di questo passaggio argomentativo , non sembra che la sentenza in esame rimetta in discussione l’indicazione convalidata dalla Corte l’anno precedente.

 


[1] Sentenze 364 e 1085 del 1988

[2] C. eur. dir. uomo, seconda sezione, sent. 29 ottobre 2013, Varvara c. Italia, ric. n. 17475/09

[3] Corte costituzionale, 24 luglio 2007, n. 322

[4] Sentenza Corte Costituzionale 16 maggio 1989, n. 247

Federica Comito

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